Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Pigliate 'na Bastiglia

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Riccardo Limongi

 

Alcune uscite delle Metropolitane delle città che riempiono di aspettative il visitatore, sono come dei sipari davanti ai quali ci si siede comodamente, aspettando di vedere qualcosa che si è già immaginato, che sta lì ad attenderci, un appuntamento che apre la sua vista centimetro per centimetro, mentre si sale per la scala mobile che porta direttamente di fronte al Monumento, alla Piazza, al motivo che ci ha condotto proprio lì; è uno dei modi più spettacolari per giungervi di fronte, perché è come uno scenario che cala dall'alto e contemporaneamente crea un contrasto moderno/antico assai particolare. Una sensazione di scoperta che ho ricercato spesso.

Una di queste occasioni, però, rimase pura immaginazione, perché non sapevo, tanti anni fa, fresco di studi adolescenziali, che la leggendaria fortezza della Bastille era stata completamente distrutta, smantellata e dispersa pietra dopo pietra, e che della sua memoria era rimasta soltanto la piazza che porta il suo nome. Nulla, nemmeno un rudere commemorativo, in perfetto stile franco-drastico.

Salendo su per la scala mobile, dunque, pensavo con grande sorpresa di aver calcolato male l'uscita, e di essermi perso quindi l'effetto-sipario, ma ben presto divenne chiaro che non c'era nulla da vedere, e quel vuoto non diventò una delusione, ma qualcosa che mi suggeriva altro, un'assenzache andava inquadrata in un significato o che si identificasse addirittura con il significato stesso.

Col tempo mi apparve abbastanza chiaro che quel significato doveva essere il legame fra i molteplici livelli del Simbolo e la sua essenza di Immagine ormai astratta che non aveva più bisogno della realtà.
Le immagini del 14 luglio 1789 impresse nella memoria sono molto suggestive: nella pagina del suo diario, quel giorno il Re scrisse soltanto "Niente". E poco dopo il Duca de Liancourt lo informò dei fatti, ed alla sua domanda "E' una rivolta?", si sentì rispondere "No, è la rivoluzione".

 

Ma anzitutto, l'atto stesso dell'aver assalito la prigione-fortezza della Bastiglia, la mattina del 14 luglio, fu un evento secondario e collaterale rispetto agli eventi che incalzavano: gli insorti avevano attaccato l'Hôtel des Invalides per procurarsi le armi, ricavandone poco meno di 30.000 fucili e qualche cannone, ma nemmeno una manciata di polvere da sparo o una palla di cannone, e fu perciò soprattutto per impossessarsi delle munizioni che decisero di marciare anche contro la Bastiglia, che di certo era considerata, va detto, un emblema del potere monarchico.

Né la "presa" poteva dirsi realmente un'impresa poi così straordinaria, dal momento che per il costo eccessivo di gestione e di manutenzione, era ormai stata quasi abbandonata, in procinto di essere definitivamente dismessa, e relegata alla funzione assai limitata di prigione che ospitava soltanto 7 detenuti (quattro falsari, due malati mentali e un libertino) (1), e "difesa", diciamo così, da una guarnigione composta da 82 cosiddetti "invalidi", ovvero i veterani che non potevano più combattere, e qualche guardia svizzera.

Insomma, più soltanto simbolo di così, è difficile immaginare; e tuttavia, la memoria tramandata fino ai nostri giorni l'ha messa nell'Olimpo delle azioni da leggenda, tanto da identificarla quasi con una figura retorica che richiama l'intera Rivoluzione francese, e che si identifica con il giorno di oggi, 14 luglio.

In realtà i fatti vennero subito inventati e diffusi per dare un valore all'impresa di qualità accidentale; circa una o due ore dopo il mezzodì, arrivò una resa nemmeno tanto combattuta da un lato, né onorevole dall'altro, con conseguenti azioni di rappresaglia dei rivoltosi, dal consueto, cruento impeto punitivo. Nemmeno questo rappresenterebbe un ricordo epico, insomma.

A proposito, subito dopo i quattro falsari sparirono, ed i due malati mentali furono rinchiusi nell'ospizio di Charenton dietro esplicita richiesta dei parenti. Se fosse accaduto solo dieci giorni prima, almeno avrebbero liberato il conte Donatien-Alphonse-François de Sade, al secolo Marchese de Sade... sarebbe stato un bel colpo, almeno questo, mentre trovatisi a corto di trofei, presero un torchio da stampa presentandolo come atroce macchina di tortura, e non avendo reperito neanche un prigioniero politico, se ne inventarono uno per l'opinione pubblica, scegliendo fra i sette uno con la barba bianca e chiamandolo Conte di Lorges (peccato solo che il vero Conte fosse morto cento anni prima): una elementare quanto rozzamente efficace operazione di marketing politico.

Se tale è la genesi del simbolo-Bastiglia, è superfluo ma doveroso specificare che nulla toglie al valore, all'importanza ed alla collocazione nella storia dell'evento-Rivoluzione francese, ma serve certo a ricordare come funziona spesso la trasmissione di una leggenda, i cui fatti storici lasciano presto il posto alla ricostruzione che serve al meccanismo della tradizione per potersi tramandare secondo quanto si vuole scrivere sulle macerie da parte di chi quelle macerie ha procurato.

E se da un lato fa bene conoscere qualche dettaglio in più, sebbene a discapito dei colori del quadro sempre raccontato, dall'altro mi pare che aiuti anche l'evento principale a dire di se stesso che nessun simbolo è davvero necessario ad illustrarne un corpus che ha tanta più sostanza quanto più sia aperto lo sguardo che gli si concede. Vive la Revolution.

(1) “quatre faussaires, dont le procès était en cours d'instruction; deux fous, Auguste Tavernier et de White; un noble, criminel, enfermé à la demande de sa famille, le comte de Solages” (Frantz Funck-Brentano, Légendes et archives de la Bastille, Paris, Hachette, 1935).

 

 

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