In Italia la violenza mafiosa è un capitale

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La pubblicazione del XIII rapporto di SOS Impresa mette in evidenza come la crisi stia fornendo ulteriore alimento alla crescita economica delle mafie e fornisce dati ed elementi per riaprire il dibattito sulla criminalità organizzata, ormai fattore “strutturale” dell'economia e della società italiana.

La violenza mafiosa è oggi un fattore economico importante ed è diventata elemento costitutivo di una parte significativa delle imprese e degli “imprenditori” italiani. Chi è in grado di esercitare violenza non è affatto un emarginato ma compete su mercati concorrenziali. Chi ha la possibilità di esercitare la violenza, anche solo come elemento deterrente, possiede un capitale. Sono solo alcune delle riflessioni che affiorano leggendo i dati pubblicati dall'ultimo rapporto, il XIII, di SOS Impresa.

Le impressionanti cifre raggiunte dall'economia mafiosa mettono in evidenza il peso crescente dei clan nell'economia e nella società italiana. Un vero e proprio boom che interessa quasi tutti i comparti dell'economia nazionale, dalla filiera agro-alimentare al turismo, dai servizi alle imprese ed alla persona agli appalti, dalle forniture pubbliche al settore immobiliare, dai servizi finanziario, al settore dell'autotrasporto, alla gestione e maltimento dei rifiuti, etc.

Un fatturato stimato in 137 Mld di euro all'anno, un utile di 104 Mld di cui oltre 65 in denaro liquido. Una cifra pari al 7% del Pil italiano.

 

L'economia mafiosa è un cortocircuito in cui le aziende trasferiscono risorse dall'attività d'impresa alle mafie, attraverso pizzo ed usura, le organizzazione poi reinvestono i capitali nell'economia legale.

La raccolta dei proventi delle attività di narcotraffico e spaccio viene reimmessa nel sistema bancario oltre i confini nazionali e comunitari e viene in parte riutilizzata per garantire credito alle imprese in difficoltà, che spesso finiscono così per essere fagocitate e/o sostituite. Sono soldi che fanno gola in tempo di crisi ed i capitali si spostano sempre più da sud a nord, in cambio di relazioni industriali e collaborazioni imprenditoriali, scambio di know-how e facilitazioni per entrare nel tessuto economico delle aree del nord Italia.

Il monopolio della forza dello Stato non si esercita sui mercati.

La realtà rappresentata oggi dall'organizzazione economica delle mafie spiazza il pensiero economico classico, secondo il quale lo sviluppo capitalistico è stato possibile solo quando i mercati sono stati sicuri. Vista dallo stivale, vacilla anche la concezione della formazione stessa dello Stato, inteso come “regno della forza”, l'insieme delle istituzioni politiche in cui si concentra la massima forza imponibile e disponibile di una società, risultato di una idea di nazione sviluppatasi per governare le relazioni sociali e i rapporti di produzione feudali nello stato patrimoniale assolutista.

Lo Stato-nazione è poi diventato, con la "rivoluzione industriale e con l'ideologia manifatturiera, la “comunità dei bisogni”, la regolazione capitalistica del mercato. La società pre-statuale, luogo dove si formavano e si svolgevano i rapporti materiali di esistenza, è stata così sostituita da una organizzazione in cui la sicurezza è un elemento fondamentale per garantire l'esistenza dell'economia di mercato.

Se per il pensiero economico classico (Adam Smith) il criminale distrugge ricchezza, non la crea, non la fa circolare, anche la successiva definizione weberiana secondo cui lo Stato è un'impresa istituzionale di carattere politico in cui l’apparato amministrativo esercita il monopolio dell'uso della violenza, evidenziava implicitamente il carattere monopolista dello Stato nella gestione della forza.

Ciò che va compreso, in merito allo sviluppo delle mafie, riguarda invece la natura stessa dello Stato moderno, che pur avendo accentuato la capacità di controllo securitario, non è messo in allarme dalla presenza delle organizzazioni mafiose e dal controllo di interi segmenti dell'economia da parte delle mafie. Una materia poco studiata e che, in genere, non interessa gli economisti perché non viene considerata “economia”.

La criminalità è elemento strutturale dell'economia.

La criminalità mafiosa non è un fattore esterno alla storia economica, alla storia politica, alla storia sociale. L'economia criminale non può essere separata dal ragionamento sull'economia in generale. Ciò che è proibito dalle leggi dello Stato non è proibito dal mercato che, da questo punto di vista, si dimostra non regolabile né dalle leggi dello Stato, né dalle leggi “morali”. Se c'è una richiesta, il mercato risponde.

Per il "mercato" è indifferente se questa richiesta (o questo bisogno) sia legale o illegale. Il che vuol dire che non è vero che la criminalità distrugge ricchezza. Se ha tanta forza e tanto consenso è proprio perché la criminalità è uno dei fattori e della circolazione della ricchezza, non è affatto un elemento esterno al mercato. Mentre prima si riteneva che l'economia criminale riguardasse esclusivamente i beni illegali (che in qualche modo distribuivano la ricchezza), oggi bisogna prendere atto che non esiste incompatibilità tra mercati legali e mercati illegali. L'incompatibilità è solo morale e giuridica, non del mercato. Attività e traffici legali ed illegali convivono tranquillamente e sono pagati con la stessa moneta. Non c'è un euro legale o un euro illegale.

Ni Dieu, ni maître, ni l'homme.

Per comprendere il fenomeno dell'economia e dell'impresa mafiosa, integrandolo nell'interpretazione dell'economia italiana, nel suo complesso, in alternativa alle categorie sociologiche e/o criminologiche, negli ultimi decenni si è fatto spesso ricorso alle categorie di impresa e di imprenditorialità, nella loro versione shumpeteriana.

Da questo punto di vista le caratteristiche shumpeteriane dell'imprenditore mafioso sarebbero: a) l'aspetto innovativo, di rottura con il passato più recente, contenuto nel fenomeno dell'ingresso dei mafiosi nella competizione economica; b) l'elemento di razionalità di calcolo capitalistico presente nella condotta dell'imprenditore mafioso e nella sua operazione di recupero selettivo della cultura e dei valori tradizionali c) l'aspetto irrazionale, aggressivo, della stessa attività mafiosa, che si esprime nello spirito “animale” dell'accumulazione della ricchezza.

In realtà l'imprenditore mafioso non mette in atto la “distruzione creativa”, altra caratteristica dell'imprenditore shumpeteriano, che innova in quanto introduce “nuove combinazioni produttive” che gli permettono di ottenere vantaggi competitivi sugli altri imprenditori. Per quanto questo aspetto sia stato già chiarito, decenni fa, dagli studi condotti da Pino Arlacchi, per cui la differenza tra l'imprenditore di Shumpeter e quello mafioso va cercata nei diversi effetti della loro presenza sullo sviluppo economico, nel dibattito politico degli ultimi trent'anni ha spesso prevalso la tentazione “istituzionale” a considerare l'imprenditorializzazione mafiosa come un'attività d'impresa allo stato primitivo dell'accumulazione di capitale e di mezzi produttivi, per poi inserirsi in un contesto legale.

Dov'è l'innovazione?

Nella teoria di Joseph Shumpeter, lo sviluppo economico viene visto come il risultato dell'azione innovatrice dell'imprenditore il quale, perseguendo le sue mete individuali, contribuisce al conseguimento delle mete sociali dello sviluppo. L'imprenditore mafioso invece non ha come obiettivo il “bene comune”.

L'innovazione shumpeteriana è la rottura di un equilibrio produttivo, e quindi l'inizio di un processo di sviluppo economico che avviene nell'ambito della produzione, in conseguenza di eventi che mutano i vecchi sistemi produttivi. Tali mutamenti possono essere determinati dall'introduzione di un nuovo tipo di bene (o una nuova qualità dello stesso); dall'introduzione di un nuovo metodo di produzione; dall'apertura di un nuovo mercato; dalla conquista di una nuova fonte di offerta delle materie prime, o di prodotti semifiniti; dalla riorganizzazione industriale, ovvero dall'affermarsi di posizioni di monopolio, oligopolio, o dalla rottura di una di queste stesse condizioni.

Per Shumpeter le innovazioni che hanno rilievo sono quelle che comportano in generale la realizzazione di impianti nuovi, o la radicale trasformazione degli impianti vecchi. L'obiettivo dell'imprenditore è sempre il profitto. La riorganizzazione produttiva comporta sempre profonde trasformazioni sociali.

Gli imprenditori mafiosi scelgono invece sempre segmenti di mercato parassitari e meno concorrenziali, dove le barriere sono basse o addirittura inesistenti. Le relazioni con i dipendenti e con i fornitori sono basate prevalentemente su criteri clientelari e/o patriarcali. L'organizzazione economica del sistema delle imprese mafiose tende all'equilibrio generale, ed è generalmente caratterizzata da scarsa innovazione tecnologica. Basterebbe chiedersi perché non esistono imprenditori mafiosi che producono macchine, perché le mafie non investono sulla produzione ed investono di più sulla distribuzione? Perché le vere imprese hanno un margine di profitto bassissimo. I mafiosi preferiscono mercati dove i margini di profitto sono molto più alti degli altri mercati legali.

Se si analizzano i dati che emergono dall'azione di contrasto alle mafie degli ultimi anni, si evince che che l'economia criminale, i clan mafiosi, quando entrano sul mercato legale, non abbandonano mai il mercato illegale. Questo è quello che fa del fenomeno mafioso un fenomeno diverso dagli altri. Se una impresa “violenta” arriva su un mercato, e fino ad allora non è mai stata colpita dalle forze dell'ordine, se rispetta le regole del mercato non dovrebbe essere più considerata una impresa violenta. Almeno dal punto di vista teorico, non sul piano giuridico.

Dal punto di vista teorico non lo è più, perché compete senza altri vantaggi. Nel caso dell'impresa propriamente mafiosa non è così, perché i migliori affari continuano ad essere realizzati sui mercati illegali, garantendosi un vantaggio che l'impresa legale non può avere. Perché il denaro che si può accumulare con la droga e con le estorsioni è incomparabile a qualsiasi altro investimento. Osservando nel complesso i risultati raggiunti nella repressione del fenomeno mafioso, sembrerebbe che si sia sortito più l'effetto di obbligare le mafie a spostarsi su altri mercati, che ridurne efficacemente il potenziale economico.

Monaci ricchi e convento povero. Mafie ricche e territori poveri.

Se c'è una richiesta, il mercato risponde. Se poi questa richiesta o questo bisogno sia legale o illegale, il mercato è indifferente. Il che allora vorrebbe dire che non è vero che la criminalità distrugge la ricchezza, in assoluto. Se ha tanta forza e tanto consenso dovrebbe essere proprio perché la criminalità è uno dei fattori della circolazione della ricchezza.

Allora perché le mafie si collocano sul mercato legale con loro aziende? In realtà le mafie non fanno impresa ma sostituiscono imprese già presenti, non contribuiscono all'allargamento del mercato, anzi tendono a immobilizzarlo. Inoltre, quando i profitti sono incerti, i capitali vengono reinvestiti in circuiti lontani dalla realtà dove i clan operano. In genere le mafie operano su settori protetti, in particolare sui flussi del denaro pubblico, in cui il maggior costo è pagato dalla collettività. Parte ingente delle risorse viene utilizzata per consumi opulenti, elemento costitutivo dello Status sociale dei mafiosi, ciò che viene reinvestito sul territorio non è sufficiente per promuoverne lo sviluppo. Così si spiega l'arretratezza delle realtà in cui operano i clan mafiosi, a dispetto dell'enorme ricchezza prodotta dalle mafie.

La criminalità si è impossessata anche dei mercati illegali che prima si muovevano autonomamente operando fuori dalla legge, ma non erano controllati dalla criminalità. Merci contraffatte, droghe leggere, prostituzione, immigrazione clandestina, etc. Sui mercati illegali la criminalità mafiosa monopolizza e prende una parte di quel reddito che quel traffico illegale prima creava senza il controllo mafioso. La criminalità parassita quindi anche l'attività illegale.

Perché le mafie hanno successo nel nord?

Nella interpretazione del “capitale sociale”, nell'ipotesi culturalista, si tende ad identificare il fenomeno mafioso come un fenomeno tipicamente meridionale, connotato da veri e propri marcatori etnici, come se la “cultura” mafiosa fosse un tratto tipicamente siciliano, calabrese o campano. Eppure negli ultimi anni è diventata sempre più evidente la diffusione dell'impresa mafiosa al nord. E' certamente, questo, un dato che andrebbe analizzato con attenzione. Forse vuol dire che la penetrazione per via economica al nord è stata più forte di quella per via culturale, perché la vicinanza culturale al nord è considerata meno importante della vicinanza economica?

 

 

Intervento del sen. Lorenzo Diana alla Presentazione XIII

rapporto sulla criminalità - Prima Parte

 

 

Intervento del sen. Lorenzo Diana alla Presentazione XIII

rapporto sulla criminalità - Seconda Parte

 

 

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