Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I fantasmi del ghiaccio

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Stanotte ho fatto un sogno o forse un incubo che devo assolutamente  raccontarvi, ascoltatemi!

Mi trovavo in una stanza di albergo ad Amsterdam in occasione di un concerto con un noto, ma non troppo, cantante neomelodico.

Ero davvero entusiasta di quell'esperienza ed in occasione del concerto, che si sarebbe tenuto il giorno dopo al centro di Amsterdam , avevo  pensato di assistere ad un "contest"  in un coffee shop in periferia, nel quale si esibiva un gruppo di miei amici ed ex allievi venuti ad Amsterdam in cerca di  produzioni.

Ho percorso velocemente le scale dell'albergo dirigendomi al locale da solo con la mia fidatissima fiat 600. Dopo  un bel po' di strada tra le campagne Olandesi, sono giunto in un posto deserto e, camminando lungo il ciglio della strada, ho intravisto nella nebbia una  grande fabbrica del ghiaccio.  Lungo vetri dell'edificio c'erano tante ombre di uomini stampate sui vetri come fossero dei cimeli di guerra, anime imprigionate nel ghiaccio;  pensavo tra me al significato di quelle ombre: erano lì ferme ad osservare.

Mentre arrovellavo pensieri , costeggiavo lento le mura della fabbrica, ricordando l'estenuante viaggio di un popolo di immigrati alla ricerca di lavoro e di speranze.

 

Finalmente dopo circa  un’ora consumata a girovagare tra la nebbia ed i ricordi, giungevo al locale. Mi soffermai con lo sguardo su una grande insegna luminosa con su scritto "Lido Marco Pola”, ricevendone  l’ impressione di  un posto tetro, ambiguo, un’atmosfera simile ad un film dell'horror anni 50, quelle stesse ombre stampate sui vetri della fabbrica questa volta le vedevo  muoversi come fantasmi tutte intorno; sembravano  ballerini che volteggiavano leggeri e silenziosi. Poi  un tizio alto e muscolo mi accolse sulla soglia e mi introdusse  nel locale. Misi  a tacere quei sinistri pensieri e con accento slavo, accennai un sorriso al tizio chiedendogli: come funziona l'ingresso? Lui allora mi consegnò una tessera con su scritto: la consumazione non è obbligatoria per il resto rivolgersi alla cassa!

 

Mi soffermai a leggere perplesso, poi mi addentrai   facendomi spazio tra la folla,  fino a giungere difronte al palco. Sussultai dalla meraviglia scoprendo che era un “Contest”. Ma che ci faceva  Alain Caron al basso? Caspita che sorpresa! Le premesse erano fantastiche! Alle tastiere riconoscevo Quincy Jones, alla chitarra George Benson ed alla batteria il mio preferito, e tra l’altro uno dei migliori batteristi insegnanti dei nostri tempi: Steve Gadd. Ero felice come nel giorno del mio diciottesimo compleanno, tutto fantastico, formazione ed impianto da paura. Mi sembrava di  vivere un sogno! E dopo questa fantastica premessa intravedevo nel pubblico anche  alcuni miei amici che, accogliendomi in modo caloroso (da veri Napoletani) m'invitavano a bere una birra.

Tutto appariva fantastico, ma quelle ombre sui vetri mi accompagnavano costantemente, come a volermi  ricordare qualcosa, chi fossi e da dove venivo, ed intanto riaffioravano  dentro me  ricordi della mia infanzia, quando dalla finestra di casa intravedevo i fumi dell'Italsider innalzarsi su quella fetta di cielo  come  fantasmi. Tanti incubi, forse, o tante speranze. Improvvisamente si accesero le luci ed iniziò il concerto.

Alan Caron mi guardava con fare sommesso, esibendosi in apertura con  un assolo strepitoso. Ma d’improvviso la porta del locale si spalancò con una violenza inaudita. Cosa stava succedendo? Intravidi sulla soglia  un gruppo di persone in divisa. Un momento di agitazione intorno al palco ed un convulso brusio: era la Finanza e dietro di loro un gruppo di avvocati e dietro ancora l'intera magistratura in divisa ufficiale. La prima cosa che mi venne di pensare fu : Oddio, lo scontrino Fiscale! Non mi hanno fatto lo scontrino fiscale! E adesso come faccio?

Mentre cercavo di trovare una scappatoia  vidi un ufficiale della finanza recarsi verso Alain Caron. Non realizzavo cosa stesse succedendo,  ma dal suo fare pareva che l’uomo in divisa volesse sequestrargli  lo strumento. Era tutto così assurdo. Mi ero ritrovato nel pieno di una retata in un coffe shop ad Amsterdam e tra forze dell’ordine italiane.

Mentre cercavo di avvicinarmi al palco per comprendere cosa stesse succedendo, con estrema nonchalance il finanziere, dopo aver tolto lo strumento dalle mani di Alan Caron,  lo imbracciava ed inizia a suonare. Mi sentii confortato: almeno non avrei avuto problemi per via della ricevuta fiscale.

Contemporaneamente anche Quincy Jones lasciava il posto delle tastiere e veniva sostituito niente di meno che dal mio bidello delle scuole superiori. Sgranai gli occhi allibito, non ci potevo credere! E non era finita qui! Alla chitarra Geoge Benson cedeva il posto ad una persona che mi sembrava di conoscere. Ma si! Era  l'infermiere che aveva  assistito mio padre al policlinico di Napoli!

Improvvisamente, tra le luci abbaglianti ed un pubblico in delirio, saliva sul palco un cantante famoso a tutto il pubblico estero: Toto Cotugno , quello che per un periodo fu onnipresente a Sanremo, e che martellò un’intera generazione con  quella canzone che fa: lasciatemi cantare, perché ne sono fiero, sono un italiano, un italiano vero! In quel momento mi apparve tutto chiaro. Ero finito in un raduno internazionale delle forze dell'ordine capitanato da un portavoce di successo all'estero giusto per consolidare il nostro rapporto con l’Europa di Monti ed Alain Caron, Quincy Jones, George Benson e Steve Gadd non erano  altro che la band resident della serata.

Mentre riflettevo su ciò che stava succedendo dal palco Toto Cotugno annunciava un altro ospite. Ero davvero curioso di conoscerlo, immaginavo si trattasse di  qualche militante austro- ungarico o qualcuno che era immigrato nel periodo delle miniere o forse semplicemente un musicista famoso, dato il contesto

“...e adesso ho il piacere di presentarvi alla batteria uno dei migliori batteristi della nostra fantastica Napoli, un musicista che ha dei trascorsi importanti con i migliori neomelodici di tutti i tempi!”

Questa dei neomelodici mi fece riflettere un po', mentre lui continuava   -  “alla batteria il fantastico, funambolico, poliedrico Joe DeMarco!”

JoeDeMarco? Sono io, ma io non sono un batterista! -  risposi sconcertato e lui “Ma dai Joe tutti sappiamo che sei il migliore e che suoni con i migliori neomelodici di tutti i tempi! Oddio, avrei potuto  ammettere il “fare il batterista”,  ma i neomelodici che centravano?

E va bene, siamo in un sogno ed in un sogno tutto è lecito.

Salii allora sul palco  e Steve Gadd mi porgeva le sue bacchette complimentandosi con me ancor prima che mi fossi esibito. Non sapevo cosa  dire.  Mi guardai intorno e mi ritrovai con tutti i miei allievi sul palco con al basso un ufficiale della finanza, alle tastiere il mio bidello delle superiori e l'infermiere del policlinico alla chitarra. Che strano sogno! E quelle ombre, poi,  tutte intorno che continuavano  ad aleggiare tra tanti occhi spenti ed  a ricordarmi qualcosa, qualcuno che sussurrava tra quei ricordi, tra quelle luci.

Ma a pensarci bene ora ricordo meglio. Eravamo un coffee shop e quelle erano  persone che facevano uso di sostanze stupefacenti, droghe che avevano spento i loro occhi, i loro sogni e le loro speranze o forse erano solo un gruppo di gente abbiente che volevano divertirsi, trascorrendo un po' di tempo cantando e ballando in compagnia e chissà quale altra pratica senza ritegno. Ma si, a quel punto meglio suonare e divertirsi un po’. Fu così che iniziai a battere  il quattro e la serata proseguì a ritmo di swing e cha cha cha.

Era tutto fantastico ed alla fine del contest, dopo saluti baci ed abbracci, mi recai all'uscita del locale per ritornare in albergo ma, arrivati alla porta, mi accolse un uomo brizzolato in abiti eleganti. Aveva il volto di una persona conosciuta, famosa, o forse era semplicemente uno sguardo che avevo  intravisto tra il pubblico. Mi tese la mano e con aria saccente mi si presentò,  pronunciando il suo nome con estrema autorità: Stephan Schmidheiny. Caspita e che ci faceva qui? Non capivo mentre lui mi invitava a seguirlo e silenziosamente mi indicava  la strada, conducendomi prima alla sua macchina e poi fino alla fabbrica del ghiaccio.

Mi girai intorno più volte, alle mie spalle era buio  pesto, oramai  era  notte inoltrata e tutto aveva il sapore non più  del divertimento, all'insegna dell'alcool droga e rock and roll, ma della disfatta. Ero consapevole di un qualcosa che avevo vissuto in altri momenti, in altre circostanze. Ci fermammo  all'ingresso della fabbrica, scendemmo dalla macchina e mentre ci incamminavamo verso l'ingresso, Schmidheiny  con in mano un pezzo di carta straccia e con l'altra indicandomi la struttura, mi fece: se metti una firma qui tutto quello che vedi un giorno sarà tuo. Sentii un groppone prendermi alla gola, non sapevo cosa fare, avrei voluto scappare, era tutto un maledetto incubo. Alzai lo sguardo e dal nulla, intorno a me, erano comparse centinaia di occhi, persone che piangevano ed urlavano a squarciagola il mio nome, volteggiandomi intorno come schegge impazzite.

Erano loro, le ombre, le stesse  che mi aspettavano impazienti guardandomi dai vetri della fabbrica, quelle che mi avevano seguito fino al locale, quelle  che avrebbero voluto  raccontarmi della loro vita e di coloro che ballavano e cantavano senza ritegno e senza rispetto in quel famoso "Lido Marco Pola".

Mi piombarono addosso leggere come folate di vento  e pesanti come macigni, non sapevo cosa fare. Le osservavo attonito, quasi parqalizzato. A stento riuscii a schivare una bambina con un grosso bozzo al collo e poi un uomo con un ventre enorme, senza volto e con le mani intrise di sangue. Mi si aggrapparono al braccio e strattonandomi mi chiedevano “Perché.. perché sei andato lì, perché. Non dovevi venire, non hai rispetto per noi. Vai via, vai via da qui..!”

Di sobbalzo mi sono svegliato da quell’incubo infernale, sudato, impaurito, in un profondo stato di angoscia. Ho guardato fuori dalla finestra di casa mia. Ho visto il sole. Era stato solo un brutto sogno. A casa mia tutto questo non esiste, a Napoli, nella mia terra, con tutte le sue miserie e contraddizioni, c’è sempre un raggio di sole anche se il cielo appare grigio ed ammantato di nubi. Ho aperto la finestra alla speranza. Ed è bastato un solo raggio a sciogliere quei  fantasmi di ghiaccio. Il sole della mia terra , la mia amata Napoli.

 

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