Vittime innocenti. Settembre 1919-2018
Stefano cadde a terra, morendo tra le braccia della ragazzina. Presto i carabinieri individuarono il gruppo criminale, soltanto due degli arrestati erano maggiorenni all'epoca dei fatti. Uno dei due è stato condannato a 30 anni in primo grado, pena ridotta poi a 15 in secondo grado. Stefano aveva tanta voglia di vivere, di amare e di crescere. Resta solo un pensiero alla sua famiglia e a coloro che lo hanno amato: "chi ha ucciso ha meno vita dentro di quanto ne abbia tolta a Stefano. Il ricordo, il sorriso, la bontà di questo ragazzo, che di lì a qualche mese avrebbe compiuto 17 anni, ancora riempie la vita d'amore. In questo Stefano vive, l'amore. In questo forse i suoi carnefici hanno perso la loro vita fin dalla nascita, la mancanza d'amore per sé e per gli altri". Queste le dichiarazioni della sorella di Stefano, Antonella Ciaramella. Alle ore 21:15 del 3 settembre 1982 la A112 sulla quale viaggiava il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata in via Isidoro Carini a Palermo da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccisero il prefetto e la moglie.
Per i tre omicidi sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra, ossia i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci". Il 3 settembre 1998 a Scisciano (NA) venne uccisa Giuseppina Guerriero, 42 anni. Venne uccisa per caso mentre tornava dal lavoro: i killer spararono diversi colpi dalla loro moto a tutta velocità. Quei proiettili erano diretti a Saverio Pianese, capozona del clan Capasso. La donna lavorava come bracciante e aveva successivamente trovato un lavoro serale in una pizzeria come cuoca. Aveva quattro figli di cui la più piccola di 14 anni. Il killer, condannato a 24 anni nel 2001, sparò contro l'auto del rivale, sebbene proprio in quel momento il veicolo della donna stesse entrando nella traiettoria di fuoco. Giuseppina aveva da poco abbandonato il lavoro nei campi per cercare un'occupazione meglio pagata nella ristorazione. Quella sera era proprio di ritorno da un colloquio presso un ristorante di via Garibaldi. Giuseppina morì qualche giorno dopo il suo ricovero al Loreto Mare, la famiglia acconsentì all'espianto degli organi. Il 4 settembre 1990 a Calanna (RC) venne ucciso Angelo Versaci, vigile urbano di 43 anni. Dopo avere passato il pomeriggio con la moglie Annamaria Catalano, dipendente dell’ufficio postale, tornò in paese e si recò al bar per incontrare i suoi amici. Tornò verso casa per ora di cena, ed è lì dopo aver bussato al citofono che un killer gli sparò contro tre colpi di fucile: uno sulla spalla, gli altri due lo centrarono alla testa. Finito nel mirino dei killer per essersi messo di traverso rispetto a dinamiche poco limpide all’interno della sua amministrazione. In quegli anni Reggio Calabria veniva innaffiata di denaro pubblico per gli appalti. Facevano gola a molti… Ma ancora oggi il delitto è avvolto nel silenzio. Il 4 settembre 2006 a Napoli venne ucciso Salvatore Buglione detto Sasà, 51 anni. Fu aggredito da quattro individui che lo accoltellarono nell’edicola della moglie. Aveva cercato di difendersi perché aveva addosso mille euro ed è rimasto vittima dell’ennesima ferocia dei predatori di Napoli: ucciso per sfregio, per punire la sua ribellione. Buglione lavorava come dipendente comunale ma sua moglie, Antonella Ferrigno, era ed è titolare di un’edicola da generazioni. Sasà ogni sera arrivava, dopo il proprio orario di ufficio, nella rivendita dell’Arenella per aiutare la moglie a chiudere bottega e per difenderla da eventuali aggressori prima di tornare a casa. Quel 4 settembre Salvatore prese con sé l'incasso della giornata apprestandosi a chiudere l'edicola. È proprio allora che quattro criminali aggredirono l'uomo e gli intimarono la consegna del danaro. Salvatore si oppose, gridò ai rapinatori di andar via ma proprio questo suo coraggio gli costò la vita. Una coltellata al cuore uccise Salvatore Buglione sul colpo. Salvatore era padre di una ragazza, studentessa universitaria, e di un figlio ancora adolescente. Catturati e processati gli autori dell'omicidio. Si tratta di Domenico D'Andrea, condannato dal Gup (6 febbraio 2008) all'ergastolo, pena confermata in Appello, e dei fratelli Antonio e Diego Palma. Per Antonio Palma la pena è di 23 anni di reclusione ridefinita in anni 18 dalla Seconda Sezione della Corte di Assise di Appello il 4 novembre 2009, mentre Diego Palma viene condannato a 10 anni di reclusione. Il 6 settembre 2015 a Napoli venne ucciso il 17enne Gennaro Cesarano. Ucciso da un proiettile vagante sparato da una ‘’paranza’’, ovvero un gruppo di fuoco composto da camorristi di giovanissima età, durante una ‘’stesa’’, ovvero un raid armato con cui le paranze cercano di imporre il proprio dominio sul territorio. L'inchiesta ha confermato che il ragazzo fu la vittima innocente di una sparatoria all'impazzata scatenata nell'ambito di uno scontro fra bande rivali della camorra. Determinante, ai fini della ricostruzione della vicenda, la collaborazione con la giustizia di un uomo, appartenente a un clan dell'Area Nordest di Napoli. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, l'incolpevole Genny si ritrovò nel mezzo di una raffica di 24 colpi esplosi da tre pistole. Solo per una fortunata serie di circostanze, almeno altri tre giovani che si trovavano in piazza in quel momento sfuggirono alla morte. L'azione del commando del clan otto persone a bordo di quattro moto, sarebbe scattata per vendicare un affronto compiuto solo poche ore prima dal capo clan rivale, poi a sua volta ucciso in un agguato due mesi dopo. Il 6 dicembre 2017 si conclude il processo di primo grado nei confronti dei responsabili dell'omicidio di Genny Cesarano: quattro ergastoli e una condanna a sedici anni per l'uomo collaboratore di giustizia. Il verdetto è stato emesso con rito abbreviato dal giudice Antonio Vecchione. L'11 luglio 2019 la IV Sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli ha confermato gli ergastoli per tre dei condannati in primo grado, 16 anni al quarto. Successivamente la Corte di Cassazione ha sancito il rinvio a una nuova sezione della Corte d'Appello di Napoli. Il 27 novembre 2019 un uomo, già in stato di detenzione, viene identificato come l'ultimo killer del commando che sparò a Gennaro. L'uomo è stato condannato all'ergastolo il 27 dicembre 2021 dalla Corte di Assise di Appello di Napoli. L’8 settembre 2018 a Pianura (NA) morì la guardia giurata Gennaro Schiano, 64 anni. Lavorava come guardia giurata, servizio portierato presso il palazzo del Consiglio Regionale della Campania. Ogni mattina Gennaro si spostava da Quarto utilizzando il trasporto pubblico. Il giorno 8 maggio 2018 in Circumflegrea ebbe una discussione con un diciannovenne, Giorgio Landolfi, molto probabilmente per il posto che la guardia sta occupando con il suo pesante zaino: qui un normale confronto civile si trasforma in uno scontro violento. Il ragazzo, che fa arti marziali, gli risponde in malo modo e comincia ad agitarsi arrivando alle mani. Gennaro, preoccupato dalla reazione così imprevedibile del ragazzo, decide di scendere una stazione prima del solito per raggiungere successivamente la sua abitazione in pullman. Il ragazzo però lo seguì e, raggiuntolo, lo aggredì violentemente, sferzando una ginocchiata in testa e colpendolo a calci quando questi cade a terra. Gennaro riuscì in autonomia a chiamare il 118 e venne portato al pronto soccorso dell’Ospedale San Paolo. I medici lo dimisero con un referto che parlava di “persona lucida e presente” ma intorno alle 22 comincia ad accusare un forte mal di testa e dietro alla nuca compare una grossa ecchimosi: una forte emorragia cerebrale. Venne portato in sala operatoria in piena notte, intubato, sedato e ricoverato in rianimazione. Gennaro morì dopo 4 mesi di agonia. Nello stesso giorno del pestaggio partirono le indagini della Polizia. Il giovane responsabile del pestaggio venne arrestato il 4 agosto 2018. Per il giovane incensurato di Pianura, i pm avevano chiesto una pena di 4 anni. Il gip ha inflitto al 19enne di Pianura una pena di 2 anni con la sospensione della pena. La figlia della guardia, Lina, dopo aver appreso la sentenza, ha giudicato inaccettabile la decisione del giudice, basatasi anche sulla relazione di un consulente. Secondo tale relazione la causa del decesso non era riconducibile a quell'evento. Tesi mai accettata dai familiari di Schiano, secondo i quali al ragazzo si sarebbe dovuto contestare l'omicidio preterintenzionale (chiesto dal pm). Il giovane praticava il kick boxing e proprio grazie alla disciplina sportiva i suoi colpi erano più violenti. Ora si attendono le motivazioni della sentenza per presentare l'appello. Il 9 settembre 1975 a Villa Literno fu ucciso Luigi Ciaburro, maresciallo dei carabinieri di 52 anni. Venne travolto e ucciso da un convoglio presso la stazione di Villa Literno. Intorno alle due del mattino, la pattuglia del maresciallo Ciaburro venne allertata da una telefonata anonima per una rapina ai danni di un treno merci sul tratto della ferrovia tra Casapesenna e Villa Literno, preannunciata da una telefonata anonima. I malviventi erano riusciti ad arrestare la corsa del convoglio posizionando una bacchetta di ferro tra le rotaie e ottenendo in questo modo che si azionasse il meccanismo di frenata del treno. Dopo aver svaligiato i primi vagoni, i ladri si videro scoperti dai militari dell’Arma e da lì cominciò un inseguimento, nel corso del quale Ciaburro non vide i treni merci che intanto sopraggiungevano, restando travolto. Purtroppo, nessuna autopsia sul corpo di Ciaburro: chi lo abbia aggredito o ferito non si sa. Dopo oltre quarant'anni nessuna verità. La salma venne restituita alla famiglia dopo quattro giorni dall'accaduto; la moglie chiese la sepoltura e non altro che avrebbe potuto ancora ferire il corpo di quell'uomo. Il 10 settembre 1981 a Palermo venne ucciso Vito Jevolella, maresciallo dei carabinieri di 52 anni. Era molto noto negli ambienti investigativi dell’Arma e tra i Magistrati per la sua capacità professionale, per l’impegno investigativo e per la determinazione a fare luce tanto sul delitto comune quanto su quello mafioso. Alle 20.30 circa del 10 settembre 1981, Jevolella, in macchina in compagnia della moglie Iolanda, fu colpito da quattro killer mafiosi armati di pistole e fucili. Fu chiaro che l’assassinio del Maresciallo era da inquadrare in un programma mafioso teso all’eliminazione di quanti si opponessero all’espansione degli interessi criminali. Vennero subito arrestati e processati due pregiudicati della Kalsa, Santo Barranca e Giuseppe Di Girolamo, come esecutori materiali del delitto perché vennero notati da un testimone, Pietro La Piana, alla guida dell'auto usata poi dai sicari per compiere l'agguato ma nel 1988 la I sezione della Cassazione presieduta da Corrado Carnevale annullò per ben tre volte la condanna all'ergastolo nei confronti di Barranca, che venne definitivamente assolto da ogni accusa. Nel 2001 l'indagine sull'omicidio del maresciallo Ievolella venne riaperta a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Salvatore Cucuzza, Giuseppe Marchese e Salvatore Cancemi, i quali si autoaccusarono di aver partecipato al delitto insieme a Pino Greco detto "Scarpuzzedda", Filippo Marchese, Giovanni Fici e Mario Prestifilippo, tutti assassinati nel corso della guerra di mafia degli anni '80. Nel 2003 la Corte d'assise di Palermo condannò all'ergastolo come mandante il capomafia della Kalsa Tommaso Spadaro e, tra gli esecutori materiali, Giuseppe Lucchese mentre Pietro La Piana venne condannato a sei anni e mezzo di carcere per calunnia; i collaboratori Cancemi e Cucuzza ebbero invece dieci anni con lo sconto di pena previsto per i collaboratori di giustizia. Il 12 settembre 1993 a Potenza venne uccisa la 16enne Elisa Claps. Quella mattina uscì da casa sua per un appuntamento dal quale non fece più ritorno. Il suo cadavere è stato ritrovato 14 anni fa, dopo 17 anni di “misteri”, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità, nel Centro Storico di Potenza. Al suo assassino, Danilo Restivo, già condannato nel Regno Unito per l’omicidio della vicina Heather Barnett, è stata inflitta una pena di 30 anni di carcere. Il caso Claps ha segnato la storia della cronaca italiana non solo per la brutalità del delitto, ma anche per i depistaggi, le omissioni e le ombre che hanno accompagnato le indagini. Ancora oggi restano domande senza risposta e la famiglia continua a chiedere verità e giustizia. Nel 2024, a Potenza, il largo davanti alla chiesa della Santissima Trinità è stato intitolato a Elisa Claps, mentre il parco dedicato a lei ha preso il nome di “Fiore Bianco”. Il 12 settembre 2008 a San Marcellino (CE) furono uccisi Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, di 51 e 43 anni. Antonio Ciardullo (in foto) ed Ernesto Fabozzi lavoravano in una rimessa di automezzi a San Marcellino e furono uccisi con 20 colpi di pistola: Ciardullo per aver denunciato e fatto condannare, dieci anni prima, un esponente del #clande Casalesi con l’accusa di estorsione, Fabozzi per essersi trovato con lui al momento dell’esecuzione. Antonio era un autotrasportatore ed Ernesto lavorava come suo dipendente. I due vennero sorpresi proprio mentre sono in officina a riparare un furgone. Dieci anni prima Antonio si era ribellato al racket facendo arrestare un esponente del clan Guerra. Per quella denuncia lo stesso Giuseppe Guerra cercò di uccidere Antonio. L'imprenditore sfuggì miracolosamente alla condanna a morte, ma dieci anni più tardi l'azione stragista portata avanti da Setola rinnova la sentenza di morte, che coinvolse anche il dipendente di Antonio, Ernesto, scomodo testimone. Setola e Letizia sono stati condannati per questi omicidi nell'aprile 2013 all'ergastolo. Tredici anni sono stati inflitti a Giuseppe Guerra, individuato quale mandante della spedizione di morte. Nel marzo 2013 intanto è stato fermato il presunto "specchiettista" dell'intera operazione, colui che ha pedinato la vittima e ne ha segnalato la presenza nel luogo stabilito ai sicari. Si tratta del 25enne Salvatore Santoro. Il 13 settembre del 2000 a Napoli venne ucciso Raffaele Iorio, autista di 63 anni. In quella serata subì il furto della vettura che un amico gli aveva affidato. Iorio venne attratto con l’inganno fuori dall’auto attraverso un tamponamento appositamente organizzato. Al posto di guida della vettura si inserì uno dei malviventi e Raffaele, nel tentativo di difendere qualcosa che neanche gli apparteneva, si aggrappò con forza alla portiera. L’uomo fu trascinato per almeno 700 metri sull’asfalto per essere infine scaraventato contro un palo della luce. Raffaele morì dopo ore di agonia il giorno successivo in ospedale. Il principale responsabile è stato condannato a vent’anni di reclusione con l’accusa di omicidio volontario nel processo di primo grado, che ha visto condannare anche altri due imputati. Il 14 settembre 2015a Terzigno venne uccisa Enza Avino, 35 anni. Braccata e uccisa dall’uomo che diceva di amarla dopo aver lasciato la caserma dei carabinieri per l’ennesima denuncia. Uccisa da due colpi di arma da fuoco esplosi da una macchina in corsa. La macchina era guidata da Nunzio Annunziata che, dopo aver esploso i colpi mortali, scese dalla vettura e portò via la borsa di Enza. Con il telefonino della donna chiamò poi il padre e il fratello di Enza annunciando che di lì a poco avrebbe ucciso anche loro. I familiari di Enza parlano di tragedia annunciata perché Enza, dopo la denuncia, era stata lasciata completamente sola. Enza aveva sporto la prima denuncia nei confronti dell’uomo già nel 2012, una denuncia ritirata successivamente. I due avevano una relazione tormentata ed Enza più volte aveva sporto denuncia ai carabinieri per le minacce e le violenze subite. L'episodio più grave risale alla notte del 1° maggio 2015, quando l'uomo, ubriaco, si arrampicò fino al terzo piano dell'abitazione della donna e cercò di trascinarla con lui nel vuoto. Enza ritorna in caserma il 12 giugno per denunciare il suo stalker che, indifferente alle forze dell'ordine, entrò finanche in caserma continuando a lanciare minacce. Nel mese di novembre 2016 il Tribunale di Nola condanna a trent'anni di carcere Nunzio Annunziata, il killer reo confesso di Enza Avino, spiegando di aver eliso l'aggravante della crudeltà, pur respingendo tutte le attenuanti chieste della difesa. Il 30 marzo 2018 la sentenza di primo grado viene confermata anche in Appello. Il 16 settembre 1990 a Casoria venereo uccisi, Sergio Esposito e Andrea Esposito di 32 e 12 anni. Non erano parenti ma semplicemente omonimi. Lavoravano nel bar Franzese, situato all’interno del mercato ortofrutticolo del paese. L’attività veniva gestita da dei pregiudicati, i quali erano un tempo legati al boss Raffaele Cutolo. Sergio era stato assunto come cameriere, il piccolo Andrea invece come garzone. Ogni mattina si svegliava alle 3.30 solo per portare a casa qualche lira: la sua famiglia si trovava in una situazione di grande povertà. Il 16 settembre i killer decisero di compiere il loro agguato: entrarono nel bar alle 4.30 e individuarono la loro vittima: Antonio Franzese, figlio ventiquattrenne del proprietario. Non ebbero alcuna esitazione: impugnarono le pistole e iniziarono a sparare. Il giovane, colpito, si accasciò a terra. I sicari si avvicinarono e si accorsero di Sergio e Andrea, nascosti dietro al bancone. I malavitosi li uccisero per non lasciare testimoni. Pochi giorni dopo gli inquirenti arrestarono tre persone sospettate del duplice omicidio: si trattava dei componenti di un'unica famiglia. Si pensò che la strage fosse l'ultimo episodio tragico di una serie di scontri avvenuti nei mesi precedenti tra la famiglia in questione e quella del proprietario del bar, un tempo vicine ma poi divisesi. Il 17 settembre 1987 a Placanica (RC) venne ucciso il carabiniere Ilario Cosimo Marziano, 37 anni. Prestava servizio a Cutro. Da tre giorni l’uomo era in licenza e tornò al paese portando con sé la moglie e i due figli di 6 e 12 anni. Era andato in un podere vicino alla vigna dei Marziano, dove si stava preparando tutto quanto necessario per l’imminente vendemmia. Venne ritrovato più tardi ucciso da un unico colpo d’arma da fuoco al capo a indicare essere un’esecuzione. Una morte che Ilario Cosimo Marziano forse non si aspettava dato che la sua arma d’ordinanza e il fucile da caccia vennero trovati nella Ritmo con cui era giunto al podere. Convinzione degli inquirenti fu ben presto che il movente andasse cercato nel lavoro del militare e in eventuali indagini che aveva seguito. Marziano aveva dato fastidio agli uomini d’onore e andava tolto di mezzo prima che diventasse pericoloso. Il 19 settembre 1994 a Bivona (AG) Vennero uccisi Calogero Panepinto, fratello di Ignazio Panepinto, e Francesco Maniscalco (in foto). #Vittimeinnocenti di mafia. I killer tornarono in contrada Magazzolo, a pochi chilometri da Bivona, quattro mesi dopo l’uccisione di Ignazio Panepinto il quale aveva dedicato tutto sé stesso alla sua impresa che aveva tenuto lontano dall’influenza della mafia locale: per questo venne ucciso con tre colpi di lupara proprio nella sua cava. Calogero Panepinto aveva riaperto i cancelli della miniera di Ignazio. Dopo il primo agguato, la cava rimase chiusa per quattro mesi, fino al 18 Settembre. La mattina del 19 settembre, seconda giornata di lavoro, Calogero arrivò dinanzi ai cancelli della fabbrica in macchina col figlio, Davide di 17 anni, e l’operaio Francesco Maniscalco, 42 anni. Avevano appena aperto gli sportelli della vettura quando arrivarono tre uomini in auto che, con le pistole e i fucili, non lasciarono scampo. Il titolare e il suo operaio caddero insieme. Rimase colpito anche Davide ma i killer per fortuna non si accorsero di averlo solo ferito gravemente. Le indagini sostennero l’ipotesi che Calogero Panepinto fosse stato ucciso perché aveva fatto lo “sgarro” di riaprire la cava e perché disturbasse gli affari degli appalti pubblici, monopolio delle cosche. Le indagini sostennero l’ipotesi che Calogero Panepinto era stato ucciso perché aveva fatto lo “sgarro” di riaprire la cava, di essersi rimesso a fare affari e questo disturbava gli affari degli appalti pubblici, monopolio delle cosche. Il 21 settembre 1986 a Porto Empedocle (AG) vennero uccisi Filippo Gebbia(in foto) e Antonio Morreale, 30 e 67 anni. Furono vittime innocenti della prima strage di Porto Empedocle, con cui Cosa Nostra mirava a reprimere la Stidda e, in particolare, la famiglia Grassonelli. Era una domenica tranquilla e la gente passeggiava serena per le vie del Centro, quando all’improvviso si verificò un black-out elettrico e da un’auto in corsa emersero dei killer che spararono sulla folla uccidendo, oltre al Filippo e Antonio, Giuseppe e Gigi Grassonelli e Giovanni Mallia e Salvatore Tuttolomondo. Filippo Gebbia, aveva 30 anni ed era un tipo allegro e socievole. Era a passeggio con la fidanzata che avrebbe voluto sposare presto. Antonio Morreale era un tranquillo pensionato che attendeva il genero per rientrare a casa. Aveva deciso di stare seduto al bar per gustarsi un gelato insieme alla moglie Bianca Frassi, una piemontese. Il suo tavolo era troppo attiguo a quello dei Grassonelli e quando arrivò la furia omicida, fu travolto da una scarica di piombo. Il 22 settembre 1919 a Prizzi (PA) venne ucciso Giuseppe Rumore, segretario della Lega dei Contadini di 25 anni. Iniziò la sua attività aderendo alle rivolte contadine dei primi anni del 1900. Divenne così segretario della Lega dei contadini, collaborando con il collega Nicola Alongi e pericolo numero uno per il sistema mafioso. Tutto questo caos provocò il malumore della criminalità organizzata che la notte del 22 settembre lo fece uccidere sotto casa sua con due colpi di fucile. Come sindacalista, si presentò subito come il nemico più pericoloso del sistema mafioso, che legava alla logica dell’appartenenza il fine per annientare le rivendicazioni sociali per le quali lottavano i contadini reduci dalla grande guerra, durante la quale si era aperta la questione del latifondo. I lavoratori dei campi dovettero fare i conti, anche, con chi era riuscito ad imboscarsi e chi godeva di privilegi notevoli, giacché i proprietari terrieri corrispondevano al ceto politico locale e i gabelloti mafiosi. I proprietari, preoccupati di perdere i loro antichi privilegi, non esitarono ad organizzarsi e spezzarono con una lunga serie di omicidi il movimento dei contadini. Giuseppe Rumore fu ucciso davanti alla sua abitazione, sotto gli occhi della moglie e della figlia di quattro anni. Il 23 settembre del 1985 a Napoli, fu ucciso a 26 anni il giornalista de Il Mattino Giancarlo Siani. Scrisse i suoi primi articoli per il mensile “Il Lavoro nel Sud”, testata dell’organizzazione sindacale Cisl e poi iniziò la sua collaborazione come corrispondente da Torre Annunziata per il quotidiano Il Mattino di Napoli. Da Torre Annunziata principalmente si occupò di cronaca nera e dunque di camorra, studiando i rapporti e le gerarchie all’interno delle famiglie camorristiche che controllavano Torre Annunziata e i suoi dintorni. In questo periodo iniziò anche a collaborare con l’Osservatorio sulla Camorra, diretto dal sociologo Amato Lamberti. Prima di altri ricostruì le dinamiche di camorra nel territorio vesuviano ed indicò Valentino Gionta come capo indiscusso nell’area di Torre. Contemporaneamente portò avanti un’inchiesta sulla manipolazione degli appalti pubblici. Fini così nel mirino della criminalità organizzata. L’articolo che di fatto sancì la sua morte fu quella in cui Siani ipotizzava che l’arresto di Gionta, avvenuto a Marano, dove si nascondeva, fu compiuto grazie ad una soffiata dei Nuvoletta, alleati dei Valentini. Per il giornalista quella soffiata fu il prezzo che i Nuvoletta dovettero pagare per ripacificarsi con Bardellino con il quale erano nati dei sanguinosi contrasti. Il clan maranese, succursale napoletana della fazione di Riina di #CosaNostra, non accettò l’affronto di e essere chiamati “infami” e fu decretato l’assassinio di Siani. Il 23 settembre 1985, appena giunto sotto casa sua con la sua macchina, la Citroën Méhari verde, Giancarlo Siani venne ucciso: l’agguato avvenne intorno alle 20.50 circa a pochi metri da casa sua, in Piazza Leonardo. Per chiarire i motivi che hanno determinato il decesso e identificare mandanti ed esecutori furono necessari 12 anni e le rivelazioni di tre pentiti. Il 24 settembre 2004 a Locri (RC) moriva Massimiliano Carbone, imprenditore di 38 anni. Venne ucciso da un cecchino con un proiettile calibro 12 mentre tornava da una partita di calcetto con gli amici. Ricoverato in ospedale, morì dopo 7 giorni di agonia. Le indagini partirono molto dopo il delitto e sebbene la famiglia avesse cercato di contribuire in ogni modo possibile, ci sono voluti ben due anni prima che un nome finisse sul registro degli indagati ma quell’unico indagato è stato prosciolto e il caso sull’omicidio è stato archiviato nell’ottobre del 2007. l 25 settembre 1979 a Palermo furono uccisi il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso, di 58 e 57 anni. Il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, al quale era stata affidata la protezione del giudice, furono uccisi da alcuni killer che aprirono il fuoco contro l’auto su cui si trovavano. Il magistrato era già stato procuratore dell’accusa al processo contro la mafia corleonese tenutosi nel 1969 a Bari, ove però quasi tutti gli imputati furono assolti. Verso le ore 8.30 del mattino, una Fiat 131 di scorta arrivò sotto casa del giudice a Palermo per portarlo a lavoro. Cesare Terranova si mise alla guida della vettura mentre accanto a lui sedeva il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, l’unico uomo della sua scorta che lo seguiva da vent’anni come un angelo custode. L’auto imboccò una strada secondaria trovandola inaspettatamente chiusa da una transenna di lavori in corso. Il giudice Terranova non fece in tempo a intuire il pericolo: in quell’istante da un angolo sbucarono alcuni killer che aprirono ripetutamente il fuoco. Cesare Terranova istintivamente ingranò la retromarcia nel disperato tentativo di sottrarsi a quella tempesta di piombo mentre il maresciallo Mancuso, in un estremo tentativo di reazione, impugnò la Beretta d’ordinanza per cercare di sparare contro i sicari ma entrambi furono raggiunti dai proiettili in varie parti del corpo. Al giudice Terranova, 58 anni, i killer riservarono anche il colpo di grazia, sparandogli a bruciapelo alla nuca. La sua fedele guardia del corpo, Lenin Mancuso, morì dopo alcune ore di agonia in ospedale. Il 26 settembre 1988 a Valderice, in provincia di Trapani, venne ucciso il giornalista e sociologo Mauro Rostagno, 46 anni. Dalla metà degli anni ottanta lavorò come giornalista e conduttore anche per l'emittente televisiva locale Radio Tele Cine (RTC), indagando su Cosa nostra e il suo potere. Attraverso la TV denunciò le collusioni tra Cosa nostra e politica locale: tra i tanti servizi giornalistici di denuncia del fenomeno, la trasmissione di Rostagno seguiva tutte le udienze del processo per l'omicidio del sindaco Vito Lipari, nel quale erano imputati i boss mafiosi Nitto Santapaola e Mariano Agate, che durante la pausa di un'udienza mandò a dire a Rostagno che «doveva dire meno minchiate» sul suo conto. Fu assassinato in contrada Lenzi, mentre rientrava alla comunità Saman, che dirigeva, dopo aver trascorso la giornata negli studi della RTC. La sua auto, una Duna bianca, fu intercettata da due killer di “cosanostra” che lo colpirono con un fucile e una pistola. La lunga vicenda giudiziaria che seguì l’omicidio portò, dopo decenni di indagini e rinvii, alla condanna all’ergastolo del boss Vincenzo Virga, ritenuto il mandante del delitto. Vito Mazzara, inizialmente condannato come sicario, fu poi assolto in appello. La Corte di Cassazione confermò nel 2018 l’ergastolo per Virga, rigettando i ricorsi presentati dalla difesa e dalla Procura generale di Palermo. Con la stessa sentenza, venne definitivamente confermata l’assoluzione di Mazzara. Il 28 settembre, dal 1990 al 1992, in tre anni consecutivi, morirono assassinati dalla mafia Giuseppe Tallarita, Demetrio Quattrone, Nicola Soverino e Paolo Ficalora. Quattro uomini con l’alto senso del dovere e con una spiccata moralità. Giuseppe Tallarita fu ucciso perché aveva cercato di proteggere la sua proprietà dalle incursioni abusive del gregge del futuro boss capo degli stiddari del comprensorio di Gela veniva dieci anni dopo ucciso dai killer gregari per vendetta. Demetrio Quattrone e Nicola Soverino erano due vecchi amici. Il primo un funzionario dell’Ispettorato al lavoro, ligio e coscienzioso, mentre il secondo, un medico omeopata. Vennero raggiunti e trucidati da un commando di killer mentre stavano effettuando un giro in auto di sera. Quattrone, ingegnere, stava effettuando alcune perizie per conto della procura di Palmi su alcuni appalti dell’area di Gioia Tauro e sulla centrale Enel. Quasi un mese prima, il 9 agosto, il giudice Antonino Scopelliti era stato ucciso; eppure alle cosche reggine non era sufficiente: occorreva dare un altro segnale. Paolo Ficalora, soprannominato il Capitano “ribelle”, proprietario di un residence turistico si oppose violentemente alle prevaricazioni mafiose cercando di ostacolarle e resistere con caparbia alle minacce e alle ritorsioni. Il fatto che decretò la sua morte fu quando diede in locazione una villetta del suo villaggio a una famiglia che ospitò durante la permanenza il super pentito di Cosa nostra Totuccio Contorno. Nonostante Ficalora fosse estraneo alla vicenda fu punito per il suo alto senso della legalità. Il 29 settembre del 2003 a Villa Literno (CE) vene ucciso il 24enne Giuseppe Rovescio. Fu ucciso per uno scambio di persona in Via Chiesa da due sicari appartenenti al clan Tavoletta-Cantiello, gruppo nemico dei Bidognetti. Giuseppe venne scambiato dai sicari per un rivale a causa dei suoi capelli lunghi. Nell’agguato rimase ferito anche il fratello Simeone. Nel 2008 vennero arrestati i responsabili della sparatoria: si tratta di Nicola Fiore e Massimo Ucciero. Il 16 gennaio 2012 Fiore e Ucciero sono stati condannati all’ergastolo come esecutori materiali del delitto. Il ricordo di Giuseppe non si è mai affievolito nella città di Villa Literno. Il giovane operaio faceva parte del comitato organizzatore del Carnevale liternese e proprio durante questo periodo ricorre, annualmente, il “Memorial Giuseppe Rovescio”, torneo di calcio dedicato a bambini e ragazzi. Il 30 settembre del 1978 a Napoli venne aggredito mortalmente il 20enne ambientalista Claudio Miccoli. Morì in seguito all’aggressione avvenuta ad opera di picchiatori fascisti in Piazza Sannazaro a Napoli. La sera del 30 settembre 1978 Claudio Miccoli, consigliere regionale del WWF campano, si ritrovò ad assistere all’aggressione di un giovane. Miccoli cercò da solo di dirigersi verso un gruppo di quattro neofascisti cercando di riportarli alla ragione. Tuttavia egli fu immediatamente raggiunto da un colpo di bastone alla testa scagliato dal militante di estrema destra Ernesto Nonno, il quale poi infierì sul corpo di Miccoli caduto a terra esanime fracassandogli il cranio. La sera stessa Claudio Miccoli, trasportato in ospedale, entrò in coma. Morì il 6 ottobre 1978, dopo aver espresso la volontà di donare i propri organi.
Francesco Emilio Borrelli |
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Il 2 settembre 2001 a Casoria venne ucciso Stefano Ciaramella, 16 anni. Poco dopo la mezzanotte alcuni malviventi in scooter, che avevo già disseminato il terrore per quella stessa zona, circondarono Stefano insieme alla fidanzata e tentarono di borseggiarli e portargli via il motorino. Il 16enne reagì cercando di proteggere la ragazza e inseguì i rapinatori allontanatisi con la refurtiva. In quel momento venne colpito da un fendente dritto al cuore. Nella borsa non c’erano altro che pochi spiccioli e i documenti della ragazza.