Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La Reale Casa dell’Annunziata in Napoli, ovvero, il cimitero dell’umana pietà

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«Mi son messo poi a considerare tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole; ed ecco, le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli e dal lato dei loro oppressori la violenza, mentre quelli non hanno chi li consoli. Ond’io ho stimato i morti, che son già morti, più felici de’ vivi che son vivi tuttora; e più felice degli uni e degli altri, colui che non è ancora venuto all’esistenza, e non ha ancora vedute le azioni malvage che si commettono sotto il sole.»1

Con questi versi biblici tratti dal libro dell’Ecclesiaste , scritto da Salomone, Re d’Israele (circa 1001 - 931 a.C.),  Antonio Ranieri (Napoli 1806 – Portici 1888) introdusse la sua opera più conosciuta,  Ginevra o l’orfana della Nunziata.2

Il libro, un’opera di denuncia della brutalità umana esercitata sull’infanzia abbandonata, con particolare riferimento al brefotrofio partenopeo della Santa Casa dell’Annunziata di Napoli, vide la luce in quel porto franco dell’editoria di Capolago (Svizzera) nel 1839, presumibilmente, com’era costume in epoca borbonica, in una delle tante stamperie clandestine di Napoli.

Antonio Ranieri, che vide e studiò l’ospizio dei trovatelli della Nunziata, descrivendone molti particolari, soffrì la persecuzione di due loschi figuri in autorità: Francesco Saverio Del Carretto, ministro di polizia e Niccolò Santangelo, ministro dell’Interno.

 

Ma la collera di quest'ultimo fu niente a confronto di quella di Angelo Antonio Scotti, Gesuita, Gran Lama di tutta l’innumerevole “gesuiteria extra muros”, che a Napoli fece incetta e rogo di tutte le copie trovate di quella prima edizione, dolente di non poter bruciare al tempo stesso l’autore e denunciandolo nella rivista “La Scienza e la Fede”, nobile madre della “Civiltà Cattolica” come “riunitore d’Italia” e di conseguenza “bestemmiatore di Dio”.

La veridicità dei riferimenti storici del racconto di Ranieri è testimoniata da Nicola De Crescenzio che, in qualità di incaricato dal Governo, visitò i principali brefotrofi italiani nel 1872, producendo una lunga e articolata relazione sui principali brefotrofi italiani e dilungandosi particolarmente sull’Annunziata di Napoli di cui era stato anche governatore.3

De Crescenzio assicurò che quella del Ranieri era stata una denuncia veritiera senza nulla di esagerato.

L’opera rappresentò il primo romanzo sociale pubblicato da un italiano, e seguì il ben più famoso Oliver Twist di Charles Dickens, ambientato in altro ospizio dei trovatelli e pubblicato a Londra appena dieci anni prima, nel 1828.

La seconda edizione, ripudiata dall’autore quale “grossolana e scorretta” ma anche molto ridimensionata, fu pubblicata a Bruxelles nel 1841, forse anche quella in una stamperia clandestina napoletana.

Seguì una terza edizione pubblicata da Guigoni a Torino nel 1862, arricchita di sei tavole redatte da noti artisti italiani, che prestarono gratuitamente la loro opera.4

Di recente la pubblicazione della casa editrice Lucarini (1986) e di Amazon (non anastatica).

Il romanzo narra le traversie di Ginevra, deposta appena nata nella ruota dell’Annunziata, consegnandola ad una monaca di guardia.

«Nella muraglia ch’è fra l’immagine (della Vergine) e la porta, ha una buca d’un mezzo braccio di diametro, io credo. A questa dalla parte di dentro è aggiustata una di queste ruote di ferro che s’usano né conventi, la quale cede leggermente a qualunque spinta le sia data da fuori, ed agevolmente si gira. Dalla parte di fuori, sopra questa buca è una lapida di marmo con questa scritta mezzo barbara: “O padre e madre che qui ne gettate alle vostre limosine siamo raccomandate”.

La prima operazione, una volta all’interno, fu di accostarla al torchio che consisteva nell’avvolgere l’esposto con un laccio intorno al collo e nel sigillarne i due capi infilati in un piombo che veniva pressato tra i due bolli del torchio (sorta di pinza come quella per piombi da pacchi) imprimendovi una lettera e un numero che erano riportati in apposito registro. Ed eccoti il bambino, com’essi dicevano, marchiato.»

L’ospizio della Nunziata era diviso in due parti delle quali una, «levandosi in due alti ordini di piani, dà sopra tre ampissime vie; e tutta ad immense volte ed a sale smisurate … l’altra, quasi tutta interna e tenebrosa … ha distinto il suo fondo in forse cento angusti, umidissimi e quasi diruti covili.»

Il luogo, nella pianta della città di Napoli del Rizzi-Zannoni è compreso nei due quadratini di coordinata Est L-M e coordinata Nord e presenta grossolanamente la figura di un triangolo equilatero confinante dal lato Est con la Via Annunziata, a Sud con la Via dell’Egiziaca e ad Ovest con quella che oggi è chiamata, in onore dell’autore della Ginevra, via Antonio Ranieri.

Il luogo comprendeva un ampio giardino, la chiesa dell’Annunziata accessibile dalla omonima via sul cui frontale campeggia tuttora la scritta Ave Gratia Plena e il brefotrofio. Oggi un piccolo triangolo compreso tra la via Egiziaca e via Ranieri risulta intersecato marginalmente dal Corso Umberto I.

Il complesso si trovava, anche all’epoca, nel pieno centro storico di Napoli, poco più a nord, a meno di 100 passi napoletani in linea d’aria (circa 185 metri) della Piazza Mercato Grande e comprendeva quattro sezioni: la ruota, il baliatico, l’alunnato e il conservatorio.

La ruota o volgarmente buca, era un foro praticato nel muro del brefotrofio lungo la strada dell’Annunziata.

«Per quella buca larga non più di tre quarti di palmo quadrato sono alle volte entrati fanciulli di 8 fino a 10 anni … poiché alcuni … hanno la feroce abilità d’introdurre anche fanciulli di quell’età, ungendoli d’olio o d’altra materia grassa per farveli scivolare facilmente. Avviene spesso che qualche braccio o gamba ne resti slogata ed il corpo malconcio».5

La qual cosa avvenne per la Ginevra di Ranieri, fatta passare per la buca due volte: la prima da neonata e la seconda - non avendo più il collare con la marca, dimostrazione di appartenenza - già grandicella, di circa dieci/undici anni.

«Quivi, spogliarmi nuda, ficcarmi a forze giunte nel buco, e darmi un fiero calcio che, sdrucciolando, mi fè trovare nella ruota che rapidamente girò, fu un solo punto».

Talora i malcapitati riportavano fratture e danni permanenti, rimanendo inabili per tutta la vita.

La ruota, che in tutti i paesi civili era aperta solo di notte per rispetto alla riservatezza e al pudore della povera madre, a Napoli lo era anche di giorno, con l’inevitabile schiamazzo di popolino che scatenava una ridda infernale quando veniva deposto un nascituro.

Le sole donne avevano il diritto di rimanere sempre nel brefotrofio o anche, se uscite per i più svariati motivi, di potervi rientrare.

L’unica via per entrare nello stabilimento o anche di rientrarvi, conditio sine qua non, era la ruota, al di là di quella nessun infante poteva essere accettato e acquisire quindi lo status di figli di “Maria Gratia Plena” (Ti saluto, o favorita dalla grazia, da Luca 1:28), e per il volgo “figli della Madonna”.

Un secolo più avanti dei fatti narrati da Ranieri non era avvenuto alcun mutamento nella condizione e nella conduzione dell’Istituto.

Solo nel 1869 si cominciò a pensare di ammettere anche i bambini che non erano passati per la ruota, ma quella condizione si protrasse ancora per molto tempo.

Nei settant’anni dal 1800 al 1871 il numero di deposti della sola provincia di Napoli era stato mediamente di 2068 all’anno.

La statistica del 1866 indica, per la sola Annunziata, il minor numero di esposti: 1148 neonati su una popolazione di 477.159 abitanti, un esposto per ogni 389 abitanti, ossia la cifra da capogiro di un esposto per meno di 200 donne.

La ruota per l’accettazione degli esposti, creata in origine per evitare che i reietti venissero abbandonati per le strade o sui gradini delle chiese, rimase in vigore per tutte le province italiane sino al 1866, dopo di che se ne ebbe una rapida diminuzione, sostituita dalla presentazione diretta dei neonati agli uffici di consegna, ma ancora, trent’anni dopo, nel 1897, ne rimanevano aperte 306.

La statistica dell’epoca indica che di media, su una popolazione di circa 50 milioni di abitanti del Regno d’Italia, nel triennio 1879/1891, furono deposti nelle ruote 32.093 bambini, nel triennio 1890/92 furono 21.933 e nel triennio 1994/1996 bambini 14.823.

Il baliatico, ossia l’impiego di balie a pagamento per l’allattamento dei bambini, era di due tipi: interno quando le balie assolvevano il loro ufficio entro le mura dello stabilimento ed esterno, quando l’allattamento avveniva al di fuori di esso. Questa seconda modalità prese vigore a partire dal 1841, quasi dieci anni dopo la sua istituzione.

La mortalità infantile era altissima, causa malattie (erano molto diffuse le malattie veneree), malnutrizione (una balia doveva provvedere a tre bambini), carenza di igiene e maltrattamenti, con un massimo, nel 1836, dell’85 per cento e una media nel periodo 1844/1871 di 60 bambini morti su cento immessi mediante nella ruota.

Ranieri ha raccontato che ai suoi tempi, dei circa tremila bambini deposti ogni anno nella buca, duemilacinquecento morivano per lo più di fame.

Degli altri cinquecento, i maschi erano quasi tutti presi (è la parola giusta, non adottati) prima di giungere all’età dei sette anni e finivano per servire i cosiddetti tenutari nei mestieri più umili, mentre il rimanente finiva miseramente nel grande albergo dei poveri, all’ingresso nord della città, meglio conosciuto a Napoli come il Serraglio.

La Santa Casa aveva quindi un qualche riguardo per le femmine, mentre i maschi, appena svezzati, erano del tutto abbandonati al loro destino.

L’alunnato era quella parte dell’istituto dedito all’educazione delle sole donne che avevano raggiunto la pubertà.

Le donne, giunte ai sette anni, a discrezione del moderatore dell’ospizio, “moderno Minosse”, erano in parte inviate nelle smisurate sale fra le elette, nell’alunnato, e non potevano essere più di cento, le altre finivano nei covili tra le reprobe (le indegne), in numero mai superiore a duecentocinquanta di tutte le età, dove facevano la conoscenza delle oblate o anche converse, impropriamente monache.

Le oblate erano considerate rifiuti dell’intero genere umano, respinte dai genitori che se ne erano disfatti depositandole nella ruota e dalla Nunziata stessa che le cacciava nelle orride spelonche da dove uscivano solo i giorni di festa per essere condotte “in certe paurose buche” da dove, attraverso strette fessure, udivano la messa nella chiesa dell’Annunziata.

Quella Chiesa, andata a fuoco nel 1757, fu ripristinata ad opera del Vanvitelli in oltre un ventennio, tra il 1760 e il 1782.

Ogni oblata aveva sotto la sua direzione un certo numero di recluse, ma le “arrollate”, non avendo alcuna direzione, abbandonate a se stesse, vivevano in un assoluto stato di degradazione fisico e morale.

Sino al 1833 tutte quelle donne erano rinchiuse in unico posto, il conservatorio, che, con vocabolo più adeguato, poteva essere chiamato monastero, dove le oblate dormivano in camere singole e venivano anche pagate.

Per contro le recluse, donne di tutte le età, che dormivano ammassate nei dormitori, spesso due o più per ogni letto, a parte i pochi spiccioli ricevuti per il pane, dovevano sopperire al resto col proprio lavoro.

Fu solo nel 1833 che il Principe di Torella istituì l’alunnato, divenuto nel tempo un vero e proprio educandato, scegliendo cento fanciulle dei migliori costumi, alla cui educazione furono delegate le suore della carità, che insegnava alle fanciulle l’arte di fare guanti, abiti, trine, ricami e quant’altro mentre tutte le altre donne, circa settecento, rimanevano sotto la sferza delle oblate. Le cento non dovevano avere alcun contatto con le recluse del conservatorio e purtuttavia i loro privilegi finivano lì.

Sfiduciate, indolenti e senza nessuna meta da raggiungere, per quelle povere disgraziate, al di là della porta dell’ospizio c’era un mondo ignoto, tutto il loro universo era concentrato tra quelle pareti.

Se ne usciva solo con la morte o raramente con il matrimonio, se richieste in moglie da qualche sconosciuto, andando incontro, sovente, nella nuova condizione, alla perpetua infelicità. 

Le cose continuarono all’Annunziata in quello stato sino al tracollo dei Borbone e per molti anni ancora, dopo l’avvento della Monarchia Sabauda, sino a che una notizia tra le più nefaste dell’epoca portò quel brefotrofio all’attenzione di molti giornali italiani, scuotendo l’opinione pubblica, il Parlamento e giungendo a lambire finanche le coste oltreoceano.

Jessie White Mario, alla fine dell’Ottocento, in un toccante lavoro d’inchiesta intitolato Le opere pie e l’infanticidio legale, riferiva che «Come corrente elettrica è corsa ancora una volta per l’Italia l’orrenda novella che nel brefotrofio della Santissima Annunziata di Napoli degli 856 neonati ivi ricevuti in un anno, 853 ne erano morti».6

La stampa si occupò della vicenda per una settimana, titolando La strage degl’innocenti e Il martirologio dei bambini, vi fu una interpellanza in Parlamento, caddero le teste dei governatori della Pia Casa, venne nominato un commissario regio e proposta una nuova inchiesta, ma tutto finì con una farsa.

Da più parti venne richiamata la vecchia, sarcastica proposta del Déléssért, che all’ingresso dei brefotrofi si scrivesse il motto: Qui si fanno morire i bambini a spese pubbliche (On pourait mettre au dessus de la porte de ces maisons: ici on fait mourir les enfants aux frais du public.)

La Jessie, che amava l’Italia (e suo marito) dal profondo dell’anima, avvezza a calpestare i campi di battaglia garibaldini per dare assistenza e conforto ai feriti e ai moribondi, non era nuova a iniziative del genere, a sostegno dei poveri e dei derelitti.

Così ad esempio si era lungamente occupata del sistema penitenziario e del domicilio coatto in Italia.7

Per quanto riguarda Napoli, famosa, molto diffusa e tuttora ristampata, fu l’inchiesta sulla povertà in Napoli, e il lungo e circostanziato articolo dal titolo The poor in Naples, comprendente 12 immagini di vita napoletana dell’epoca, facente parte del più ampio volume scritto a più mani dal titolo The poor in great cities (London, 1896) che non ha traduzione italiana.8

L’inchiesta sulla miseria in Napoli ebbe luogo a seguito di una corrispondenza con Pasquale Villari, che già si era occupato, seppur marginalmente, dell’argomento, avendo descritto i tuguri e le miserie napoletane nelle sue Lettere Meridionali.9

«Un giorno la vidi che tornava da Roma, dove era stata corrispondente di un giornale inglese, per descrivere alcune feste monarchiche. Come mai! Le dissi, un po’ sul serio, un po’ scherzando, perde il tempo in queste descrizioni? Che ne direbbe il Mazzini? Perché non va piuttosto a Napoli a descrivere le misere condizioni della plebe colà? Un libro su tale argomento sarebbe bene altrimenti utile. Mentre io continuavo nel mio discorso, vidi che ella mi guardava assai seriamente. A un tratto esclamò: Io vado. Apparecchi le lettere ad amici che mi guidino nella mia inchiesta. Ed andò e scrisse il volume ben noto: La miseria in Napoli».10

Vi andò nonostante fosse sconsigliata dal marito, poiché all’epoca la città era afflitta da una grave epidemia di tifo.

Lei repubblicana irriducibile, Villari acceso monarchico, ma quello che li legava era il profondo, incommensurabile amore per l’Italia.  

Jessie White raccontò di aver visitato la reale casa dell’Annunziata (nel 1860) due volte: la prima con Garibaldi e più tardi con Bertani. «Essa pareva un pandemonio. C’erano vecchie che sembravano le streghe di Macbeth, altre le Parche di Michelangelo; c’erano ragazze e donne di ogni età, alcune sfacciate, pasciute, altre magre, affamate, spaventate, che si affollavano intorno a Garibaldi narrando tali istorie di sofferenze, di sevizie, che egli pianse e con lui molti prodi, non usi ad intenerirsi per poco.»11

In quell’epoca «la Real Casa dell’Annunziata era il tipo del governo dei preti e delle monache, e di una superfetazione che si chiama Oblatismo, indegna di sì gran città.»

E così, nella primavera del 1892, fornita di autorizzazione del Ministero dell’Interno (Nicotera) e facilitata dal Prefetto Basile, rivisitò tutte le principali opere pie di Napoli: l’Albergo dei Poveri, sotto inchiesta poiché vi regnava l’anarchia, l’Ospedale degli Incurabili, oggetto di dilapidazioni e di scandali e il Reale Stabilimento dell’Annunziata, dove, fra l’altro, analizzò minuziosamente i libri contabili.

Notizie più dettagliate sul brefotrofio dell’Annunziata sono contenute nella relazione di Nicola De Crescenzio, nominato governatore dell’Istituto nel 1871, proprio l’anno della mortalità di tutti i bambini interni all’Annunziata e dall’inchiesta di Jessie White.

La prima cura di De Crescenzio fu di procedere gradualmente all’abolizione della ruota, nonostante l’accanita opposizione del popolino, che cessò di girare nel volgere di pochi anni.

Sulla storia dell’Istituto, trattata molto marginalmente dal De Crescenzio, si dilungò invece Giambattista D’Addosio in un corposo volume pubblicato a Napoli nel 1883.12

Le norme sulle opere pie emanate dopo l’Unità d’Italia, sino alla Legge Crispi, furono individuate en passant come segue.

Al momento dell’Unità d’Italia le ruote erano aperte in 1200 comuni. Le opere pie furono subito regolamentate dalla legge 3 agosto 1862, n. 753 (G.U. n. 201 del 25 agosto 1862), cui aveva fatto seguito il regolamento di attuazione 27 novembre 1862, n. 1007 (S.O. alla G.U. n. 288 del 5 dicembre 1862).

Quella legge aveva abbandonato la gestione delle opere all’arbitrio degli amministratori con risultati nefasti. Fu l’onorevole Giovanni Nicotera, alla cui biografia Jessie White dedicò un intero volume, che si batté con coraggio leonino per la sua riforma.13

A lui si deve la creazione della prima commissione per lo studio della riforma degli infami regolamenti sulla prostituzione e l’altra per la riforma delle opere pie.

Egli ingiunse ai prefetti di depennare dai bilanci delle opere pie le spese di culto che non fossero giuridicamente obbligatorie, motivando che «Il patrimonio delle opere pie, così come da circolare ai prefetti, è gravato di 6 milioni annui di lire per spese di culto oltre ad altri 10 milioni di oneri patrimoniali consistenti essi pure, in gran parte, in spese di culto».

Nel 1877, al termine della lunga inchiesta sulle opere pie che ne denunciava le pietose condizioni e gli abusi degli amministratori, quale ministro degli Interni del governo Depretis (25 marzo 1876-26 dicembre 1877), presentò in parlamento un apposito progetto di legge sulla “Riforma della legge sulle istituzioni di beneficenza” ma quel governo presto decadde e il progetto non ebbe nemmeno l’onore della discussione.

Con R.D. 3 giugno 1880 venne istituita una nuova commissione d’inchiesta parlamentare sulle Opere Pie del Regno e il progetto di riforma fu presentato alla Camera nella tornata del 30 novembre 1881, bisognò aspettare però altri nove anni perché la nuova normativa vedesse la luce.

La legge 17 Luglio 1890 n. 6972 (G.U. n. 171 del 22 luglio 1890) nota anche come Legge Crispi, riordinò le istituzioni di pubblica assistenza e beneficenza, stabilendo nuove norme per la gestione, il controllo e delegando la loro amministrazione ai Comuni.

Antonio Ranieri iniziò l’ultimo capitolo del suo scritto con la citazione di Geremia che invocava la vendetta sui suoi persecutori: «Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi le reni e il cuore, io vedrò, sì, la vendetta che farai su loro, poiché a te io affido la mia causa!» (Geremia 20:12),ma tanti dell’Annunziata, invece di invocare vendetta, levarono a Dio il loro lamento:

«Maledetto sia il giorno che io nacqui! Il giorno che mia madre mi partorì non sia benedetto!  Perché non sono morto quando ero ancora nel grembo materno? Così mia madre sarebbe stata la mia tomba e la sua gravidanza senza fine. Perché sono uscito dal grembo materno per vedere tormento e dolore, per finire i miei giorni nella vergogna?» (Geremia 20:14-18)

 

Tommaso Todaro

 

Note

1. Dalla Bibbia, versione Nuova Riveduta, Ecclesiaste 4:1-3.

2. A. Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata, Capolago, Tipografia Elvetica, 1839, vol. I e vol. II.

3. N. De Crescenzio, I brefotrofi e la esposizione dei bambini, relazione presentata al Governo della R. Santa Casa dell’Annunziata, Napoli, 1873, pp.203 - 265. Il lavoro non si dilunga sulla storia.

4. A. Ranieri, Ginevra o l’orfana della Nunziata, Guidoni, Torino, Milano, 1862. Questa terza edizione, sempre in due volumi, è arricchita da sei tavole redatte da noti artisti italiani che hanno prestato gratuitamente la loro opera.

5. De Crescenzio, cit. p. 209.

6. J. White Mario, Le opere pie e l’infanticidio legale,  R. Stabil. Tipo-litografico Ditta A. Minelli, Rovigo,1897.

7. Nuova Antologia, fasc.XIII, 1 luglio 1896 e fasc. XVIII, 16 settembre 1896 e delle miniere di zolfo in Sicilia. Nuova Antologia, vol. 49°, 1894.

8. J. White Mario, La miseria in Napoli, Le Monnier, Firenze,1877.

9. P. Villari, Le lettere meridionali, Le Monnier, Firenze, 1878.

10. P. Villari, Scritti sulla emigrazione, Zanichelli, Bologna, 1909.

11. J. White Mario, La miseria in Napoli, Le Monnier, Firenze,1877.

12. G. D’Addosio, Origine vicende storiche e progressi della R. Santa Casa dell’Annunziata, Napoli, 1883.  

13. J. White Mario, In memoria di Giovanni Nicotera, Firenze, Barbera, 1894.

 

 

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