Vittime innocenti. Maggio 1974-2021
Quel giorno era ospite in casa di Vincenzo Crimaldi, che, malauguratamente, aveva una parentela con il capo-zona dell'omonimo clan ed era in forza di ciò obiettivo di una vendetta trasversale. Due killer a volto scoperto fecero irruzione nella modesta abitazione di campagna e a colpi di pistole e mitragliette massacrarono l'uomo, la moglie Emma Basile, il figlio Silvio e la figlia Livia, incinta al quinto mese di gravidanza. A cadere sotto i colpi dei killer anche il giovane innocente Pasquale. Identificati i responsabili. Il 4 maggio del 1977 a Napoli durante una rapina venne ucciso il cameriere Pasquale Polverino, 23 anni. Lavorava presso il ristorante "La Taverna del Ghiotto", al Corso Vittorio Emanuele. Quella sera stava mettendo a posto i tavoli, quando due uomini a volto scoperto entrarono nel ristorante per rapinare i clienti e il proprietario. I due malviventi minacciarono con un fucile a canne mozze sia Pasquale che il proprietario del locale e, proprio quando stavano avvicinandosi alla cassa per portare a termine la loro azione criminale, un complice fece irruzione nel locale invitando i due a scappare via velocemente perché stava arrivando qualcuno a disturbare la loro azione. Fu proprio in quel momento che dal fucile, puntato dietro la schiena di Pasquale, partì un colpo mortale. Pasquale Polverino lasciò la moglie e 2 figli in tenera età. Dopo alcuni giorni vennero arrestati due uomini di 29 e 26 anni già noti alle forze dell'ordine. Il processo a loro carico si svolse rapidamente. I due vennero condannati in 1° grado a 31 anni di reclusione, condanna confermata anche in appello. Nel 1981, una donna si presentò dalla polizia e confessa di conoscere i veri colpevoli dell'omicidio Polverino, scagionando così i due uomini, ingiustamente incarcerati già da 5 anni. La donna, spinta da un sacerdote con il quale si era confessata, rivelò alla polizia che ad uccidere Pasquale è stato il genero di 26 anni, insieme a un uomo di 24 anni. Il primo era già in carcere per un altro reato, mentre il secondo si costituì spontaneamente alla polizia. Il 5 maggio del 1990 a Casalnuovo fu ucciso Pasquale Feliciello. Aveva fatto il barbiere, prima di riuscire a ottenere un impiego presso l’Azienda Sanitaria Locale di Napoli. Un lavoro che gli aveva consentito di coronare il suo unico sogno: dare ai figli una possibilità diversa da quella che aveva avuto lui. Quel 5 maggio Pasquale aveva scelto di raggiungere il circolo “Rinascita”. Intorno alle 18 uscì e si trattenne sul marciapiede per aspettare suo nipote che avrebbe dovuto riaccompagnarlo a casa in auto. Nelle sue vicinanze c’era Gennaro Raimondi, un pregiudicato quarantaquattrenne ritenuto affiliato al clan dei Nuzzo. All’improvviso si sentì il rombo del motore di una moto che si avvicinava. A bordo c’erano sono due persone, avevano entrambe il volto coperto da un casco. Una di loro aveva in mano una pistola. Sparò all’impazzata verso il circolo. Pasquale si voltò di scatto e, un attimo dopo, era riverso a terra, colpito al volto e alla testa da due proiettili. Morì sul colpo. Pasquale Feliciello fu ucciso per scambio di persona. Infatti, i due delinquenti, accorgendosi di aver colpito un innocente, rincorsero l'uomo in fuga, il vero obiettivo dell'agguato, e fecero nuovamente fuoco. Nel 2003 la prima sezione della Corte d'Assise di Napoli stabilì per i responsabili dell'omicidio di Pasquale Feliciello le seguenti condanne: per i mandanti dell'agguato una condanna all'ergastolo e una condanna a 12 anni di reclusione. Per colui considerato esecutore materiale del delitto, la Corte stabilì una condanna a undici anni di reclusione. Due persone, ritenute appartenenti al gruppo omicidiario, morirono prima del processo. Pasquale Feliciello venne riconosciuto nel 2015 dal Ministero dell'Interno vittima innocente di criminalità organizzata. Il 7 maggio del 1990 scomparve da Marcianise (CE) il piccolo Pasqualino Porfidia di 8 anni. Pasqualino, terzo figlio di una famiglia umile, padre muratore e madre casalinga, scomparve in un caldo lunedì mattina mentre si trova a giocare con gli amici. Il bambino venne visto l’ultima volta seduto su una panchina verso le 11.30 del 7 maggio 1990. La madre attendeva a casa il ritorno del bimbo per il pranzo ma, non vedendolo rientrare, diede l’allarme. Le ricerche scattarono solo nel pomeriggio proseguendo tutta la notte e i giorni successivi senza trovare alcuna traccia di Pasqualino. Ventiquattro anni dopo la terribile scomparsa del piccolo Pasqualino, nel 2014, la Procura della Repubblica di S. Maria C.V. ha deciso di riaprire il caso. Alla base della decisione della Procura c’è stato anche il ritrovamento di una lettera scritta da un uomo originario di Marcianise, morto suicida a Milano. Nella lettera l’uomo ha raccontato di aver subito vari abusi sessuali da bambino nello stesso quartiere frequentato da Pasqualino. La confessione di quest’uomo ha fornito agli inquirenti una nuova pista da seguire per le indagini. La svolta nelle indagini, rispetto al ritrovamento di frammenta di ossa in un fabbricato ubicato poco distante dal luogo in cui fu visto l’ultima volta Pasqualino, non ha prodotto risultati. Non sono ossa umane, quelle ritrovate dai carabinieri, dunque non appartengono a Pasqualino. L’8 maggio del 1998 a Oppido Mamertina (RC) vennero uccisi Giuseppe Bicchieri e Mariangela Ansalone, nonno e nipote di 50 e 9 anni. Furono coinvolti loro malgrado in un regolamento di conti nel quadro di una faida tra clan mafiosi: la loro macchina venne scambiata per quella dei veri bersagli dell’agguato. Quel giorno Giuseppe, sua moglie, sua filai e le due nipotine, tra cui Mariangela, salirono in auto, una FIAT Croma, per far rientro a casa dopo una passeggiata. In quegli istanti dei killer mafiosi avevano appena compiuto un agguato in una macelleria, appartenente a un boss della ndrangheta. Gli obiettivi erano gli affiliati del clan Polimeni. L’auto di Nonno Giuseppe passò, inconsapevolmente, davanti a quel negozio proprio in quegli istanti e gli assassini, scambiatala per quella, identica, del padre di uno degli uomini che avevano appena ucciso, aprirono il fuoco contro la famiglia di Giuseppe. L’uomo, nonostante venne colpito gravemente da alcuni di quei proiettili, trovò la forza di spingere sull’acceleratore e far ripartire la sua auto per portarla lontano da quella strada. Così, con tutte le poche forze rimastegli si diresse verso la strada principale, riuscendo ad allontanare l’auto da quella pioggia di proiettili e, soprattutto, mettendo in salvo la sua adorata famiglia. Non tutti i suoi cari si salvarono. Mariangela fu gravemente colpita da alcuni di quei proiettili e per lei non ci fu niente da fare. Anche nonno Giuseppe non sopravvisse a quel pomeriggio, troppo gravi furono le ferite riportate. «Ogni giorno per noi famigliari è sempre l’8 maggio ... riviviamo quel dolore costantemente. Nessuna famiglia dovrebbe mai sentire questo specie di vuoto incolmabile e inconcepibile. Per quanto si possa andare avanti il dolore di non averli accanto, pe loro di non aver conosciuto i nipotini, di non aver vissuto la loro vita ci distrugge ... sono e rimarranno sempre con noi.» Sono le parole della nipote di Giuseppe e cognata di Mariangela. Il 9 maggio del 1978 venne ucciso a Cinisi (PA) il giornalista ed attivista Peppino Impastato. Nato a Cinisi da una famiglia mafiosa, è stato un giornalista, attivista e poeta italiano, noto per le sue denunce contro le attività di Cosa Nostra. Nel 1976 fondò Radio Aut, radio libera autofinanziata con cui denunciava i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini ed in particolar modo del capomafia Gaetano Badalamenti che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga. Nel 1978 si candidò nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Venne assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978 nel corso della campagna elettorale con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di Cinisi votarono il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente, al Consiglio comunale. Il 5 marzo 2001 la Corte d’assise ha riconosciuto Vito Palazzolo colpevole e lo ha condannato a 30 anni di reclusione. L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Il 13 maggio del 1986 a Palermo venne ucciso l’imprenditore edile Francesco Paolo Semilia, 47 anni. Quel giorno giunse in cantiere verso le 15,30. Dietro di lui scesero da una Ritmo Bianca due giovani che gli domandarono: «È lei il signor Semilia?» Ottenuta la risposta affermativa, uno dei due estrasse la pistola e cominciò a sparare. Schivato il primo proiettile, l’imprenditore tentò di fuggire ma venne raggiunto alle spalle da altre due pallottole. I killer gli si avvicinarono esplodendo da distanza ravvicinata alla testa il colpo di grazia. Gli operai del cantiere assistettero terrorizzati all’esecuzione. Non si è mai celebrato un processo. Un altro imprenditore di Palermo assassinato dalla mafia delle tangenti. I Semilia hanno innalzato numerosi tra i più eleganti e vasti edifici della città in quasi 40 anni di un’attività che mai ha dato adito a dubbi ed insinuazioni. Il 15 maggio 2004 a Sant’Antimo (NA) venne uccisa la 17enne Vincenza Visone. Era in macchina con la madre quando venne raggiunta da diversi colpi da arma da fuoco esplosi contro la vettura. Vincenza Visone e la madre Rosa Russo di 46 anni vennero prontamente soccorse e trasportate all’ospedale. Successivamente la ragazza venne trasferita al nosocomio di Frattamaggiore ma non riuscì a sopravvivere ai colpi: la giovane morì dopo poco il trasferimento. Il presunto omicida fu stato arrestato a S. Marcellino (Ce), dove si nascondeva nell’officina meccanica di alcuni amici. Si tratta di Raffaele Bonanno, 22 anni, l’uomo che ha avuto da Vincenza un bambino ed ex fidanzato della ragazza. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Napoli, Domenico Zeuli, ha emesso l'ordinanza di custodia cautelare per l'uomo, accusato dell’omicidio premeditato di Vincenza e del tentato omicidio della madre della ragazza, Rosa Russo. Nell'ottobre del 2005 si è svolta l'udienza dinanzi ai giudici della quarta sezione della Corte d'Assise del Tribunale di Napoli, presidente Giustino Gatti. L'imputato si è sempre professato innocente. Il 15 maggio 2008 a Castelvolturno venne ucciso Domenico Noviello, titolare di un’autoscuola di 55 anni. Nel 2001 aveva denunciato coloro che gli avevano chiesto il pizzo, contribuendo all’arresto di uomini del clan Bidognetti ed entrando in un programma di protezione. Nel 2003, tuttavia, tale protezione fu levata in quanto si ritenne che Noviello non fosse più in pericolo di vita. Eppure, fu dopo altri due anni che scattò la vendetta da parte del clan dei Casalesi. La mattina in cui fu ucciso, Noviello si stava recando, come ogni giorno, al bar in auto, prima di andare al lavoro. Lungo il tragitto però fu affiancato da alcuni uomini armati di pistole di grosso calibro che fecero fuoco contro di lui. Noviello tentò di scappare ma invano. I sicari lo finirono con tre colpi alla nuca. Nel corso del processo furono ascoltati i figli di Noviello, che raccontarono gli anni di terrore vissuti dalla famiglia a partire dal 2001. Noviello aveva scritto anche una lettera alla figlia minore in cui si diceva preoccupato per la sua incolumità. Nel corso dell'udienza del 29 gennaio 2014, un collaboratore di giustizia ha ammesso le sue responsabilità nell'omicidio di Noviello e consegnato una lettera in cui anche un altro uomo ha ammesso le sue responsabilità. Nel mese di luglio 2014 venne emessa la sentenza di secondo grado del Tribunale di Napoli nei confronti degli assassini, imputati, già riconosciuti colpevoli e condannati alla pena dell'ergastolo nel processo di primo grado con rito abbreviato. La decisione della Corte ha modificato per tutti e tre gli imputati la pena inflitta in primo grado, escludendo l'ergastolo ed applicando la pena della reclusione a 30 anni ed infine assolvendo un imputato dal reato di ricettazione. Una decisione incomprensibile per la famiglia della vittima, la figlia Mimma Noviello ha espresso la sua insoddisfazione e amarezza per questa sentenza: «Con questa riduzione di pena, considerando che c'è ancora un altro grado di giudizio, che potrebbe ulteriormente peggiorare la situazione, sento forte il rischio di vedere gli assassini di mio padre un giorno o l'altro circolare liberamente». Il 17 maggio del 1993 venne ucciso a Napoli il 23enne Maurizio Estate. Fu ucciso perché aveva sventato uno scippo nell’autolavaggio, in Via Vetreria a Chiaia, dove lavorava. Giuseppe Estate, suo padre e titolare dell’attività, notò l’arrivo di due ragazzi sulla Vespa: si accorse subito che non avevano buone intenzioni e mentre loro si lanciarono sull’orologio della “vittima designata”, lui cominciò a urlare. Mentre i ladri fuggivano Maurizio li rincorse riuscendo a vederne uno in viso e la cosa fu reciproca. Dopo nemmeno mezz’ora scattò la vendetta: all’autolavaggio si presentò un giovane con un giubbotto blu, impugnava una pistola, si diresse verso Maurizio e fece fuoco. Un solo colpo che raggiunge il ragazzo al petto. Dopo una notte di latitanza si costituì per l'omicidio del giovane Maurizio Estate un giovane di 17 anni. Nel maggio 1994 venne condannato a 21 anni di reclusione. Il 17 giugno 2014 presso l'aula Consiliare dell'Auditorium di Scampia si è svolta un'iniziativa in memoria di Maurizio Estate. L'aula è stata dedicata alla sua memoria. Il 18 maggio 1990 viene ucciso a Napoli Nunzio Pandolfi, un bambino di appena 18 mesi. Trovò la morte tra le braccia del padre, Gennaro Pandolfi, il vero bersaglio dell’agguato di cui il bimbo fu vittima. Il piccolo si trovava a casa della nonna insieme al padre quando due uomini a volto coperto fecero irruzione ed iniziarono a sparare sui presenti. I sicari avevano come obiettivo Gennaro perché era persona di fiducia di Luigi Giuliano, il boss di Forcella. Nonostante la vittima prestabilita tenesse in mano il figlio, i due, senza scrupolo alcuno, spararono all’uomo. Gennaro e Nunzio morirono, quattro loro familiari rimasero feriti. Il 18 maggio 2021 a Casoria Gianluca Coppola, venne ucciso dall’ex della fidanzata per motivi di gelosia. Gravemente ferito a colpi di pistola in strada l’8 aprile, il giovane è deceduto in ospedale dopo oltre un mese, nella notte del 18 maggio. L'uomo che ha ucciso Gianluca, Antonio Felli, dopo 40 giorni di latitanza, viene arrestato. Nel maggio 2024 la Cassazione ha confermato la condanna a 19 anni di reclusione. Il 21 maggio 1991 venne ucciso a Napoli Vincenzo Ummarino, comandante di marina in pensione, 64 anni. Fu ucciso per errore con un colpo alla nuca durante una sparatoria nei Quartieri Spagnoli. Tre killer spararono su un'auto in sosta ma gli occupanti risposero al fuoco. Il povero Vincenzo Ummarino si trovava nella scia dei colpi e cadde al suolo in una pozza di sangue. Morì poco dopo il ricovero in ospedale. I carabinieri accorsi sul posto riuscirono a bloccare i killer che stavano provando a scappare. Gli arrestati risultarono essere affiliati al clan Mariano, al centro di varie guerre di potere tra ex affiliati e altre famiglie criminali per il controllo degli affari nella zona di Chiaia. Il 23 maggio del 1992 avvenne la Strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli uomini della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Falcone chiese all’ autista, Giuseppe Costanza, di poter guidare lui. L’autista giudiziario acconsentì. Il programma era quello di lasciare l’aeroporto di Punta Raisi, percorrendo l’autostrada Palermo-Mazzara del Vallo, per raggiungere casa Falcone e lasciare li Francesca Morvillo, anch’essa magistrato e moglie di Giovanni, per poi fare delle commissioni. Costanza allora ricordò a Falcone che appena concluso tutto il programma doveva restituire le chiavi dell’auto in modo che egli potesse, il lunedì successivo, riprenderla e tornare in servizio. Il giudice anti-mafia, però, in quei giorni era concentrato su ben altro. Era preoccupato e distratto. Così alla richiesta di Costanza girò le chiavi nel quadro accensione e fece per toglierle spegnendo per un attimo il motore. «Dottore ma cosa fa? Così ci ammazziamo» - lo ammonì l’autista. Falcone riemerse dai propri pensieri, chiese scusa e riaccese il motore. Un gesto, quello di Falcone, che creò un attimo di esitazione in Giovanni Brusca, che vide la Croma bianca rallettare per un attimo, ingaggiato appositamente da Riina per l’occasione ed appostato in una strada di campagna parallela all’autostrada pronto a fare click sul telecomando che avrebbe fatto esplodere una carica di 500 kg di tritolo. Un’esitazione che salvò propria vita di Giovanni Costanza. Giovanni Falcone e la moglie morirono, invece, poco dopo in ospedale. Erano le 17,56. Un boato squarciò le coscienze e quel tratto di autostrada. La Croma marrone, quella con gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, che precedeva l’auto con Falcone, che si schiantò contro il muro di asfalto e detriti improvvisamente innalzatisi per via dello scoppio, fu investita in pieno dall'esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi ad alcune decine di metri di distanza. Nessuno scampo per i tre agenti. Rimasero feriti ma vivi gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che viaggiavano nella Croma azzurra, che chiudeva il corteo delle auto. Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, alle ore 1.04, a Firenze, avvenne la strage di via dei Georgofili. Un attentato dinamitardo ad opera della mafia. Fu fatta deflagrare un’autobomba in un’antica via del centro storico, ai piedi della storica Torre del Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili. Un Fiat Fiorino imbottito di 250 chilogrammi di una miscela esplosiva composta da tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina esplose provocando il crollo della Torre sede dell’Accademia dei Georgofili e la devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di ben 12 ettari, con un impatto che è stato definito “bellico”. Morirono Caterina Nencioni di 50 giorni, Nadia Nencioni di 9 anni, Angela Fiume di 36 anni, Fabrizio Nencioni di 39 anni, Dario Capolicchio di 22 anni. Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili, risiedeva nella Torre con la sua famiglia. Molti edifici della zona come Palazzo Vecchio, la Chiesa di S. Stefano e Cecilia e il complesso artistico monumentale della Galleria degli Uffizi subirono gravi danni: si persero per sempre capolavori e preziosi documenti, il 25% delle opere presenti in Galleria subì danni, ma soprattutto si persero per sempre cinque vite umane. Dopo un lungo iter processuale furono comminati 15 ergastoli, definitivamente attribuiti dalla Cassazione il 6 maggio 2002. Nel 2008 Gaetano Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e confermò le sue responsabilità nell'attentato. In particolare, Spatuzza dichiarò che la strage venne pianificata durante una riunione in cui erano presenti lui, Barranca e Giuliano insieme ai boss Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Francesco Tagliavia (capo della Famiglia di Corso dei Mille), i quali decisero l'obiettivo da colpire attraverso dépliant turistici; inoltre Tagliavia finanziò anche la "trasferta" a Firenze per compiere l'attentato. Il 28 maggio 1974 a Brescia avvenne la Strage dí Piazza della Loggia, un attentato terroristico di matrice neofascista con collaborazioni da parte di membri dello Stato italiano dell'epoca, servizi segreti ed altre organizzazioni. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista, provocando la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue. Un'altra persona morì in seguito alle ferite molto tempo dopo, portando a 9 il numero totale dei decessi. Le vittime furono Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Clementina Calzari Trebeschi, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi e Vittorio Zambarda. I responsabili di tale strage: Ordine Nuovo. Come esecutori materiali: Carlo Digilio, Marcello Soffiati, Ermanno Buzzi, Marco Toffaloni e Maurizio Tramonte; mandante: Carlo Maria Maggi. La motivazione è da ricercarsi in un’opera di intimidazione verso gli antifascisti che manifestavano contro il terrorismo nero e contro il MSI. Il 29 maggio del 1982 a Cava dei Tirreni (SA) venne uccisa la piccola Simonetta Lamberti di 11 anni. Alfonso Lamberti, padre di Simonetta, all’epoca del tragico agguato aveva 45 anni ed era procuratore della Repubblica presso il tribunale di Sala Consilina e docente di Storia del Diritto Penale presso l’università di Salerno. In quegli anni svolgeva il suo lavoro con determinazione e forza e indagava sui traffici della camorra legati in particolare alle ricostruzioni post terremoto dell’Irpinia. Ad Alfonso Lamberti venne assegnata un’auto blindata che però proprio quel sabato di maggio non aveva ritenuto opportuno utilizzare. Lamberti, infatti, nel trascorrere una mattinata al mare con la figlia non aveva fiutato alcun pericolo e aveva deciso di prendere la propria automobile. Alle 15,30 il commando accerchiò l’auto del magistrato e sparò una serie di proiettili in direzione della Bmw sulla quale viaggiavano Alfonso Lamberti e la figlia, poi gli assassini si diedero alla fuga. Dal raid il magistrato uscì ferito alla spalla e di striscio alla testa, ma un proiettile colpì Simonetta alla tempia, provocando la morte qualche ora dopo. «Ho una sorella con cui non ho mai giocato, non ne conosco la voce, non ho nessun ricordo di me e lei. Solo la sua ombra. Che cerco inutilmente di afferrare ogni giorno. Ricordo le sere di agosto, le rare sere in cui papà non lavorava ed era con noi in vacanza, in cui ero nel piccolo giardino all’ingresso della casa, dove c’era un tavolo bianco con due sedie e dove io e papà guardavamo il cielo cercando delle stelle cadenti. Chiedevo sempre a papà di farmi una grattatina sulla schiena, perché mi piaceva tantissimo. Appena smetteva, gli chiedevo di ricominciare ogni volta. E lui non poteva far altro che accontentarmi. È uno dei pochi ricordi dolci della mia infanzia difficile. All’epoca ancora non immaginavo né sapevo di aver perso una sorella a causa della camorra.» Serena Simonetta Lamberti sorella di Simonetta. Il 30 maggio 1994 a Bivona (AG) venne ucciso l’imprenditore Ignazio Panepinto, 57 anni. Era titolare di un impianto di calcestruzzo. Aveva dedicato tutto se stesso alla sua impresa che aveva tenuto lontano dall’influenza della mafia locale: per questo venne ucciso con tre colpi di lupara proprio nella sua cava. Lo assassinarono tra le pietre, come a voler anche far capire la ragione di quella ferocia. Fu ucciso perché rifiutò di rinnegare i suoi principi morali. Qualche mese dopo, il 19 settembre, vennero assassinati anche suo fratello, sempre per analoghe ragioni, e l’operaio Francesco Maniscalco.
Francesco Emilio Borrelli |
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