Mondo e intelletto
Si suppone, in altri termini, che la scienza “rappresenti”, che ci fornisca una visione complessiva: la cosiddetta immagine scientifica del mondo. Ed è noto che gli stessi scienziati parlano di visione scientifica del mondo almeno a partire da Galileo. Si tratta quindi di un modo comune di parlare; ci viene spontaneo immaginare visioni del mondo complessive perché si tratta di espressioni che appartengono alla storia stessa della filosofia e della scienza occidentali. Tuttavia, non sempre le espressioni spontanee riflettono fatti realmente esistenti. Wilfrid Sellars ci presenta una netta dicotomia. All’immagine scientifica, che è il mondo come viene descritto dalla scienza, si contrappone l’immagine manifesta, il mondo così come ci appare nella vita di ogni giorno. L’immagine scientifica fornisce una rappresentazione assai diversa da come le cose ci appaiono. Eppure la scienza si propone di rappresentare, come il senso comune, proprio la realtà in cui noi tutti viviamo. Sellars conclude che vi è un conflitto irrisolvibile tra le due immagini, e che l’immagine scientifica - che è a suo avviso superiore - è eventualmente destinata a sostituire completamente quella manifesta. In fondo tale discorso è contiguo all’idealismo. Sostenere l’inferiorità e l’eliminabilità dell’immagine manifesta significa in sostanza dire che tutto ciò che ci circonda, almeno come noi lo vediamo, è pura illusione, mera apparenza e non realtà. E si tratta, come tutti sappiamo, di un tema che non è certo nuovo. Basti pensare agli idealisti britannici del XIX secolo, Bradley e McTaggart. L’immagine manifesta - la versione sellarsiana della “apparenza” - si rivela coerente ad un’analisi attenta, ma il resoconto della realtà che essa ci fornisce è inferiore, perché meno esplicativo, al resoconto che ci viene dall’immagine scientifica. Anzi, Sellars cerca di mostrare che l’immagine manifesta è necessariamente “incompleta” sul piano della spiegazione, poiché ammette rotture e discontinuità non spiegabili nei suoi stessi termini. L’immagine manifesta è una teoria, nata nelle nebbie della preistoria, che è stata da noi interiorizzata (diventando per l’appunto “senso comune”) dopo averla creata. Tuttavia questa teoria non si differenzia dalla scienza solo per la sua età, ma anche per il fatto che la sua formazione non ha condotto - a differenza della scienza - alla postulazione di entità non-manifeste per spiegare quelle manifeste. Ne consegue che essa si trova nella scomoda posizione di ammettere fenomeni che non possono essere spiegati nel suo contesto. Ed è un fatto che spesso la spiegazione è possibile soltanto postulando realtà che trascendono il piano puramente fenomenico. Ecco perché l’immagine manifesta è apparenza e non realtà: essa si rivela incompleta a livello esplicativo. Il filosofo con ambizioni sistematiche cerca di completare l’immagine manifesta fornendo le spiegazioni (metafisiche) di cui essa ha bisogno, ma non ci riesce perché, nel tentativo, deve comunque postulare come “reali” entità che non si riscontrano al suo interno. E se non vi fossero “entità” (rappresentazioni, teorie, schemi concettuali, etc.) come l’immagine manifesta o quella scientifica? In altre parole: proviamo ad adottare una qualche forma di scetticismo a proposito delle immagini del mondo, delle cornici concettuali, dei “mondi” cui sembriamo dar vita quando parliamo del “mondo della scienza”, del “mondo del senso comune”, e via dicendo. L’immagine manifesta di cui parla Sellars è il modo in cui il mondo appare a noi, essere umani; è pure il mondo descritto dalla filosofia sistematica; ed è infine un’immagine la cui evoluzione non prevede la postulazione di entità non manifeste per spiegare i fenomeni osservabili. E tuttavia la filosofia è stata costantemente impegnata, nell’intero corso della sua storia, in postulazioni e reificazioni di ogni tipo. Entità “postulate” quali concezioni globali, cornici concettuali, immagini e visioni del mondo sono da sempre presenti nella cosiddetta “filosofia perenne”, mediante la reificazione di espressioni linguistiche. Com’è possibile, allora, sostenere che la postulazione è estranea all’immagine manifesta? Rammentiamo quanto afferma Popper: “Quel che riscontriamo in Platone e nei suoi predecessori è l’elaborazione consapevole e l’invenzione di un nuovo accostamento al mondo e alla conoscenza di esso. Tale atteggiamento trasforma una concezione originariamente teologica, l’idea di spiegare il mondo visibile mediante un presupposto mondo invisibile, nello strumento fondamentale della scienza teorica. Tale idea era stata esplicitamente formulata da Anassagora e da Democrito come principio di indagine della materia o struttura fisica; la materia visibile doveva essere spiegata mediante delle ipotesi intorno a degli invisibili, relative cioè a una struttura invisibile, troppo piccola per essere vista. Con Platone questa concezione risulta consapevolmente accettata e generalizzata; il mondo visibile del mutamento deve essere in definitiva spiegato mediante un mondo invisibile di “Forme” immutabili”. Vi sono pertanto due fatti nella caratterizzazione che Sellarså ci fornisce delle due immagini che causano delle contraddizioni. In primo luogo egli ci spiega i termini che usa, ma lo fa ricorrendo al linguaggio tradizionale, cioè quello del senso comune. Si tratta della classica spiegazione della natura umana che introduce entità mentali come immagini e concezioni. Così, quando cerca di farci capire cosa sono le sue due immagini, utilizza termini del senso comune che non dovrebbero trovar posto nell’immagine scientifica. Essi andrebbero invece eliminati. La conclusione è che il linguaggio del senso comune non può essere completamente ridotto a quello scientifico. Il secondo fatto - ancora più sorprendente - è che se rammentiamo che la postulazione di entità non manifeste è un’attività per definizione estranea all’immagine del senso comune, ci troviamo invece di fronte a immagini, visioni del mondo, cornici concettuali etc. che nell’immagine manifesta non dovrebbero esserci. Ne consegue che parlando delle sue due immagini, Sellars adotta una prospettiva che non appartiene all’immagine manifesta né a quella scientifica: esse si trovano in una sorta di limbo ontologico. Che ne è, a questo punto, dell’uomo comune che vive nell’immagine manifesta? Rammentiamo ancora una volta che, secondo Sellars, la linea divisoria è data dal fatto che l’immagine scientifica è caratterizzata dalla postulazione, mentre quella manifesta non contiene entità postulate, ma solo cose sperimentate, per quanto descritte in modo errato. Agendo in questo modo, tuttavia, togliamo al senso comune l’intera dimensione delle: analogie, delle metafore, seguite dalla personificazione e dalla reificazione, che hanno sempre riempito il nostro mondo di grandi quantità di enti postulati. E ciò che sottende questa dinamica è proprio l’esigenza di spiegare. In altri termini, i filosofi hanno privilegiato il senso comune ogni volta che un nuovo paradigma - non soltanto, e non necessariamente - scientifico ha messo in crisi un numero troppo elevato di credenze in precedenza accettate. Il Dottor Johnson, dando un calcio al sasso, volle dimostrare che la credenza spontanea nell’esistenza degli oggetti fisici è più forte e più convincente delle argomentazioni gnoseologiche avanzate da Berkeley. Una mossa analoga la ritroviamo quando Reid contestò i dubbi di Hume circa la nostra capacità di conoscere gli oggetti della percezione. Dunque il senso comune, piuttosto che un’immagine concettuale, è una procedura di tipo razionale: essa ci spinge a mantenere tenacemente le nostre attuali credenze fin quando non vi sia abbastanza evidenza per abbandonarle. La - relativa - inerzia del senso comune si è rivelata spesso utile in ambito filosofico; oggi vediamo che la gnoseologia empirista di Berkeley e Hume era fondata sul presupposto errato che sia possibile isolare i dati sensoriali indipendentemente dal contesto concettuale. Avevano dunque ragione Johnson e Reid a notare che la credenza negli oggetti fisici precede logicamente il linguaggio delle sensazioni.
Michele Marsonet
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