Il Manifesto di Ventotene: message in a bottle
Da un lato, lo si attacca evocandone una presunta ispirazione ideologica superata; dall’altro, lo si difende come testo sacro della democrazia, senza più interrogarsi né sul contesto che lo ha generato né sulla traiettoria successiva del suo autore. Ciò che emerge, al di là delle dichiarazioni, è la rinuncia collettiva a una lettura critica della storia e ci si affida al nome, non al contenuto, si combatte l’immagine, non il significato. E nel paradosso che ne deriva, dove chi accusa si scaglia contro un bersaglio ormai inattuale e chi risponde lo incensa come reliquia, si delinea una convergenza: entrambi gli schieramenti si muovono sulla superficie di una memoria deformata, utile più a giustificare il proprio ruolo che a comprenderne la sostanza. In questa operazione, del Manifesto non importa davvero a nessuno. Basta evocarlo o additarlo, a seconda della convenienza. In fondo, quando l’unico obiettivo è resistere fino alla fine della legislatura, mentre il paese affonda nella palude delle norme comunitarie, del debito pubblico e del precariato, ogni feticcio storico può andare bene. Purché funzioni. Purché distragga. Purché si parli d’altro. Purché non ci si chieda del perché si governa a colpi di fiducia, di bonus e di roboanti annunci che si autodistruggono dopo averli ascoltati “a reti unificate”. La continua evocazione del Manifesto di Ventotene, anche da parte delle élite europee e dei loro rappresentanti politici, è oggi parte integrante di un più ampio attacco alla storia, alla cultura e alla coscienza critica dei popoli. Un testo nato in un contesto rivoluzionario e bellico viene oggi impiegato come copertura retorica per giustificare l’ordine tecnocratico, la progressiva militarizzazione dell’unione e la cancellazione di ogni vero dibattito democratico. L’uso che se ne fa non è neutro ma serve a puntellare quel che è rimasto del già risicato consenso popolare attraverso la distorsione della memoria, a proiettare simboli di resistenza su strutture di dominio, a evocare ideali per legittimare interessi. In un’Europa sull’orlo del collasso economico e culturale, dove la spinta verso un confronto armato con la Russia viene normalizzata come “inevitabile”, la celebrazione del Manifesto non è più un atto commemorativo, ma un’operazione ideologica. Ancora più deludente è che questa operazione sia condotta da una classe politica subordinata, incapace di produrre visione, che si limita a estrapolare dal testo ciò che conviene al momento, ignorandone o deliberatamente oscurandone le ambiguità più profonde: l’elitarismo, la giustificazione della violenza, l’androcentrismo, il disprezzo per la sovranità popolare. Tra gli elementi più ricorrenti nella retorica istituzionale vi è l’impiego sistematico della parola “democrazia” in riferimento al Manifesto di Ventotene. Ma proprio questo uso disinvolto ne rivela la fragilità, infatti a ben vedere nel testo originario, la democrazia non è presentata come fondamento irrinunciabile, bensì come opzione subordinata a un processo rivoluzionario guidato da un’élite. Il concetto viene sospeso nei “momenti fondativi” e rimpiazzato da una legittimazione di tipo funzionale, dove il fine giustifica il mezzo. Eppure, nei documenti celebrativi ufficiali (come nel comunicato dell’Agenzia per la Coesione Territoriale per l’80° anniversario) si parla del Manifesto come se contenesse una compiuta teoria democratica conforme ai valori costituzionali odierni. In realtà, ciò che emerge è un impiego ornamentale del linguaggio democratico, in funzione autoassolutoria e celebrativa, del tutto disancorato dal contenuto effettivo del testo. In questo contesto governativo, la parola “democrazia” viene impiegata non per chiarire ma per coprire, non per spiegare, ma per consacrare. Un uso rituale che, anziché aprire una riflessione sul potere, la chiude nel recinto della retorica. Redatto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, è spesso descritto come fondamento del sogno europeista. Basta una lettura senza pregiudizi per cogliere la natura profondamente contraddittoria di quel testo. I passaggi più critici si trovano nelle sezioni centrali, dove si afferma che “nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente”, e che “attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia”. Queste affermazioni, lontane dall’ideale democratico-parlamentare, configurano una concezione tipicamente avanguardista: l’élite che guida il popolo, la dittatura transitoria, la sospensione delle garanzie per costruire un ordine nuovo. Non si tratta di scelte stilistiche, ma di un impianto ideologico che nega in radice il metodo democratico e costituzionale. Lo stesso uso della violenza viene esplicitamente ammesso come strumento legittimo “quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità”. Il concetto di sovranità popolare è svuotato, sostituito da un processo di legittimazione “per adesione” e non per rappresentanza. Forse ci ricorda qualcosa? Anche la costruzione sociale del Manifesto è monolitica. Le donne sono menzionate unicamente in funzione critica verso il militarismo dei regimi totalitari, dove — testualmente — «le madri vengono considerate come fattrici di soldati». Questo è solo uno dei tanti punti critici: il testo non contesta la riduzione della donna al ruolo di madre, bensì solo la destinazione militare attribuita a quella maternità. La funzione materna è data per acquisita, immutabile, naturale. Non si riconosce alla donna la possibilità di scegliere un ruolo diverso da quello biologico-riproduttivo, né le si attribuisce una soggettività politica. È una menzione strumentale, retorica, che non si traduce in alcuna dignità autonoma o cittadinanza attiva. In questa luce, risalta ancora di più la distanza radicale — e non certo cronologica — rispetto alla visione emancipatrice e pluralista espressa vent’anni prima dalla Carta del Carnaro, dove già si riconosceva esplicitamente la piena uguaglianza civile, politica di tutti i cittadini, a prescindere dal sesso, dall’orientamento sessuale, dalla religione o dalla condizione sociale. Ma soprattutto, la Carta del Carnaro fu il primo documento politico del Novecento ad aprire esplicitamente l’adesione a tutti i popoli, fondando un’idea embrionale di unione continentale non sulla coercizione, ma sulla libera accettazione dei valori repubblicani, sociali, culturali e individuali. In questo senso, è proprio lì, a Fiume, che si possono rintracciare i semi autentici di un moderno europeismo dei popoli. Il Manifesto di Ventotene, che tanta parte della cultura ufficiale continua a considerare come slancio progressista, rappresenta in realtà una brusca regressione rispetto a un progetto repubblicano che fu rifiutato a cannonate, insieme a tutto ciò che in esso prefigurava una repubblica autenticamente inclusiva, così come nel 1799 fu rifiutata la libertà e la repubblica per mano del boia Borbone. Laddove si era aperta una possibilità concreta di sovranità dal basso, giustizia sociale e piena partecipazione civica, il Manifesto ripristina una gerarchia rivoluzionaria tecnocratica, priva di umanesimo, priva di corpo, priva del ruolo fondamentale delle donne. Su questo punto lo Spinelli “maturo” offre una lettura trasversale dell'universo femminile attraverso le vicende personali orgogliosamente esposte nel suo diario. Il paradosso si compie oggi, la maggioranza lo attacca per ciò che non è più, un documento utopico e radicale, e l’opposizione lo difende per ciò che non è mai realmente stato un testo democratico e liberale. Spinelli stesso, da comunista internazionalista negli anni Trenta, si trasformò in federalista atlantico nel secondo dopoguerra, fino a divenire interlocutore privilegiato delle élite euroamericane, come da lui stesso documenta nel suo diario europeo. Questa evoluzione trova una delle sue conferme più esplicite proprio in quel diario, dove Spinelli documenta il suo viaggio negli Stati Uniti. Durante quel soggiorno, ebbe numerosi incontri con rappresentanti dell’amministrazione e dell’intelligence statunitense per promuovere il suo progetto federalista. In particolare, riporta un colloquio con Richard Bissell, alto funzionario della Central Intelligence Agency (CIA), che si dichiarò favorevole ai suoi piani e promise di intervenire presso William J. Donovan, presidente dell’American Committee on United Europe (ACUE), e la Ford Foundation per garantire sostegno finanziario. Spinelli incontrò poi personalmente Donovan, in presenza di Hovey, direttore esecutivo dell’ACUE. Entrambi si dissero entusiasti del progetto, approvando il ruolo di Spinelli come promotore diretto e manifestando sfiducia nei governi, preferendo piuttosto un’azione affidata alle élite. In quell’occasione, Spinelli ricevette anche il sostegno dell’United States Information Agency (USIA), a conferma del suo pieno inserimento in una strategia di influenza culturale e politica filoccidentale. Questa traiettoria rientra a pieno titolo in quella che la storiografia definisce “atlantismo progressista”, un orientamento politico-culturale che unisce retorica federalista, appello alla democrazia e piena adesione all’egemonia statunitense. Altiero Spinelli non solo abbandonò le istanze rivoluzionarie originarie, ma arrivò ad affermare nel diario europeo che «per quanto non si possa dire pubblicamente, l'Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l'Unione Sovietica.» (Diario Europeo, Il Mulino, 1989, p.175). Un’affermazione grave, ma perfettamente coerente con il pensiero strategico americano tradizionale, sempre pronto a trasformare l’emergenza in opportunità. Per Spinelli, dunque, il Manifesto da promessa di rottura, si trasformò nel suo passe-par tout personale. Nel Diario europeo (p.179), Spinelli certifica questo passaggio in modo inequivocabile. Ricorda con distacco quello che definisce “l’insopportabile stile di tutti coloro che si sono dibattuti fra marxismo, crocianesimo, hegelismo”, dichiarando di non amare più quello stile presente in Garosci, Valiani, Venturi, e concludendo «oggi non saprei più scrivere in tal modo, perché non so più pensare in tal modo». Non è un cambiamento formale, ma è una rottura con tutto l’orizzonte culturale della sinistra europea. Il rigetto del pensiero dialettico e critico coincide con l’adesione a un pensiero funzionale all’ordine geopolitico atlantico e tecnocratico. In quel momento Spinelli prende congedo dalla propria genealogia culturale e sancisce l’inizio di una traiettoria che lo renderà un interlocutore affidabile, un perfetto agente per le élite euroamericane. «Pertanto ogni lettura del Manifesto di Ventotene come espressione continuativa del suo pensiero è, da quel momento, storicamente infondata». E quello che allora Spinelli non poteva dire pubblicamente è oggi divenuta prassi istituzionale. Con la crisi ucraina del 2022, l’Unione Europea ha formalizzato un piano di riarmo e di difesa comune noto come Bussola Strategica, che prevede l’aumento della spesa militare, la creazione di una forza europea di intervento rapido e una cooperazione rafforzata con la NATO. L’Europa si sta unificando davvero nei termini prefigurati da Spinelli, sotto la pressione del conflitto, attraverso strutture tecnocratiche, e con la subordinazione ai piani strategici atlantici. L’integrazione si realizza non attraverso la sovranità dei popoli, ma attraverso la logica dell’emergenza permanente e la socializzazione delle perdite finanziarie. Nessuno oggi contesta seriamente l’uso distorto di quella memoria. Al contrario, lo si strumentalizza per simulare opposizione, per mettere in scena una polarizzazione fittizia, mentre la sostanza resta identica. La realtà è che la retorica spinelliana serve solo a tentare di resistere fino a fine mandato o almeno fino alla prossima sceneggiata, in un equilibrio americanocentrico che si regge più sul ricatto economico e geopolitico che su un reale consenso. Questa riflessione non intende demonizzare né incensare il personaggio al quale dedicherò, forse, ben altro spazio. Intende solo restituire il Manifesto di Ventotene al suo contesto naturale, con tutti i suoi limiti e le sue tensioni, a tutela della memoria storica dall’uso strumentale e tentare di ridare alla cultura europea la capacità di riconoscersi nei suoi errori, non solo nelle sue illusioni. It's only a message in a bottle, ‘cause we’re all alone together.
Luigi Speciale
Fonti online: Agenzia per la Coesione Territoriale. “Il Manifesto di Ventotene compie 80 anni.” Scuola Altiero Spinelli. “Altiero Spinelli.” Senato della Repubblica Italiana. “Il Manifesto di Ventotene.” European External Action Service. Strategic Compass for Security and Defence.
Bibliografia: Croce, Benedetto. La rivoluzione napoletana del 1799. Bari: Laterza, 1912. Cuoco, Vincenzo. Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799. Napoli: Tipografia della Società Filomatica, 1801. De Ambris, Alceste, e Gabriele D’Annunzio. La Carta del Carnaro. Fiume, 1920. (Rist. anastatica, Torino: Aragno, 2004). Guerri, Giordano Bruno. Disobbedisco: Fiume 1919-1920. Milano: Mondadori, 1993. Scott-Smith, Giles. The Politics of Apolitical Culture: The Congress for Cultural Freedom, the CIA and Post-War American Hegemony. London: Routledge, 2002. Spinelli, Altiero. Diario europeo (1948–1969). Bologna: Il Mulino, 1989. |
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