Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I problemi del soggettivismo

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John Henry Newman Nelle sue opere John Henry Newman ha spesso messo in luce incoerenze ed aporie presenti in alcune correnti della filosofia moderna e contemporanea. Il filosofo e teologo britannico nota che la logica non può mai essere fine a se stessa. La logica è strumento, e non certo fondamento della realtà.

Parimenti, l’opposizione tra verità di ragione e verità di fatto, risalente a Cartesio, Locke e Leibniz, non appartiene al modo newmaniano di pensare, poiché egli individua sempre un legame intrinseco tra le visioni mentali dell’uomo e la realtà esistente.

La nozione di “datità oggettiva” svolge quindi, nell’opera del pensatore inglese, un ruolo essenziale, dal momento che il fulcro portante della vita consapevole dell’uomo, il punto da cui non può non prendere inizio, è l’atto della presa di coscienza che consiste nel rendersi conto di se stessi nel contesto della realtà oggettiva. Newman capovolge pertanto l’assioma basilare del soggettivismo moderno: «Esso si fonda sul caposaldo che l’io o soggetto è centro a se stesso, essendo principio e fine di se stesso, e dunque per così dire l’assoluto di se stesso.»

 

In effetti quello dei rapporti tra la nostra mente e la realtà circostante, di cui dopo tutto anche la mente fa parte, è uno dei temi classici della filosofia moderna e contemporanea. Si tratta del dualismo tra soggetto e oggetto, che nella tradizione filosofica occidentale ha svolto, e svolge tuttora, un ruolo molto importante.

La pluralità delle menti e l’unicità del reale ha indotto non pochi pensatori ad adottare un atteggiamento di “relativismo concettuale”, basato sull’assunto secondo cui ogni mente si trova in una posizione particolare nei confronti del mondo ed ha, quindi, una prospettiva diversa da quella delle altre menti.

La filosofia dei nostri giorni utilizza a tale proposito la metafora degli “schemi concettuali”. Alcuni autori, come Nicholas Rescher, sposano con convinzione la tesi di schemi alternativi. Altri - per esempio Donald Davidson - la rifiutano, sostenendo che è impossibile trovare un sistema di coordinate comune rispetto al quale ciascun schema può essere definito “relativo”.

Una scorciatoia che consente - entro certi limiti - di dare un senso compiuto al relativismo concettuale è la seguente. Dobbiamo sforzarci di identificare, all’interno della nostra mente, un elemento (o degli elementi) che non risulti “contaminato” dal processo interpretativo che filtra i nostri rapporti con la realtà.

Ovviamente tale elemento non può che essere comune, proprio perché l’interpretazione entra in gioco a posteriori, trovandolo già pronto. Ecco quindi che i molteplici schemi diventano “relativi” rispetto ad esso, e il loro ruolo è quello di organizzarlo.

Le varie versioni del “contenuto” kantiano hanno proprio una simile funzione, come le “impressioni” di Hume e i “dati di senso” di Russell. Qualcuno potrebbe osservare che, secondo Kant, può esservi un solo schema. Tuttavia, se ammettiamo il dualismo di schema e contenuto, compare immediatamente sulla scena la possibilità che esistano schemi concettuali veramente alternativi.

Una simile rappresentazione dei rapporti intercorrenti tra mente e mondo ha in buona sostanza determinato il tipo di problemi che la filosofia, da Descartes in avanti, ha ritenuto di dover affrontare e risolvere. Ciò è particolarmente evidente nella teoria della conoscenza, o “gnoseologia” per usare un’accezione tradizionale, oppure “epistemologia” se si preferisce la dizione in uso nella comunità filosofica anglosassone.

Se, infatti, impostiamo la questione nei termini di cui sopra, viene spontaneo chiedersi com’è possibile che si conosca qualcosa circa il mondo “esterno”. Non solo. Proseguendo lungo il medesimo sentiero, dobbiamo pure chiederci come possiamo avere una qualche conoscenza delle altre menti.

E, infine, sorge il quesito più strano e inquietante. Partendo da simili premesse, come possiamo essere certi dei contenuti della nostra stessa mente? Per rassicurarci, occorre per l’appunto l’intervento di elementi “neutri” dello schema. Si tratta di “oggetti” speciali come i dati di senso, le impressioni, gli “enunciati protocollari” dei neopositivisti logici.

Qual è l’obiettivo comune di tutti coloro che si pongono alla ricerca di tali elementi neutri dello schema?

A ben guardare, è quello di trovare una “fonte ultima” dell’evidenza le cui caratteristiche possano essere specificate senza menzionare ciò cui l’evidenza stessa si riferisce. Ed è così che, per esempio, i dati di senso possono essere identificati - e perfino descritti - senza riferirsi a quanto c’è (oggetti) o accade (fatti) intorno a noi. E’ ovvio che, se la nostra conoscenza del mondo discende in toto da un’evidenza di questo tipo, allora è plausibile sostenere che i sensi c’ingannano non solo talvolta, ma sempre.

Le fonti ultime dell’evidenza devono insomma essere isolate dal cosiddetto mondo esterno. In assenza di tale operazione, il valore dell’evidenza per il soggetto non può essere garantito. Dal momento che non possediamo certezze circa il mondo esterno alla mente, la dimensione della soggettività conserva la sua purezza solo a patto di essere protetta dalla contaminazione della realtà naturale.

Il prezzo da pagare in questo caso è noto. La totale separazione tra mente e mondo crea uno iato impossibile da colmare. Se si parte dal punto di vista cartesiano, non siamo in grado di specificare a “cosa” l’evidenza si riferisce, il che significa procedere automaticamente verso l’idealismo o lo scetticismo.

Si osservi inoltre che, se l’evidenza ultima che fornisce il contenuto ai nostri schemi concettuali è soggettiva fino a questo punto, lo è anche qualsiasi elemento che su essa si basa, dalle credenze alle intenzioni, dai desideri ai significati delle parole. Pure tali elementi manifestano un’indipendenza totale da ciò cui, teoricamente, si riferiscono.

Proprio come le sensazioni, potrebbero essere come sono in presenza di un mondo molto - o anche completamente - diverso. Dunque le nostre credenze si propongono di rappresentare qualcosa di oggettivo, ma la loro estrema soggettività ci impedisce ab initio di capire se esse corrispondono alla realtà che dovrebbero rappresentare.

Proprio questa è, a ben vedere, la concezione classica del dualismo tra soggetto e oggetto. La mente viene concepita alla stregua di entità dotata dei suoi oggetti e dei suoi stati “privati”. La nozione di soggettività occupa il centro della scena, identificandosi con “ciò che è nella mente.

Eppure un’analisi serena ci pone subito in grado di comprendere che le cose non possono stare così. Prendiamo in considerazione il processo mediante il quale afferriamo il significato di parole ed enunciati. Non v’è dubbio che impariamo i primi termini del nostro vocabolario grazie alla corrispondenza verificata tra suoni e comportamento verbale da un lato, e pezzi della realtà dall’altro.

Ma non si tratta solo di questo. Tutto ciò avviene a livello pubblico, e cioè sociale. La corrispondenza viene notata in modo più facile quando l’oggetto da identificare interessa a colui che impara (per esempio il bambino), e a colui che indica al discente l’oggetto che dev’essere identificato.

Ma non è in gioco soltanto il processo di insegnamento/apprendimento in quanto tale. E’, in effetti, la parte essenziale della nostra maniera di attribuire riferimento e significato alle parole.

Risulta difficile negare che l’interazione diretta tra i fruitori del linguaggio e gli oggetti ed eventi di pubblico dominio costituisca la base della nostra conoscenza. Procedendo lungo queste linee correliamo le parole alle cose. Tuttavia le conseguenze sono di largo respiro.

L’interpretazione corretta di ciò che un parlante intende dire con l’uso delle parole non dipende soltanto da ciò che ha in testa. Dipende anche - e probabilmente soprattutto - dalla “storia naturale” di quello che ha in testa. Il fatto è che, a livello di base, parole ed enunciati acquistano il loro significato direttamente dagli oggetti circostanti, nonché dalle circostanze in cui sono stati imparati.

Se il processo di apprendimento ci porta a ritenere vero un enunciato in presenza di una casa, sarà per l’appunto la presenza di una casa a renderlo vero. Tutti sappiamo che in molti casi non è così, ma è un fatto che l’accoppiamento originario di parole, oggetti ed eventi costituisce per noi l’unico modo per mettere in corrispondenza mondo e linguaggio. Tutto il resto viene dopo, ed è un prodotto dell’evoluzione culturale della nostra specie.

 

Michele Marsonet

 

 

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