Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Maggio 1958, la prima volta negli Stati Uniti

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Nel maggio 1958, ero un giovane medico, assistevo un anziano paziente cardiopatico, un industriale statunitense, a Firenze per affari. Dopo alcuni giorni, tra l’amichevole e il perentorio, mi disse: «You come with me to the States.». Voleva lo accompagnassi nel viaggio di ritorno e mi parve un’occasione unica per conoscere personalmente la “mitica America” fino ad allora avvertita in modo onnipresente, ma indiretto nel nostro Paese,

Nel 1945, alla fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia, nei tre anni precedenti, aveva subito i bombardamenti alleati, l’occupazione tedesca e il passaggio del fronte di guerra attraverso tutta la penisola. Adesso iniziava una nuova “invasione”, questa volta pacifica ed anche benefica, da parte degli Stati Uniti.

Nei porti di Napoli e di Livorno si avvicendavano le navi da trasporto, scaricando una quantità enorme di merci in aiuto ad un Paese affamato e disastrato; tra tutte ricordo la farina per il pane bianca come la neve, i barattoli con il verde purè di piselli, le più svariate marche di sigarette, tra le quali le mitiche Lucky Strike e le Camel.

 

In contemporanea era arrivata l’ondata culturale, bloccata per venti anni dal regime fascista: la musica jazz, i film e divi hollywoodiani, la letteratura, i comportamenti nella vita comune. Nel film “Un americano a Roma” del 1954, diretto da Steno, Alberto Sordi interpretò in modo magistrale il personaggio di una Italia preda del mito esterofilo dell’America, agognata e fantastica terra dalle mille opportunità, della quale però la maggior parte degli italiani di allora aveva una conoscenza solo indiretta.

Arrivarono anche gli aiuti in denaro, con il piano Marshall del 1947, che prevedeva uno stanziamento di oltre 12,7 miliardi di dollari per la ricostruzione dei Paesi europei. In una storica foto del febbraio 1948, l’ambasciatore USA consegnava al ministro Del Vecchio l’assegno US in dollari per l’Italia.

Tutto questo aiuto, anche se benefico, aveva lo scopo di mantenere l’Europa nell’area occidentale e ostacolare le mire imperialistiche dell’URSS. Vi era tra l’altro una consistente parte politica italiana che vedeva con favore la politica russa, uscita vittoriosa dalla lotta contro il nazifascismo, e insieme una riscossa delle classi subalterne nel nostro Paese.

La rivolta di Budapest del 1956 tolse molte illusioni e in seguito fu affermato in modo autorevole che era preferibile vivere sotto l’ombrello protettivo della NATO, il patto difensivo atlantico, piuttosto che nel patto di Varsavia dei Paesi comunisti.

L’ulteriore conferma che si trattava di una scelta giusta è la recente aggressione all’Ucraina da parte del dittatore russo. L’Italia e gran parte dell’Europa deve all-alleanza atlantica il lungo periodo di pace dopo l’ultimo conflitto.

Pochi giorni dopo la richiesta del mio paziente, ero sull’aereo in un volo diretto Roma- New York. Volavo per la prima volta e subito dopo il decollo, mentre l’aereo sorvolava Roma, nello sporgermi per vedere il paesaggio dall’alto, rovesciai il contenuto della cena dal vassoio. Fu comunque affascinante attraversare l’Europa, poi l’Atlantico e infine dopo 15 ore di volo arrivare a New York.

Durante la notte il mio paziente ebbe un attacco cardiaco e fu necessario ricorrere alla morfina. All’aeroporto lo attendeva festosa la famiglia. Al Mount Sinai Hospital, dove l’accompagnai per un controllo, incontrai un medico ebreo, il dottor Volterra; era negli Stati Uniti da quando furono emesse le leggi razziali alla fine degli anni trenta e aveva lavorato nello stesso padiglione, a S. Luca, nell’ ospedale di Careggi, dove ero assistente volontario.

A New York rimasi pochi giorni, appena il tempo per ammirare gli enormi grattaceli e per una lunga passeggiata sul fronte del porto dove negli enormi docks ormai deserti attraccavano le navi provenienti dall’Europa. Fui rimproverato per l’imprudenza.

Al ritorno in Italia, nei due scali a Boston ed a Schannon in Irlanda, prestai molta attenzione all’annuncio dei gates d’imbarco, tornavo volentieri in Europa.

Era stata un’avventura stimolante, ma scarsamente proficua per una conoscenza della “mitica” America. Al ritorno, con le immagini di New York rimaste nella retina, l’Italia mi apparve come il Paese dei balocchi, le automobiline giocattoli, le costruzioni modeste, le strade anguste. Sarebbero stati necessari i contatti successivi, dovuti soprattutto all’attività professionale, per conoscere meglio quel grande Paese che mi ero appena lasciato alle spalle.

Avendo scelto negli anni ‘60 la specializzazione nelle malattie cardiovascolari era inevitabile il contatto con i grandi progressi realizzati negli Stati Uniti, dal defibrillatore salvavita, alla macchina cuore-polmone per gli interventi cardiochirurgici, agli estesi studi epidemiologici sui fattori di rischio delle malattie coronariche. Da oltreoceano provenivano progressi anche in altri settori della medicina come la realizzazione dei vaccini antipolio negli anni 50-60 e quelli attuali contro il COVID-19.

Nei decenni successivi sono tornato più volte negli Stati Uniti per partecipare ai congressi di cardiologia che permettevano di conoscere i risultati delle ricerche più recenti e di stabilire i contatti con i cardiologi americani.

Nel 1983 e nel 1987 i soggiorni sono stati prolungati presso l’NIH di Bethesda (Washington) per sviluppare ricerche cliniche iniziate in Italia.

Gli NIH, National Institutes of Health, sono una istituzione pubblica, corrispondente al nostro Istituto Superiore di Sanità, ma con enormi mezzi economici; hanno finanziato le ricerche di numerosi premi Nobel e contribuito a ridurre i tassi di mortalità delle malattie di cuore ed i tumori.

È stato emozionante partecipare alla cerimonia del centenario di fondazione dell’Istituto che ricorreva proprio nel 1987. Un risultato della collaborazione con i medici dell’NIH è stata la realizzazione nell’ospedale di Careggi a Firenze di un centro di riferimento per i pazienti con cardiomiopatie.  In quel periodo avevo con me tutta la famiglia e fu possibile instaurare rapporti con famiglie americane che poi sono perdurati nel tempo.

Purtroppo dopo le elezioni presidenziali del novembre 2024 provengono dagli USA una serie di affermazioni che lasciano sconcertati e preoccupati: si nega il cambiamento climatico (drill, baby,drill, trivella bambino, è lo slogan di Trump per incitare all’uso dei combustibili fossili), le emigrazioni dai Paesi poveri sono ritenute equivalenti al terrorismo, le disuguaglianza sociali si risolvono con la tecnologia e non colpendo i profitti miliardari, gli Stati Uniti devono svincolarsi da organismi sovranazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, o il Tribunale Internazionale per i crimini di guerra, sono previste barriere commerciali e si minacciano aggressioni a Paesi sovrani come Panama o Canada. Infine sono messi in discussione anche i valori dell’Unione Europea in termini di democrazia ed uguaglianza dei diritti.

L’ultima affermazione mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Dopo lo sbarco in Normandia degli Alleati effettuato nel giugno 1944, la controffensiva tedesca nelle Ardenne del dicembre sembrava avere successo. In Italia l’esercito tedesco era attestato sulla linea gotica a pochi chilometri da Firenze ed ebbi un irrazionale timore che potesse tornare nella nostra città, liberata pochi mesi prima.

La controffensiva fu bloccata, ma il prezzo della vittoria è visibile nel cimitero di Colleville sur-Mer in Normandia dove sono custodite le spoglie di 9387 soldati americani e nel Memoriale che ne ricorda altri 1557 dispersi o non identificati.

Erano giovani che erano venuti in Europa per liberarci dalla lugubre dominazione nazifascista, a portare democrazia e uguaglianza dei diritti. Ora l’unica speranza è che il popolo americano non dimentichi quegli ideali.

 

Alberto Dolara

 

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