Vittime innocenti. Febbraio 1981-2023
Nell'ultimo messaggio inviato da Donniacuo a Gianluca, questi gli scrisse che quel giocatore lo doveva tatuare lui e nessun altro. Poi chiuse con un «sabato passo nel tuo negozio». Quel sabato invece si presentarono tre persone. La discussione degenerò. In due aggredirono Gianluca, che non solo evitò il pestaggio, ma fece scappare i suoi aggressori. Tre giorni dopo, secondo l'accusa, Vincenzo Russo si presentò davanti al negozio di Gianluca chiamandolo per nome. Gianluca, arrivato sulla soglia del locale, venne colpito al torace e cadde all'indietro. Il killer sparò ancora due volte, per essere sicuro di aver ucciso. Vincenzo Russo, 29 anni, pregiudicato di Melito ritenuto affiliato al clan degli scissionisti, venne arrestato dai carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna; nell'accusa di omicidio c'è l'aggravante di aver «agito con metodi mafiosi al fine di agevolare le attività dell'associazione camorristica facente capo a Cesare Pagano». Nel febbraio 2012 Vincenzo Russo venne condannato all'ergastolo dalla Corte di Assise di Napoli, condanna confermata anche in Appello nel 2013. Il 4 febbraio del 1995 a Corsico (MI) fu ucciso Pietro Sanua, fruttivendolo e sindacalista di 47 anni, mentre si preparava ad allestire il suo banco di frutta e verdura. Uno sparo, il proiettile che forò il finestrino del furgone e centrò la testa del conducente. Così, sotto gli occhi del figlio ventenne, morì ancora prima che si levassero le luci dell’alba. Nessuno ha visto il killer. Fu ammazzato dalla ‘ndrangheta perché si schierò con coraggio contro il potere dei mafiosi e il loro racket nell'assegnazione delle piazzole agli ambulanti. Dopo 30 anni il figlio Lorenzo, ora referente di Libera Contro le mafie del sudovest, e la mamma Francesca aspettano ancora la verità giudiziaria. Il caso era stato chiuso in fretta, poi riaperto due anni fa dal capo della Dda Alessandra Dolci che è stata presente il 4 febbraio 2025 nella Parrocchia di Sant’Antonio di Padova (piazza Papa Giovanni XXIII), per il ricordo di Sanua. Il 5 febbraio del 2000 a Sant’Angelo Muxaro (AG) venne ucciso il secondo dei i fratelli imprenditori Vaccaro Notte. Dopo l’assassinio di Vincenzo avvenuto il 3 novembre del ‘99, fu ucciso anche Salvatore. Avevano osato aprire un’attività di pompe funebri in concorrenza con una ditta legata alla mafia. I due emigrarono in Germania dove rimasero per alcuni anni svolgendo una delle tipiche attività di italiano emigrato, quella del pizzaiolo. Con il denaro risparmiato tornarono al loro paese dove avviano un’impresa di pompe funebri entrando così in concorrenza con altri due fratelli, ritenuti vicini alla famiglia dei Fragapane di Santa Elisabetta. I due Vaccaro Notte vennero invitati da un imprenditore edile, quasi loro omonimo, Giuseppe Vaccaro, per giungere a un accomodamento. I due rifiutarono qualunque compromesso con un gruppo mafioso locale meglio conosciuto come “Cosca dei Pidocchi”, col risultato che Vincenzo Vaccaro Notte venne ucciso il 3 novembre del 1999. Rimasto solo, il fratello Salvatore non demorse, continuò la sua attività e indagò per conto suo sull’omicidio del fratello redigendo una specie di memoriale. Il 5 febbraio del 2000 anche lui venne ucciso con un colpo di lupara alla testa. Un terzo fratello, Angelo, cercò l’aiuto delle forze dell’ordine raccontando loro i retroscena dei due omicidi; per questa sua collaborazione come testimone di giustizia venne sottoposto al programma di protezione assieme ai suoi familiari. Nel maggio del 2006 le indagini portano all’arresto di noti mafiosi latitanti, alla scoperta di un traffico di armi e droga, di appalti pilotati e corruzione politica. Il 6 febbraio del 2001 a Napoli venne ferito moralmente il 20enne Giuseppe Zizolfi dopo aver provato a fermare due ladri. Quel giorno decise di andare a fare visita al suo ex datore di lavoro, un macellaio dal quale fu licenziato qualche tempo prima, sperando di essere riassunto, quando notò all'esterno del negozio due ladri intenti a rubare l'autoradio dall'automobile del suo amico. Egli prontamente intervenne salendo sul motorino del macellaio ma i due ladri lo speronano gettandolo a terra; cadendo Giuseppe batte la testa e morì dopo tre giorni di agonia in ospedale. Soltanto quando le prime testimonianze vennero a galla, si scoprì che quel decesso, in procinto di essere archiviato come uno dei tanti incidenti mortali provocati dal mancato uso del casco, nascondeva in realtà una terribile storia di violenza metropolitana, l'ennesima scritta con il sangue di un innocente. Il 7 febbraio del 1990 a Villa San Giovanni (RC) venne ucciso Giovanni Trecroci, vicesindaco e assessore ai lavori pubblici di 49 anni. Lasciò un bambino, Giuseppe, e la moglie in attesa di un altro figlio, Stefania, nata pochi mesi dopo l’omicidio. Giovanni Trecroci era un uomo onesto ed integerrimo, così chi lo ha conosciuto lo ricorda, che sicuramente non voleva diventare un eroe ma voleva vivere la propria esistenza da persona normale. Era un insegnante di lettere, un educatore degli scout, prestato alla politica. Aveva applicato nella politica quel rigore morale e quella serietà che lo contraddistinguevano. Quella sera aveva appena finito di discutere in consiglio comunale di una serie di pratiche urbanistiche, evidentemente particolarmente scottanti, quando i killer lo freddarono con diversi colpi di pistola vicino casa, nel rione Cannitello, vicino al mare. L’8 febbraio del 2002 a Casal di Principe (CE) venne ucciso Antonio Petito, 20 anni. Fu barbaramente ucciso con 12 colpi di pistola mentre si trovava nei pressi della sua abitazione all’interno della sua vettura. Il movente è da ricercarsi in un banale litigio per motivi di viabilità con Gianluca Bidognetti, all’epoca tredicenne, figlio del capoclan Francesco. Fu proprio Gianluca a rappresentare la vicenda alla madre sostenendo che il Petito aveva cercato di investirlo e aveva offeso l’onore della famiglia Bidognetti. Dopo oltre dieci anni e dopo l'archiviazione dell'indagine, i carabinieri del Nucleo Investigativo di Caserta, guidati dal maggiore Carmine Rusciano, hanno chiarito il movente dell'omicidio anche grazie alle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia. Tra gli esecutori risulta indagato anche il pentito Emilio Di Caterino, che svolse il ruolo di "specchiettista". Il 26 novembre 2013, il GIP del tribunale di Napoli stabilisce una condanna a 16 anni di reclusione per Guida, Grassia, Di Caterino e Carrino; una condanna all'ergastolo per Giovanni Letizia e una condanna a due anni e 8 mesi per Verolla. Il 9 ottobre 2014 la Corte di Appello di Napoli, III Sezione, riduce le pene: 12 anni per Guida, 10 anni e 8 mesi per Grassia e Di Caterino, 19 anni e 4 mesi per Letizia. Il 9 febbraio del 1981 avvenne la strage del fiume Platani, in territorio di Alessandria della Rocca nell’Agrigentino, un sanguinoso agguato di Cosa Nostra. Le vittime, che si trovavano su un trattore quando i killer entrarono in azione, furono Domenico Francavilla, Mariano Virone e Vincenzo Mulè. Quest’ultimo, quindicenne, si trovò per caso in compagnia delle altre tre vittime, alle quali aveva chiesto un passaggio sul trattore per attraversare il fiume. Obiettivo dei killer era Liborio Terrasi, morto insieme agli altri, ritenuto il capo mafia di Cattolica Eraclea, entrato in conflitto con il boss di Ribera Carmelo Colletti, poi anche lui assassinato. Da uno stralcio delle deposizioni di Brusca: “Il trattore aveva appena superato il torrente quando io e Salvo Madonia e Tanuzzu siamo scesi e abbiamo fatto fuoco con le armi messe a disposizione. Le vittime erano tutte coperte, non li vedevamo in faccia, ci avevano detto tutti quelli che erano sul trattore e quindi noi…” La sentenza della Corte di Assise di Agrigento Rg n°648/99 (così come confermato dalla Sent. n°4/2002 Rg 33/2001 della Sezione seconda della Corte di Assise di Palermo) ha riconosciuto colpevoli Riina Salvatore, nella qualità di mandante, Brusca Giovanni, Madonia Salvatore, per avere in concorso tra loro, e con Colletti Carmelo, Lauria Calogero e Garofalo Luigi cagionato la morte di Terrasi Liborio, Francavilla Domenico, Virone Mariano e Mulè Vincenzo. L’11 febbraio del 1986 a Platì (RC) vennero uccisi i coniugi Francesco Prestia e Domenica De Girolamo. Francesco Prestia gestiva una rivendita di tabacchi e ha ricoperto più volte la carica di sindaco e vicesindaco a Platì: è stato eletto la prima volta nel 1948, a soli 26 anni, ed è stato, all’epoca, il Sindaco più giovane d’Italia. Domenica De Girolamo da giovane, lavorava per Poste e Telecomunicazioni. Si sposarono quando riuscirono ad affermarsi nel campo lavorativo. Entrambi furono uccisi la sera dell’11 febbraio 1986 all’interno della rivendita di tabacchi, a seguito delle ferite inferte da corpi contundenti. Mentre il marito morì sul colpo, domenica De Girolamo trasportata all’ospedale di Locri, morì per le lesioni irreversibili riportate. A distanza di 39 anni nessuna risposta di verità e giustizia è stata data alla famiglia. Quello che però appare certo è il contesto in cui si è sviluppato l’omicidio, un contesto ad alta densità mafiosa. Platì, a pochi chilometri dal Santuario della Madonna di Polsi, in cui ogni anno si riunivano i boss dell’Onorata Società, roccaforte della ‘ndrangheta. Un paese in cui nulla si muove se non è deciso o non ha il benestare delle ‘ndrine. Il 12 febbraio del 1993 a Secondigliano (NA) venne ucciso Vincenzo D’anna (proprietario di una piccola impresa edile. Quel pomeriggio l'uomo, imprenditore edile, andoò verso il cantiere con il denaro necessario per pagare i suoi dipendenti, quando venne circondato da tre banditi armati che cercano di derubarlo; ma quando accennò una reazione venne colpito e morì poco dopo l'arrivo in ospedale. I banditi che fecero fuoco su Vincenzo erano esponenti dei clan locali che, di fronte ai continui rifiuti dell'imprenditore di pagare il racket, decisero di punirlo con la morte. Le attività di investigazione non consentirono di acquisire elementi utili per la prosecuzione delle indagini. Nel permanere ignoti gli autori del reato, il P.M. formulò richiesta di archiviazione cosicché oggi gli assassini di Vincenzo D'Anna non hanno ancora un volto, e i suoi familiari chiedono ancora giustizia. Il 14 febbraio del 2013 a Pianura (NA) venne uccisa Giuseppina di Fraia, 52 anni. Si stava recando al lavoro quando venne arsa viva dal marito. Morì dopo tre giorni di agonia il 14 febbraio del 2013. Ha inseguito la moglie e, dopo averla investita con la sua auto, l'ha cosparsa di benzina e le ha dato fuoco. Vincenzo Carnevale, il marito, la inseguì’ e investì’ con la sua auto, in via Monti, quartiere Pianura, a poche centinaia di metri dall'abitazione, procurandole lesioni interne ed escoriazioni. Ad assistere alla scena alcuni passanti che avevano cercato di prestare soccorso alla donna, ma furono stati subito rassicurati dallo stesso Carnevale. Convinti i passanti che non aveva investito la moglie intenzionalmente, ma che voleva solo parlarle e che l'avrebbe condotta in ospedale, l'uomo caricò la donna in auto e si allontanò. Dopo alcuni metri, Carnevale, però, fece scendere la moglie dall'auto tirandola per i capelli, la cosparse di benzina e le diede fuoco davanti agli occhi increduli della gente. Tra i due coniugi c'erano stati già in passato episodi di liti violente che Giuseppina non aveva mai avuto la forza di denunciare. Carnevale era disoccupato, picchiava e tormentava continuamente la donna con richieste insistenti di denaro. Filomena, la figlia maggiore della coppia, descrive, ai carabinieri guidati dal capitano Scarabello, il padre come un uomo violento, lucido e consapevole dei suoi gesti. Nel mese di marzo 2016, la IV sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli (presidente Domenico Zeuli) accogliendo le richieste del PG Carmine Esposito, condanna Vincenzo Carnevale a trent'anni di reclusione. Il 15 febbraio del 2004 a Napoli venne ucciso il 19enne Francesco Estatico. Accoltellato ed ucciso davanti ad un bar di Mergellina mentre era lì per prendere un frullato con un amico. Una banda di balordi che popolavano Mergellina non ha perdonato uno sguardo di troppo, ricambiato con un sorriso, ad una ragazza, fidanzata di uno dei ragazzi della banda. La tragedia si consumò in pochi istanti, Francesco venne raggiunto da numerose coltellate, all'addome e alla gamba. Si trascinò per alcuni metri ma morì subito dopo in ospedale. Il suo assassino venne condannato a 16 anni di reclusione, da scontare nel carcere minorile di Nisida. Il 18 febbraio del 1998 a Napoli venne ucciso Giovanni Gargiulo di soli 14 anni. Era il fratello quattordicenne di Costantino Gargiulo che il 3 novembre 1996 aveva ucciso Salvatore Cuccaro, boss di un clan sempre più potente della periferia orientale di Napoli. Davanti ad un supermercato per una ritorsione nei confronti del fratello, il giovane Giovanni fu trucidato senza pietà da un sicario inviato dai Cuccaro. Quattro colpi di pistola, per strada, tra la gente. Alla testa, al torace, alle gambe. Un'esecuzione. Una vendetta trasversale, "un omicidio sporco", queste le parole usate dal pentito Giuseppe Manco ascoltato in aula nel mese di ottobre 2015. Il boss voleva la morte di un innocente per dimostrare a tutti la punizione per chi avesse collaborato con la giustizia. Giovanni fu ammazzato solo perché fratello di Costantino, affiliato dei Formicola, che aveva iniziato a collaborare ed era ritenuto un componente (col ruolo di basista) del commando che uccise Salvatore Cuccaro. Nel mese di ottobre del 2017, Michele Cuccaro, boss di Barra, ritenuto il mandante dell'omicidio di Giovanni, è stato condannato dalla IV Sezione della Corte di Assise di Napoli all'ergastolo. Nel mese di settembre 2020 i due esecutori materiali (in foto) del delitto del giovane Giovanni, Andrea Andolfi e Vincenzo Amodio, sono stati condannati a trent'anni di reclusione a testa. Il 19 febbraio del 1980 a Poggiomarino (NA) venne ucciso l’agente di Polizia Penitenziaria presso il carcere di Poggioreale Antonio Carotenuto, 41 anni. Stava percorrendo, in abiti borghesi e in compagnia di moglie e figli, una via del centro di Poggiomarino, quando venne affiancato da tre individui mascherati che gli esplosero, a bruciapelo, alcuni colpi di pistola. Morì durante il trasporto in ospedale. Il movente del delitto non è mai stato chiarito. Nell’ottobre precedente Antonio Carotenuto aveva sventato una rapina proprio a Poggiomarino. Forse la sua morte potrebbe essere stata una punizione per essersi intromesso in un’azione criminale. Il 20 febbraio del 2007 a Cotronei (KR) venne uccisa la 23enne Antonella Russo. Quel giorno aveva accompagnato la madre sul posto di lavoro, una conceria poco distante da casa. Antonio, l’ex compagno, seguì l’auto di Antonella e a contrada Sant’Agata scese dalla macchina e avvicinandosi le esplose contro sei colpi di pistola, di cui quattro fatali e due di questi la raggiunsero al volto. La sera prima della sua morte Antonella aveva denunciato Antonio per le continue liti violente con sua madre che, per questa ragione, aveva deciso già da tempo di chiudere la storia con l'uomo. Ma Antonio non si rassegnava alla fine di questa storia e decise di vendicarsi uccidendo la ragazza. Antonio Carbonaro è stato condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione a 30 anni di reclusione. Il 23 febbraio del 1982 a San Giorgio a Cremano (NA) venne ucciso il maresciallo Antonio Salzano, 43 anni. Lavorava al nucleo scorta detenuti. Il giorno prima della sua morte si trovava presso il palazzo di giustizia dove venne ucciso il boss Antonio Giaccio e ferito Gennaro Liccardi, entrambi rinchiusi nelle camere di sicurezza. Una telefonata anonima, giunta al quotidiano Il Mattino, cercò di mettere in collegamento l’attentato in tribunale con la morte del maresciallo Salzano, facendola passare come una vera e propria vendetta camorristica: venne affermato che proprio il maresciallo Salzano avesse fornito le armi ai detenuti, gettando fango sulla sua memoria. Solo qualche tempo dopo, Michele Montagna, affiliato dei cutoliani, dichiarò di aver ucciso e ferito Giaccio e Liccardi, scagionando definitivamente il maresciallo Antonio Salzano. 24 febbraio 2008 a Soverato (CZ) venne uccisa la guardia giurata Vincenzo Bonifacio. Scomparve dopo aver fatto il giro di alcuni istituti bancari per la raccolta di denaro. Il suo corpo carbonizzato venne ritrovato all’interno del cofano dell’auto di servizio, nella zona tra Cardinale e Satriano. Bonifacio è stato testimone dell’accusa in un processo per omicidio contro un giovane capomafia; 24 febbraio 2010, a Milano venne ucciso l’agente scelto della Polizia Ferroviaria Salvatore Farinaro, 30 anni. Era in servizio presso la stazione di Rho, venne ferito mortalmente in seguito ad una lite per difendere la sua ragazza. Il 25 febbraio del 1997 a Palma di Montechiaro (AG) venne ucciso Giulio Giuseppe Castellino, dirigente del Servizio d’igiene della Usl di Agrigento. Il 12 febbraio, mentre tornava a casa con la propria auto, in contrada “Mosella”, ad Agrigento, fu ferito con tre colpi d’arma da fuoco di cui uno alla testa. Aveva già ricevuto minacce, nel mese di novembre qualcuno aveva sparato un colpo di lupara contro il portone di casa. Era un dirigente serio e scrupoloso; aveva ordinato la chiusura del mercato ortofrutticolo della città, perché troppo sporco, il quale rimase fermo qualche giorno. Aveva revocato autorizzazioni sanitarie ed era restio a concederle con facilità. La notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023 avvenne il naufragio di Cutro. Un caicco partito dalla Turchia e carico — secondo le testimonianze — di almeno 180 migranti, si arenò su una secca a poche decine di metri dalla costa di Steccato di Cutro, nei pressi della foce del fiume Tacina. L’impatto con la secca espose l’imbarcazione già in difficoltà di navigazione alla violenza delle onde del mare tra forza 4 e forza 5, che rovesciarono e distrussero il natante. Sono passati due anni dal naufragio ma la città di Crotone non dimentica le 94 vittime della tragedia, 35 delle quali minorenni, le lacrime dei sopravvissuti ed il dolore dei familiari. Numerose le iniziative si stanno tenendo in questi giorni nella cittadina pitagorica in occasione dell’anniversario della strage. Due anni dopo la strage di Cutro il bilancio è di 5400 persone annegate nel Mediterraneo. Il 27 febbraio 1985, a Palermo venne ucciso Pietro Patti, 47 anni. Si occupava di lavorazione e distribuzione di frutta secca. Fu ucciso con tre colpi alla testa mentre era in macchina con le quattro figlie, Gaia, Francesca, Raffaella ed Alessandra, che stava accompagnando a scuola. Uno dei colpi raggiunse di rimbalzo Gaia, di 9 anni, ferendola gravemente all’addome. Fu ucciso perché non aveva ceduto alle pressanti richieste estorsive. Il 27 febbraio 1989 a Gela (CL) venne ucciso Pietro Polara, 46 anni. Era un commerciante di macchine agricole. Interessato alla politica, si candidò per ben due volte con il Partito democratico cristiano. Fu ucciso nel quartiere residenziale di Macchitella a Gela in seguito ad una sparatoria legata ad una vendetta trasversale. Il 28 febbraio del 1985 a Reggio Calabria venne ucciso l’agente della Polizia Locale Giuseppe Macheda, 30 anni. Faceva parte di una squadra che si occupava di combattere l’abusivismo in campo edilizio. Gli sparano un colpo di fucile alle spalle nella notte mentre fa ritorno a casa dopo che solo la sera prima gli avevano incendiato l’auto. Due sere prima a prendere fuoco era stata l’auto di un altro componente della squadra, tutto ciò perché la squadra antiabusivismo nelle settimane precedenti aveva sequestrato numerosi immobili e fatto arrestare molte persone. Le indagini collegarono quel barbaro omicidio all’attività di Giuseppe e a quella del pool nel quale lavorava. E così gli inquirenti si misero al lavoro per andare a fondo nelle attività legate alla mafia del cemento, alle costruzioni abusive. Nell’ottobre del 1987, i magistrati spiccarono tre mandati di cattura per concorso nell’omicidio del vigile urbano reggino. Destinatari dei provvedimenti erano Carmelo Ficara, Roberto Barreca e Francesco Faccì. Gli ultimi due vennero arrestati, Ficara invece si diede alla latitanza. Secondo gli inquirenti, Ficara, imprenditore edile ritenuto vicino alle cosche Latella e Serraino, aveva messo a disposizione delle organizzazioni mafiose le sue attività, facendo da copertura legale per le attività di reinvestimento del denaro sporco gestite dai clan. La tesi dell’accusa resse al processo e portò alla condanna all’ergastolo di Carmelo Ficara. In appello, però, nel 1990, l’imprenditore venne assolto. Il suo nome è comparso, molti anni dopo, nell’operazione Monopoli, con la quale, nell’aprile del 2018, la DDA di Reggio Calabria ha spedito in galera quattro imprenditori ritenuti espressione della ‘ndrangheta. Tra loro c’era Ficara, che intanto aveva continuato a fare affari.
Francesco Emilio Borrelli |
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