Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Problemi dell’identità culturale

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Richard RortyChe cos’ha da dire la filosofia sul tema dell’identità culturale? É ancora in grado di fornire strumenti per immaginare e costruire modi di pensare, realtà e società cosmopolite?

E qual è il tipo di educazione più adatto a formare cittadini di un mondo multirazziale, caotico e complesso?

E, inoltre, è tuttora proponibile la fiducia illuminista nell’esistenza di “invarianti” culturali atemporali?

Il dissenso riguarda il possibile ruolo della filosofia in questo progetto.

Il filosofo americano Richard Rorty pensa che la domanda stessa che è alla base del dibattito sulla diversità culturale non dovrebbe più essere la domanda kantiana «Cos’è l’uomo? », ma la domanda politica: «Quale ideale unificante può trasformarci da una folla in un esercito, da una massa di persone accidentalmente messe assieme in un gruppo di persone unite da un obiettivo comune? ».

Ma la filosofia buttata da Rorty fuori dalla porta, rientra dalla finestra. Quali dovrebbero essere, infatti, gli obiettivi comuni, come dovremmo sceglierli, chi può proporli, in base a che cosa? E perchè poi dovremmo essere solidali?

 

Il nodo è insomma la critica all’universalismo etico e all’idea tipicamente illuminista che la risposta alla domanda «chi siamo? » (cioè la domanda sulla nostra identità) dipenda da quella sul «che cosa»: la domanda metafisica sulla natura umana, su quello che distingue la nostra da altre specie.

Una delle scelte di fondo in fatto di diversità culturale è tra una politica che privilegia le differenze etniche, razziali e religiose, e una politica che incoraggia la conservazione di una identità culturale condivisa da tutti. L’Occidente sta diventando una società multietnica.

La diversità non è più qualcosa che si va a contemplare nei paesi “esotici” e “lontani”, ma qualcosa con cui dobbiamo convivere ogni giorno.

Anche qui non ci troviamo di fronte a una novità assoluta, legata alla “globalizzazione” dell’economia, ai “media”, a Internet, o al progresso tecnologico che “accorcerebbero” le distanze.

Il problema di far convivere razze, religioni e culture diverse si pone oggi a New York come, che so, ai tempi dell’impero romano o a Costantinopoli dopo la conquista ottomana, al presidente degli Stati Uniti come a Maometto II.

Si tratta, tutt’al più, di differenze di scala. Sta di fatto che ogni volta questo vecchio problema ci appare diverso e appassionante, e non è quindi inutile cercare di capire che fisionomia sta assumendo oggi.

Il problema della tolleranza e della convivenza tra diverse popolazioni non è certo nuovo e sarebbe interessante ricostruirne il significato e studiare i modi in cui è stato affrontato in tempi e luoghi diversi. Vi sono poi città che costituiscono interessanti esempi di capacità (o incapacità) di convivere. L’impero romano e Costantinopoli sono casi di convivenza riuscita (almeno ai tempi del loro massimo splendore).

Ed è anche vero che la natura umana è stata il cavallo di battaglia del colonialismo di tutti tempi, a partire da uno dei più importanti momenti di incontro con la diversità: la scoperta dell’America. Fin dai tempi di Cristoforo Colombo, di fronte alla diversità sembra che non ci sia scelta: o l’assimilazione (basata sul fatto che l’altro condivide con noi le caratteristiche della natura umana e differisce solo per via di eventuali “deviazioni” culturali facilmente correggibili) o il rifiuto e la sottomissione.

In realtà il problema filosofico della diversità è un problema pratico sotto mentite spoglie. Non dovrebbe più essere una domanda sulla natura umana, sullo scopo dell’esistenza o sul significato della vita, ma un tentativo concreto di capire come possiamo convivere, cosa possiamo fare per stare bene insieme, come cambiare le istituzioni in modo da poter meglio soddisfare il diritto di tutti di essere compresi. Alla domanda kantiana «cos’è l’uomo? » dovrebbe quindi sostituirsi la domanda politica: «Quale ideale unificante può trasformarci da una folla in un esercito, da una massa di persone accidentalmente messe assieme in un gruppo di persone unite da un obbiettivo comune? ».

Alla nozione di “oggettività” va sostituita quella di “solidarietà”. In questa nuova prospettiva, il compito interessante è immaginare e costruire modi di pensare, realtà e società cosmopolite.

Ogni comunità implica “chiusura”, un raccogliersi assieme che è anche un chiudere fuori, un escludere. Un “noi” che non è circoscritto da un “loro” nemmeno si costituisce.” Il difficile è porre il confine, stabilire come includiamo o escludiamo qualcuno da questa comunità, considerandolo appunto “altro”, “diverso”. Cosa ci autorizza a farlo?

Credo vada condivisa l’idea di Isaiah Berlin e di Karl Popper che non tutti i valori supremi perseguiti dall’umanità in tutti i tempi debbano essere necessariamente compatibili tra loro o addirittura implicarsi reciprocamente.

I valori possono scontrarsi, essere incompatibili non solo tra culture diverse, ma anche fra gruppi della stessa cultura, fra individui diversi e perfino all’interno dello stesso individuo. Occorre riconoscere «il fatto che gli ideali della giustizia procedurale e dell’uguaglianza umana sono sviluppi culturali provinciali, recenti ed eccentrici” non significa che “vale meno la pena di battersi per essi».

Di qui, la nota - e contestatissima - affermazione di Rorty per cui noi non possiamo non essere etnocentrici, perché «nessun gancio pendente dal cielo fornito da una delle scienze contemporanee o da una qualche scienza di là da venire, ci libereranno dalla contingenza di essere stati acculturati nel modo in cui siamo stati acculturati». I “principi morali” hanno senso solo in quanto fanno tacitamente riferimento a tutta una gamma di istituzioni, pratiche e vocabolari morali e politicizzati.

 

Michele Marsonet

 

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