Vacanze estive 1939-1940. Ricordi d'Infanzia
Le vacanze estive della mia infanzia sono trascorse in luoghi molto diversi e lontani tra loro: da Firenze, città di residenza, a Trieste nel 1939 e a Taranto nel 1940, a mille km di distanza. Gli spostamenti insoliti erano dovuti all’incombere del secondo conflitto mondiale. Nel 1939 mio padre lavorava come tecnico specializzato proveniente dalle officine Galileo di Firenze sulla corazzata Vittorio Veneto ancorata nel porto di Trieste; l’aveva raggiunto mia madre. Avevo sette anni e fu deciso che avrei passato le vacanze estive con loro. Quando vidi il mare per la prima volta mi colpì la sua vastità senza limiti, una sensazione molto bella, ma allora negata alla maggior parte dei ragazzi italiani. È riportata in data I° luglio nella prima pagina del diario dove, per desiderio di mia madre, avrei annotato gli avvenimenti successivi. Nel diario sono descritte le visite al castello di San Giusto che domina la città, al Castello di Miramare isolato sul mare, ai musei cittadini, le gite in vaporetto, la visione di un’aurora boreale, i fuochi d’artificio sul lungomare il 27 luglio, festa Navale della Marina di Trieste, una serata alla birreria Dreher, piena di gente allegra. Per i bagni andavamo a quello comunale, si chiamava Lanterna, Pedocin per i triestini. Sulla spiaggia un bianco muro che proseguiva nel bagnasciuga separava gli uomini dalle donne ed io ovviamente rimanevo con mia madre, ma non comprendevo il motivo del muro e della separazione.
Al termine della vacanza la guerra era iniziata, le armate naziste avevano invaso la Polonia il 1° settembre, ma persisteva ancora la speranza che l’Italia non venisse coinvolta nel conflitto. Nel settembre del 1938 Mussolini, tornato dalla Conferenza di Monaco, era stato acclamato come “Salvatore della pace” per aver fermato Hitler: un bluff storico. Nel 1940 era svanita ogni speranza; l’entrata in guerra dell’Italia l’aveva annunciata il Duce il 10 giugno dal balcone di Palazzo Venezia con voce roboante alla folla plaudente: «Combattenti di terra, di mare e dell’aria, camicie nere della quinta rivoluzione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania, ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia!» La retorica guerriera avrebbe portato il popolo italiano al disastro. Le navi da guerra, compresa la Vittorio Veneto, si erano intanto spostate nel porto di Taranto munito di difese e ritenuto idoneo per i futuri combattimenti. La marina militare italiana si collocava allora come quinta nella classifica delle marine più grandi del mondo, e l’obbiettivo era il controllo totale del Mediterraneo. Non si teneva conto della mancanza di protezione aerea e della superiorità tecnologica della flotta inglese in termini di portaerei, aerosiluranti e strumentazione radar; pesava anche la scarsità di carburante nel programmare le missioni. Mia madre era a Taranto con mio padre, il fronte di guerra era lontano e decisero che avrei passato l’estate con loro. La città non aveva le ridenti colline di Trieste sullo sfondo, le strade non asfaltate andavano direttamente al porto, rara la presenza femminile nei locali pubblici. Nel diario che avevo portato con me annotai una gita in barca per vedere da vicino la corazzata dove lavorava mio padre: era un impressionante gigante d’acciaio. Poi una cena nella Taranto vecchia, un agglomerato di stretti vicoli bui, ed una gita a Chiatona nei dintorni di Taranto, una immensa spiaggia deserta, molto bella. A settembre, quando lasciai la città, oscillavano sul porto grigi palloni aerostatici antiaerei. Non avrebbero fermato gli aerosiluranti inglesi che tre mesi dopo, l’11 novembre, partiti dalle portaerei vicine, sganciarono siluri e bombe sulle navi ancorate nel porto, danneggiando seriamente tre corazzate, una di esse in maniera tanto grave da essere messa in disarmo, affondati un incrociatore e due cacciatorpediniere. I morti furono 58 con 581 feriti. La Vittorio Veneto non venne colpita. Fu un duro colpo all’ambizioso progetto del controllo del Mediterraneo. Come al solito i mezzi d’informazione travisarono la realtà: il Corriere della Serra titolava in prima pagina: «Strage di apparecchi nemici durante un'incursione a Taranto» “La Gazzetta del Mezzogiorno” in Puglia sosteneva che non ci fu alcun danno e che, anzi, il nemico era stato colpito dalla contraerea italiana. Tuttavia il popolo italiano iniziava a rendersi conto della realtà. Il giorno seguente l’incursione aerea i cittadini di Taranto si riunirono intorno al porto in una sorta di lutto collettivo. Anche mia madre rimase sconvolta nel vedere le navi affondate o semiaffondate. Non ho più avuto l’occasione di tornare a Taranto, ma nel settembre 2008, durante una splendida vacanza con mia moglie, ho ritrovato, dopo settanta anni, il fascino della città di Trieste, dal castello di San Giusto a piazza dell’Unità d’Italia. Nel bagno comunale, il Pedocin, esiste ancora il bianco muro divisorio uomo-donna che aveva colpito la mia fantasia infantile. Eretto nel 1903, evidentemente in base ad una morale puritana, i triestini si sono sempre opposti al suo abbattimento: per una volta la cancel culture è stata messa da parte.
Alberto Dolara
Il bagno Pedocin col muro divisorio nel 2008
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