Vittime innocenti. Novembre 1945- 2021
Il 1° novembre del 1995 a Gioiosa Ionica (RC) venne ucciso il 23enne Luigi Coluccio, titolare di un bar. Ha pagato con la vita la determinazione sua e dei familiari a resistere alle richieste della ‘ndrangheta. È stato ucciso sulla porta del suo bar. Gli assassini hanno atteso che girasse le spalle alla strada per calare le saracinesche. Dietro una siepe, si erano nascosti due killer che avevano ricevuto l’ordine di ucciderlo. Con un fucile a canne mozze calibro 12: cinque colpi che raggiunsero Luigi in ogni parte del corpo, compresa la testa. La morte fu istantanea. Il 2 novembre del 2004 a Bruzzano Zeffirio (RC) venne ucciso Paolo Rodà a soli 13 anni. Quella mattina si recò in macchina insieme al padre Pasquale a Ferruzzano dove possedevano un terreno e degli animali. Erano appena arrivati e avevano spento il motore della macchina quando alle loro spalle cominciarono a partire i colpi di lupara. Paolo, che era seduto sul sedile posteriore, fu colpito immediatamente e morì. Pasquale e il figlio maggiore scesero dalla macchina e cercarono di fuggire. Il ragazzo rimase ferito, mentre Pasquale fu raggiunto e ucciso. Il duplice omicidio riaprì la faida di Motticella che lasciò sul campo numerose vittime. Il 3 novembre del 2020 a Casalnuovo (NA venne ucciso il 19enne Simone Frascogna. È stato accoltellato perché stava avendo la meglio in una colluttazione contro alcuni ragazzi che avevano causato la lite, sfociata in omicidio per futili motivi. Simone si trovava a bordo di un'auto con un amico 18enne quando un'altra vettura incominciò a inseguirli. Successivamente, le tre persone che viaggiavano no su quest'auto aggredirono i due ragazzi con un'arma da taglio. Simone venne colpito da nove fendenti al torace, mentre il suo amico venne ferito da due coltellate al fianco. I due giovani vennero trasportati al pronto soccorso dell'ospedale Cardarelli di Napoli. Simone morì in ospedale, il suo amico venne curato e dimesso. Dalle prime ricostruzioni emerse lo spirito nobile di Simone Frascogna: morto per aiutare e soccorrere l'amico Luigi, vittima del branco, prima ferito e poi salvato dall'intervento di Simone. Il 15 luglio 2021 uno degli assassini viene condannato a 30 anni di reclusione. Il successivo 8 settembre il giudice per le udienze preliminari del Tribunale della minore condanna rispettivamente a 10 e 7 anni di reclusione gli altri due minori. Nel settembre del 2022 la sentenza di Appello riduce di tre anni la condanna per l'assassino. Il secondo grado di giudizio della quinta sezione della corte d'Assise d'Appello ha parzialmente riformato la condanna, riducendola a 27 anni. Il 4 novembre del 1973 ad Afragola venne ferito a morte il piccolo Alfredo Manzoni, di soli 7 anni. Fu ferito accidentalmente in maniera grave nel corso di un regolamento di conti tra cosche rivali. Venne raggiunto da un proiettile vagante nel corso dell’esecuzione di un imprenditore edile legato alla camorra e gli fu lesionata la colonna vertebrale. Dopo due anni di cura in un ospedale di Ariccia, il piccolo, condannato a restare paralizzato per il resto dei suoi giorni, si spense per sopravvenute complicazioni. Nella palazzina in cui abitava il costruttore viveva anche una zia di Alfredo e quel giorno il bambino era in visita dalla zia insieme ai genitori. Dinanzi alla palazzina di via Ciampa, arrivò una Opel guidata dal figlio del costruttore. Di fianco a lui, sul sediolino passeggeri, c'era un suo amico, mentre il costruttore era seduto dietro. La Opel si fermò proprio davanti alla palazzina. Mentre i tre scendevano dall'auto, alle spalle arrivò a gran velocità una Giulia scura dal cui finestrino sbucarono le canne di due pistole. I killer iniziarono a sparare e in un momento cadde a terra il costruttore. Il piccolo Alfredo era di spalle quando gli assassini spararono e un proiettile si era conficcato nella schiena. Mori il 28 maggio 1975 a Velletri al termine di una lunga agonia. Il 5 novembre del 1986 a Licola (Na) venne ucciso l’impresario teatrale Mario Ferrillo, 41 anni. Venne ucciso sul litorale Domizio a causa di un tragico scambio di persona. Quel pomeriggio Mario si trovava nel negozio di un suo vecchio amico, Francesco, quando due uomini armati fecero irruzione nel locale. I sicari cercavano un certo Gennaro che credettero di individuare proprio in Mario. Otto colpi di pistola partirono in successione. Mario morì sul colpo, mentre l’amico Francesco non fu oggetto della violenza dei killer. Era sposato e padre di quattro figli. Dal punto di vista giudiziario, Gennaro fu identificato come Gennaro Troise, soprannominato Tromba, in seguito ammazzato davvero ma gli autori materiali e i mandanti dell’omicidio di Mario Ferrillo non sono mai stati trovati. Il 6 novembre del 2004 venne ucciso a Scampia (NA) Antonio Landieri, 25 anni. Fu la prima vittima innocente diversamente abile della camorra. A causa di complicazioni dovute al parto, venne colpito da una paralisi infantile che gli procurò numerose difficoltà motorie. Nel 2004 venne ucciso dalla Camorra con due proiettili alla schiena in un agguato nel rione “Sette Palazzi” dove abitava, durante la prima faida di Scampia. È la prima persona con disabilità, vittima innocente, uccisa dai clan. Fu scambiato, insieme ai suoi cinque amici, per un gruppo di spacciatori del rione. I suoi compagni furono tutti feriti alle gambe, mentre Antonio, a causa della sua difficoltà motoria fu l’unico a non poter scappare e per tale ragione fu raggiunto dai sicari. Il 9 novembre del 1995 a Catania venne ucciso l’avvocato Serafino Famà, 57 anni. Famà era un avvocato penalista che non considerava la sua funzione un semplice lavoro: era un professionista integerrimo che agiva a difesa della forma e delle regole, un uomo di Legge che si rifiutava di scendere a compromessi. L'uccisione di Famà fu ordinata dal boss di mafia Giuseppe Di Giacomo dal carcere di Firenze in cui era detenuto, per ritorsione, in quanto l'intervento di Famà come penalista in un processo che lo vedeva imputato in prima persona, aveva condotto alla mancata testimonianza di un testimone considerato "chiave" da Di Giacomo e quindi causa diretta della irrealizzabilità della sua scarcerazione. Lo Stato ha onorato il sacrificio di Serafino Famà con il riconoscimento concesso dal Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99 a favore dei suoi familiari, costituitisi parte civile nel processo. Il 10 novembre del 1979 in provincia di Catania avvenne la strage di San Gregorio in cui persero la vita i carabinieri Giovanni Bellissima, 24 anni, Salvatore Bologna, 41 anni, e Domenico Marrara, 50 anni. I tre militari morirono nell’adempimento del loro dovere, trucidati da un commando mafioso che entrò in azione per liberare e uccidere, dopo qualche giorno, il boss Angelo Pavone, noto come “faccia d’angelo”, in prossimità del casello autostradale di San Gregorio di Catania. Stavano scortando il boss mafioso a Bologna per partecipare all'interrogatorio del magistrato che indagava sul sequestro a scopo di estorsione dell’industriale ferrarese Lino Fava. Non appena il gruppo arrivò al casello autostradale di San Gregorio, per entrare sulla strada che li avrebbe portati a a Messina, venne assalito da un commando; i carabinieri non ebbero il tempo di reagire al fuoco incrociato di tre armi e persero tutti la vita durante l’assalto, l’autista riuscì a salvarsi solo perché sul momento venne creduto morto, mentre Angelo Pavone venne prelevato e riportato verso la città. Il suo cadavere venne ritrovato undici giorni dopo in una discarica di rifiuti alle porte di Catania brutalmente torturato e morto per autostrangolamento dovuto ad una corda legata contemporaneamente a mani piedi e collo. L'11 novembre 1989 si consumò a Ponticelli uno degli episodi più efferati della storia della camorra napoletana: la strage del bar Sayonara. La guerra tra gli uomini del clan Andreotti da una parte e quelli degli "alleati" Sarno e Aprea dall'altra, provocò una strage con sei morti. Quattro vittime erano del tutto innocenti: Gaetano De Cicco, Domenico Guarracino, Salvatore Benaglia, Gaetano Di Nocera. A distanza di più di 20 anni hanno finalmente un nome i mandanti e gli esecutori della strage. Nel mese di febbraio 2016, dopo 27 anni, arriva la sentenza della Corte di Cassazione per la strage di Ponticelli: “fine pena mai” per Ciro Sarno, Antonio e Giuseppe Sarno, Giovanni, Ciro e Gennaro Aprea, Vincenzo Acanfora, Luigi Piscopo, Gaetano Caprio, Roberto Schisa, Pacifico Esposito. Sedici anni per Giuseppe Esposito. Il 12 novembre del 2000 a Pollena Trocchia (NA) venne uccisa durante una sparatoria la piccola Valentina Terracciano, una bimba di soli 2 anni. Fu uccisa Trocchia mentre si trovava nel negozio dello zio. Con lei anche la madre e il padre i quali restarono lievemente feriti. L'obiettivo dell'agguato di camorra era il fratellastro dello zio, ma l'impossibilità di trovare l'uomo predestinato spinse i sicari a colpire un suo congiunto, lo zio di Valentina appunto, compiendo cosi una “vendetta trasversale”. La bambina venne colpita da diverse pallottole alla testa e morì dopo un giorno di agonia all'ospedale. I killer di Valentina furono oggetto, alcuni giorni dopo il delitto, di un'esecuzione propagandistica a Cerveteri, nel Lazio, ordinata dalla stessa malavita. Per chi ancora si ostina a dire che la camorra non uccide donne e bambini. Per chi ancora crede che le punizioni per tali delitti non siano solo propaganda per salvare la faccia, una faccia sporca di sangue. Non credete più alle favole, quelle raccontate per dipingere diversamente da come è in realtà un mondo che è soltanto lerciume. Non siete più bambini. Lo erano quelle vittime innocenti e lo saranno per sempre. Il 13 novembre 2009 ad Ercolano venne ucciso Salvatore Barbaro, 29 anni. Fu ucciso in un agguato per uno scambio di persona. Si divertiva cantando canzoni neomelodiche nei locali del Vesuviano in modo da poter incrementare i propri guadagni, derivanti dal lavoro di salumiere, per aiutare la famiglia. Quel giorno era a bordo della sua auto nei pressi degli scavi archeologici di Ercolano, in provincia di Napoli, quando fu colpito da una scarica di proiettili: i killer lo avevano scambiato per il reale obiettivo dell’agguato perché aveva una macchina uguale a quella della vittima designata. La camorra non uccide per errore. Uccide e basta. Il 14 novembre del 1996 a Sant’Anastasia (NA) venne uccisa la 27enne Luigia Esposito. Fu uccisa in aperta campagna. Una morte orribile: il killer premette il grilletto della pistola ma il revolver si inceppò. Allora lui e il complice afferrarono un bastone e la colpirono all’impazzata ma Luigia non voleva morire: resisteva a tanta crudeltà. Uno dei due assassini corse a casa per prendere un coltello e fece partire una serie di fendenti: ventitré coltellate. Luigia venne ammazzata perché pochi giorni prima aveva assistito all’omicidio di un suo amico, Ciro Rispoli, delitto avvenuto nell’ambito di una faida tra clan. Era diventata uno scomodo testimone. Fu il boss in persona a impartire i suoi scagnozzi l’ordine di morte. Uno di questi, colui che dopo qualche tempo si pentì, era un suo amico. Aveva dei rimorsi e non avrebbe voluto ucciderla. Il boss fu impassibile: Luigia andava uccisa, ovunque si trovasse. “La camorra non uccide donne e bambini”. Per quanto ancora crederete a queste frottole? Il 15 novembre del 1995 a Somma Vesuviana (NA) venne ucciso il piccolo Gioacchino Costanzo, aveva solo due anni. Quel giorno Gioacchino si trovava con Giuseppe Averaimo, pluripregiudicato legato alla camorra, compagno della nonna, Rosa Esposito, secondo gli inquirenti dell’epoca “una femmina d’onore, una dura abituata a convivere con ambienti inquinati dove l’illecito è la costante”. Quel giorno sua madre, Maria Prosperi, lo aveva affidato a lei perché in casa avevano dei lavori di ristrutturazione. La nonna lo aveva affidato al compagno che, con la sua Station Wagon, si era diretto a Somma Vesuviana, all’angolo tra via San Sossio e via Annunziata, per vendere sigarette di contrabbando. Gioacchino stava in braccio ad Averaimo, giocando con alcuni pacchetti di sigarette, quando verso le 10:30 un’auto si affiancò alla loro e quattro killer spararono all’impazzata, per poi scaraventare Averaimo giù dalla macchina e finirlo con altri due colpi di pistola alla testa. Uno di quei proiettili iniziali colpì Gioacchino alla guancia e si fermò al cervello, uccidendolo all’istante. Averaimo era solito girare spesso con il bimbo, convinto che i rivali non avrebbero mai messo in percolo la sua vita. Così non è stato e la scellerata quanto vigliacca scelta ha determinato la morte del piccolo nell'agguato in cui lo stesso pregiudicato è stato ucciso. Il 17 novembre del 1981 a VillaLiterno (NA) venne ucciso Michele Borriello, 24 anni. Quel pomeriggio, nelle campagne di San Sossio, furono trovati i cadaveri di Michele Borriello, residente a Napoli, e Raffaele Terracciano, 29 anni, pregiudicato. Dall’esame autoptico merse che Michele Borriello fu colpito di spalle al braccio sinistro ed alla legione lombare destra e morì dopo una lunga agonia per dissanguamento mentre Raffaele Terracciano fu ucciso con tre colpi sparati alla nuca. Le indagini ruotarono intorno alla faida interna al clan dei Mazzoni. Gli assassini, molto probabilmente quattro, si sarebbero nascosti nella cunetta dell’alveo Divino Amore nei pressi del piccolo ponte che porta nel fondo Marchesa I, dove appunto si trovava la fattoria del Terracciano. Nel mirino dei killer c’era sicuramente Raffaele Terracciano mentre Michele Borriello venne colpito perché ritenuto un testimone scomodo. Molto probabilmente si trovava nelle campagne di Villa Literno per una gara di tiro a piattello. Michele Borriello è stato riconosciuto vittima innocente della criminalità organizzata. Il 18 novembre del 1994 l’agente di polizia penitenziaria Carmelo Magli, 24 anni, fu ucciso a Taranto in un attentato mafioso. La notte dell’attentato in cui perse la vita, stava rientrando a casa dopo una giornata di lavoro al penitenziario catanese. A pochi chilometri da casa fu affiancato da una moto di grossa cilindrata con a bordo dei sicari e fu trucidato da colpi d’arma da fuoco. Il veicolo finì fuori strada e venne ritrovato il giorno seguente. Il movente dell’omicidio fu quello di lanciare un messaggio a tutto il corpo di polizia penitenziaria in vista del processo Ellesponto alla criminalità organizzata pugliese. Il 19 novembre del 1996 venne ucciso a Grugnano l’imprenditore caseario Michele Cavaliere. Venne colpito quella mattina mentre si recava al suo caseificio. Due killer fecero fuoco alle 4:10 del mattino: Michele fu trasportato all’ospedale in cui morì il successivo 12 dicembre. Il movente apparve subito chiaro agli inquirenti: Cavaliere si era rifiutato categoricamente di pagare il pizzo ai suoi estorsori. Si era ribellato a un esponente della malavita organizzata che, tramite due emissari, gli aveva chiesto una tangente. Presentò denuncia. Pagò con la vita il suo coraggio. Per il suo assassinio è stato condannato all'ergastolo un boss di Gragnano, ritenuto uno dei due esecutori materiali. Ad incastrarlo i bossoli della pistola ritrovati sul luogo del delitto: la perizia balistica ha consentito di accertare che quel proiettile partì dalla pistola sequestrata all'uomo un anno prima, quando fu arrestato nel suo covo di Gragnano. L'ordine di custodia cautelare in carcere per omicidio volontario, firmato dai pubblici ministeri di Torre Annunziata Ciro Cascone e Andrea Nocera, è stato consegnato al boss in cella, nel penitenziario de L' Aquila, dov'era all'epoca rinchiuso. Il 20 novembre del 1945 avvenne quella che è stata definita la strage di Villarbasse, uno dei più efferati crimini dell'immediato dopoguerra. Il proprietario della cascina Simonetto di Villarbasse, in provincia di Torino, l'avvocato Massimo Gianoli, 65anni anni, , stava cenando nella casa padronale acquistata nel 1920, servito dalla domestica Teresa Delfino, mentre nella casa dell'affittuario Antonio Ferrero si festeggiava la nascita di una nipotina e, oltre all'affittuario, erano presenti sua moglie Anna, il genero Renato Morra, le domestiche Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, più un bimbo di due anni e il nuovo lavorante Marcello Gastaldi. Quattro uomini – Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti e Pietro Lala –a fecero irruzione nel casale, sequestrando tutti i presenti per compiere una rapina poi però a uno dei rapinatori (il basista) cadde improvvisamente per terra la maschera che ne celava il volto. Una delle donne sequestrate ebbe un sussulto e riconobbe in lui l'uomo che, fino a pochi giorni prima, aveva lavorato con loro nella cascina come garzone. I rapinatori, ormai scoperti, decisero allora di uccidere tutti i possibili testimoni e portarono le vittime, una ad una, in cantina e le colpirono con un bastone, gettandole poi in una cisterna per la raccolta dell'acqua piovana che si trovava nell’aia. Un evento simbolo nella storia del diritto penale italiano in quanto ultimo reato comune punito applicando la pena di morte. Il 21 novembre la 21enne Gelsomina Verde divenne, in modo barbaro ed atroce, una vittima innocente della camorra. Fu torturata e uccisa nel pieno della cosiddetta prima faida di Scampia. Dopo le sevizie il corpo venne dato alle fiamme all'interno della sua auto. Si è ipotizzato che il cadavere della giovane donna, uccisa con tre colpi di pistola alla nuca dopo ore di torture, sia stato bruciato per nascondere le tracce dello scempio inflittole. Gelsomina era del tutto estranea agli ambienti criminali. La ragazza lavorava infatti come operaia in una fabbrica di pelletteria e nel tempo libero si occupava di volontariato: la sua unica “colpa” era quella di essere stata legata sentimentalmente per un breve periodo a un ragazzo, Gennaro Notturno, entrato in seguito a far parte del cosiddetto cartello degli scissionisti di Secondigliano; tale relazione si era peraltro conclusa diversi mesi prima del suo barbaro assassinio. La famiglia di Gelsomina si è costituita parte civile nel procedimento penale che si è concluso il 4 aprile 2006 con la condanna all'ergastolo per Ugo De Lucia, considerato uno dei più efferati sicari del clan Di Lauro nonché l'esecutore materiale dell'omicidio, e la condanna a sette anni e quattro mesi per il boss Pietro Esposito. A 19 anni da quel brutale omicidio, sono stati arrestati anche Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi. C’è chi ancora ha il coraggio di dire che la camorra non ammazza donne e bambini? Credete a quel che vedete, non a quello che vi propina la cultura malata della malavita. Il 22 novembre del 2010 a Terracina (LT) venne uccisa brutalmente la 24enne napoletana Emiliana Femiano. Fu uccisa con sessantasei coltellate. Il suo ex fidanzato, Luigi Faccetti, aveva già provato ad ammazzarla e per questo motivo era ai domiciliari con una condanna a otto anni per tentato omicidio. Stava scontando la pena nella sua abitazione estiva di Terracina dove Emiliana era stata accompagnata dai cugini di lui. Venne ritrovata in una pozza di sangue, con il volto sfigurato dai colpi e il corpo martoriato da decine di fendenti, inferti con violenza inaudita. Quel 22 novembre Emiliana e Luigi avrebbero dovuto solo chiarirsi ma l'incontro si è tramutato in tragedia. Dopo averla colpita decine di volte con un coltello da cucina, Faccetti è fuggito in auto verso casa. Aiutato dai cugini, Giuseppe e Marco Prisco, l'assassino durante la fuga si ferma presso l'ospedale di Giugliano per farsi medicare alcune ferite che si era procurato durante l'aggressione ad Emiliana. Sono stati proprio i medici del presidio ospedaliero ad avvertire i carabinieri, insospettiti da quelle ferite da taglio. Interrogato tutta la notte, Faccetti alla fine confessa l'omicidio. Con sentenza del febbraio 2013, la Corte di Appello di Roma conferma la condanna di Luigi Faccetti a trent'anni. Agli arresti domiciliari per favoreggiamento i cugini dell'omicida. Il 23 novembre del 1996 a Torre Annunziata (NA) venne ucciso l’imprenditore Raffaele Pastore, 35 anni. Venne trucidato dalla camorra all’interno del suo negozio. Non era un criminale, anzi: nonostante la giovane età, non aveva chinato il capo, non aveva ceduto alla prevaricazione della criminalità organizzata della città oplontina e si era rifiutato di pagare il pizzo. Per questo è stato ammazzato. Era un piccolo commerciante all'ingrosso di prodotti alimentari e subì continue minacce estorsive dal clan di Torre Annunziata senza mai cedere e senza mai denunciare fino a quando le stesse minacce non diventarono gravi e pesanti. Raffaele chiese così solidarietà ad altri commercianti, ma nessuno gli fu vicino e, di fronte all'ultimatum della malavita, il commerciante si rivolse alla polizia. Grazie alle sue indicazioni venne arrestato un uomo. Era però consapevole che la sua testimonianza rappresentava un affronto per la criminalità organizzata e, temendo per la sua vita, richiese ed ottenne il porto d'armi per difesa personale, ma non portava mai con sé l'arma. Quando i sicari entrarono nel suo negozio per ucciderlo, il giovane commerciante era disarmato. Il 24 novembre del 2009 Lea Garofalo, testimone di giustizia italiana, divenne vittima innocente di ndrangheta. Lea a quattordici anni Lea si innamorò del diciassettenne Carlo Cosco e decise di stabilirsi con lui a Milano, ignara del fatto che lui l'avesse scelta come compagna solo per acquisire maggior prestigio agli occhi della 'ndrina dei Garofalo. Così il 7 maggio 1996, quando il compagno e alcuni componenti della sua famiglia vennero arrestati per traffico di stupefacenti, durante un colloquio in carcere, la ragazza comunicò al compagno la volontà di lasciarlo e di volersi portare via la figlia. Da allora madre e figlia furino nel mirino dei Cosco e così Lea decise di rivolgersi ai Carabinieri e di raccontare tutto. Per le sue dichiarazioni, la giovane donna e la figlia vennero inserite, con false generalità, nel programma di protezione. La vendetta arrivò comunque. Mamma e figlia il 20 novembre del 2009 presero il treno che le avrebbe portate nel capoluogo lombardo. Fu lo stesso Carlo Cosco ad invitarle. Si trattava di una trappola. Nel pomeriggio del 24 novembre, Lea e Denise decisero di concedersi una passeggiata per Milano, in zona Arco della Pace. Alle 18.15 circa, Carlo Cosco le raggiunse Poi l'uomo fece ritorno all'Arco della Pace, dove aveva appuntamento con Lea. L'omicidio si consumò intorno alle 19.10, in un appartamento di piazza Prealpi 2 a Milano, di proprietà della nonna di un amico dei Cosco. Il corpo di Lea Garofalo venne poi trasportato su un terreno a San Fruttuoso e lì distrutto. I processi per l'omicidio di Lea Garofalo sono nati grazie a sua figlia Denise diventata anch’essa testimone di giustizia. Il 18 ottobre 2010 scattarono le manette per Carlo Cosco e per gli altri presunti partecipanti al delitto. Il 18 dicembre 2014, la Prima sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato le condanne emesse dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano a carico dei cinque imputati. Ergastolo per Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino, mentre l’ex fidanzato di Denise, Carmine Venturino, ottiene 25 anni, in ragione dello sconto di pena per la sua collaborazione. Il 26 novembre del 1990 a San Ferdinando (RC) venne ucciso il commercialista 42enne Ferdinando Barbalace. Morto per la sua umanità. Rientrando a casa dopo un sopralluogo con un cliente, si era fermato, sulla strada che collega Rosarno a Gioia Tauro, nei pressi di San Ferdinando, quando all'altezza di una curva a gomito si accorse di un’auto ferma sulla carreggiata. Pensò subito ad un incidente e corse a prestare soccorso. Ma lo scenario era ben diverso. I killer appostati per uccidere Rocco Tripodi, appena assassinato, non gli lasciarono neanche il tempo di girare le spalle che venne ucciso a sua volta per non lasciare testimoni dell’accaduto. Il 27 novembre del 2007 a San Giorgio a Cremano (NA) venne ucciso il 25enne Umberto Improta. Venne colpito da un proiettile vagante mentre stava uscendo dal Caffè del Presidente. Umberto fu coinvolto in una rissa sebbene fosse completamente estraneo alle dinamiche del fatto. A dover essere colpito era un altro Umberto che aveva osato schiaffeggiare Luigi di Sarno, rampollo della famiglia di Ponticelli. I tre ragazzi che parteciparono alla sparatoria si sono presentarono poi al commissariato di Ponticelli, accompagnati dai loro avvocati. Gli avvocati dimostrarono che quella sera i due spararono non per uccidere ma per intimidire un gruppo di giovani con cui avevano litigato, ottenendo così il riconoscimento del “concorso anomalo”. Il 29 novembre del 1996 a Palizzi (RC) venne ucciso il contadino Celestino Fava, 20 anni. Quella mattina Celestino accompagnò un suo amico, Antonino Moio. I due giovani raggiunsero insieme la porcilaia in contrada Cugni, del comune di Palizzi. A bordo di una jeep arrivarono due killer che spararono prima a Nino e, accortosi della presenza dell’amico, colpirono anche Celestino testimone dell’accaduto. Gli investigatori si convinsero immediatamente che il vero obiettivo dei killer fosse Antonino Moio e che Celestino era stato ucciso perché aveva visto troppo. Ma gli assassini non hanno mai avuto un volto e quella morte grida ancora giustizia e verità. Nell’ottobre del 2002 il GIP del Tribunale di Locri ha chiesto e ottenuto l’archiviazione per “mancanza di indizi ed elementi validi per poter procedere”. Nessun processo, nessun colpevole, nessuna verità.
Il 30 novembre del 2006 a Giugliano (NA) venne ucciso Antonio Palumbo, 63 anni. Era il custode della scuola primaria di Giugliano. Quella sera si trovava nella tabaccheria del paese in via degli Innamorati quando, alle 19:40, fu ucciso da un proiettile sparato da uno dei rapinatori che entrarono nella tabaccheria subito dopo di lui. Tre i rapinatori: uno fuori a fare il palo e due nel negozio a volto coperto. Palumbo reagì alla rapina e così dalla colluttazione si arrivò alla sparatoria. I malviventi, dopo aver esploso diversi colpi di arma da fuoco, fuggirono a bordo di due moto facendo perdere ogni traccia.
Francesco Emilio Borrelli |
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