I dilemmi della Cina
Durante una visita a Pechino, dove mi sono recato su invito di uno degli atenei locali, ho cercato di capire cosa pensano i docenti universitari cinesi circa la strana situazione del loro Paese. Strana perché siamo di fronte a una sorta di animale con due teste. Da un lato un sistema istituzionale totalmente controllato dal Partito Comunista, senza libere elezioni e privo della normale dialettica tra struttura politica e società civile. Dall’altro un capitalismo che a tratti appare selvaggio, più liberista di quello europeo e generatore di grandi squilibri nella distribuzione della ricchezza. La Repubblica Popolare Cinese è infatti piena di “tycoon” (nel senso americano del termine) i quali, per limitarci soltanto al caso italiano, stanno comprando a più non posso. Squadre di calcio dall’illustre passato e che, senza le loro iniezioni di denaro fresco, sarebbero destinate alla decadenza. Note aziende della moda, giacché i cinesi hanno una vera e propria passione per tutti gli aspetti del design italiano. E pure industrie decotte che, dopo il tramonto delle Partecipazioni Statali, sono costantemente a rischio di chiusura.
Che sta succedendo, dunque? M’illudevo di avere qualche “illuminazione” dai colleghi di Pechino. Salvo accorgermi, nel corso di numerose conversazioni, che neppure essi hanno idee chiare circa il futuro che li attende. Nei loro occhi, insomma, si può leggere la stessa perplessità che abbiamo noi occidentali. Anzi, si meravigliano quando capiscono che dai colloqui il sottoscritto sperava di trarre utili indicazioni (per non dire previsioni). Il corpo docente – tanto universitario quanto a livello di scuola secondaria – è stato tra i più colpiti dalla Rivoluzione Culturale maoista e dalle epurazioni, spesso sanguinose, delle Guardie Rosse. Ai professori, proprio in quanto tali, era spesso riservato l’esilio nelle campagne e il compito di imparare a “servire il popolo” svolgendo lavori manuali. Accogliendo l’invito di Mao a “sparare sul quartiere generale”, le giovani Guardie Rosse presero alla lettera l’esortazione e si dedicarono con particolare cura a rieducare coloro che svolgevano professioni intellettuali, tutti colpevoli di superbia e di tradire gli interessi di operai e contadini. Ne risultò un caos destinato a finire soltanto con la morte del padre della rivoluzione cinese e con l’avvento del pragmatico Deng Xiaoping e dei suoi seguaci. Ora la situazione è totalmente cambiata, anche se le ferite della Rivoluzione Culturale non sono del tutto rimarginate. L’economia, pur tra alti e bassi, continua a tirare, e su questo il Partito conta per perpetuare la sua presa sulla società civile. Eppure i segnali di allarme non mancano. Dai crolli repentini e ripetuti delle Borse, alle inquietudini dei sindacati che spesso fanno capire di non gradire più la mancanza di libertà associativa. Né, per finire, vanno trascurati i dissidenti, cresciuti di numero e in grado di comunicare via internet oltre i confini a dispetto dei rigidi divieti che le autorità hanno imposto. Resta tuttavia il fatto che gli stessi cinesi non hanno la più pallida idea di dove il loro Paese stia andando. E, dal momento che stiamo parlando di docenti e di intellettuali, ciò significa che l’incertezza dev’essere molto diffusa, toccando in pratica ogni strato della popolazione. Non è chiaro come il Partito intenda gestire in futuro la contraddizione tra organizzazione politica ultrachiusa e sistema economico-finanziario dinamico e in espansione anche all’estero. I miei interlocutori allargavano le braccia e rispondevano ai miei quesiti con sguardi perplessi. A ben vedere, è proprio questo il motivo che ha reso importante la rivolta di Hong Kong. Se fosse passato il principio che gli abitanti della città-isola hanno il diritto di eleggere chi vogliono al loro parlamento, sarebbe difficile sostenere che ciò non vale nel continente. E ancor più arduo diverrebbe affermare che la Cina deve continuare ad essere governata con un sistema a partito unico. E un altro fatto dev’essere sottolineato, anche se a molti è sfuggito. Xi ha parlato di “felicità” da donare ai cittadini e di prosperità crescente da conseguire sotto la guida illuminata e attenta del Partito. Ha rispolverato concetti e aspettative che paiono assai più confuciani che marxisti, del resto in linea con la riscoperta di Confucio e gli inviti costanti a studiare il suo pensiero che da parecchio tempo hanno corso nel grande Paese asiatico. Un bel cambiamento rispetto ai tempi di Mao, quando il più celebre pensatore cinese veniva criticato aspramente e boicottato in quanto simbolo della conservazione e di una vecchia Cina ormai consegnata ai libri di storia. Proprio Confucio e la sua visione del mondo, lo si rammenti, erano uno degli obiettivi polemici principali delle Guardie Rosse. Il fatto è che la suddetta svolta epocale è del tutto in linea con l’immagine del Paese che la leadership di Pechino vuole costruire e propagandare, anche all’estero. Felicità, prosperità e progresso hanno bisogno, per essere conseguiti, di certezza, stabilità e ordine. La visione confuciana, che predica la sottomissione dell’individuo al corpo sociale nel suo insieme, è in pratica perfetta a questo fine. E il “socialismo” citato in continuazione mostra, per l’appunto, i tratti del grande saggio nazionale piuttosto che quelli di Marx, Engels e Lenin. La Cina si riappropria insomma della sua storia più antica pur avendo ancora (nominalmente) il socialismo quale meta finale. Fatte le debite differenze, si può notare che Mao aveva percorso la stessa strada, sfidando l’Unione Sovietica e rifiutando la supremazia del proletariato urbano per mettere al centro della scena i contadini.
Michele Marsonet |
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