Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il Duomo di Manduria e l’iscrizione svelata

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Finalmente, a cinque anni di distanza dalla pubblicazione di un mio precedente studio,1 possiamo disporre della fedele trascrizione dell’epigrafe incisa sull’architrave del portale del Duomo di Manduria, la cui lettura precisa è ora consentita dai restauri appena conclusi:

Ad | Dei Servitvt(Em) Sexaginta Avreos Do(Mi)Nvs Pant(Ale)Vs Palmerivs In Ostiy Huius Celatvm Opvs Exponere Pie Volvit

(Ad Dei servitutem sexaginta aureos Dominus Pantaleus Palmerius in ostii huius celatum opus exponere pie voluit.)

La traduzione letterale e più attendibile, resa possibile oggi dalla migliore fruizione del testo latino, come suggeritomi da un illustre ed esperto filologo2, è la seguente:

«Per servire (onorare) Dio, don Pantaleone Palmieri ha voluto devotamente devolvere 60 aurei (monete d’oro) nell’ (per l’) opera nascosta (per restaurare l’opera nascosta, non visibile) di questo portale»3

 

Si tratta di una traduzione fedele che consente di comprendere le singole parole e le costruzioni e che, a mio modesto avviso, avvalora quanto ipotizzato nel precedente contributo riguardo alla genesi e alla problematica datazione del portale e delle sue diverse parti.

Infatti, nonostante la lettura definitiva, il testo continua a presentare difficoltà interpretative, sollevando ancora la solita domanda: quale significato attribuire a quella parte dell’epigrafe «In Ostii Huius Celatum Opus»?

In essa sembra quasi suggerirsi l’idea che il portale esistesse, ma fosse coperto o nascosto, e che fosse stato ripristinato in bella vista dal Palmieri.

Riguardo a questa parte della scritta, le precedenti interpretazioni di Tarentini e di Arnò non ci sono di grande aiuto, poiché lasciano irrisolta la questione relativa alla sua interpretazione. Ciò nonostante il fatto che entrambi gli autori, pur nelle loro divergenze, concordino sul significato principale dell'iscrizione che rimane chiaro ed è volto a ricordare la generosità e la munificenza del committente.4

Comunque, prima di addentrarci nel discorso, sarà bene ricordare che il portale (datato 1532) è corredato da più iscrizioni fra le quali vi è appunto quella in questione che reca il nome del committente-donatore don Pantaleo Palmieri, posta sull’architrave dell’ingresso.

Il personaggio è anche raffigurato nella lunetta soprastante, dove, nonostante il cattivo stato di conservazione e l’acefalia (probabilmente causata dal terremoto del 1743), si riconosce ancora la figura del Palmieri, inginocchiato sulla destra in atteggiamento di adorazione, ai piedi della Santissima Trinità. Questo è quanto si evince dall’incrocio degli elementi iconografici della lastra con il testo della sottostante iscrizione.

Orbene, in base alla più esatta lettura dell’iscrizione che, come già si è detto, oggi è resa possibile dal restauro e attingendo ad una notizia riportata dal Tarentini (che riferiva di averla ricavata dalla consultazione dell’archivio capitolare), prende sempre maggiore consistenza l’ipotesi che il vecchio “vestibolo” (per usare le parole dello storico, o protiro, potremmo dire noi) fosse “celato” nel senso di essere collocato ad una quota più bassa del portale attuale e quindi meno visibile, tant’è che i due leoni, che, sempre a detta dello storico municipale, erano prima sottoposti a tre gradini usati per scendere in chiesa, sarebbero stati sollevati e collocati sugli odierni piedistalli.5

Quindi, sembra che proprio in questo senso si debba intendere la migliore visibilità che il committente avrebbe dato all’opera nascosta del portale (In Ostii Huius Celatum Opus) ed è affascinante come la storia e l’architettura si intreccino in questo contesto.

La teoria secondo cui il vestibolo fosse originariamente collocato a una quota più bassa offre uno spunto interessante per riflettere su come i cambiamenti architettonici possano influenzare nel tempo la percezione di un'opera.

Un’altra interpretazione, che tuttavia riterrei meno convincente, è che il portale potesse trovarsi originariamente in un’altra parte della chiesa, forse sul vecchio prospetto. In questo caso, potrebbe essere stato smontato, riposto e poi dimenticato. Successivamente, a spese del Palmieri, potrebbe essere stato riutilizzato in parte, insieme ai due leoni in pietra dura, nella nuova facciata della chiesa durante l’ampliamento cinquecentesco, il che spiegherebbe diversamente il significato di “Celatum Opus”.

Comunque sia, in entrambi i casi vengono ad aprirsi, a mio modesto parere, varie questioni sulla datazione, sull'attribuzione e sulla pertinenza o meno al contesto delle varie parti che compongono il portale che, nel complesso, è di fattura cinquecentesca come ritengono gli studiosi.

Ciò soprattutto tenuto conto della riconosciuta estraneità, rispetto all’insieme dell’opera, dei già citati leoni, che secondo alcuni proverrebbero dal protiro della vecchia facciata romanica con originaria funzione “stilofora” (portatori di colonne).6 Ad una attenta osservazione tale funzione trova un ulteriore indizio: sulla schiena dei leoni poggia un basamento o piedistallo a plinto rettangolare, che fungeva all’origine di appoggio per le colonne, ed è ancora ben visibile in entrambi i manufatti [v. immagine 2].

Questo particolare li accomuna agli esemplari del portale del Duomo di Bitetto (Bari), dove gli analoghi basamenti hanno conservato la loro funzione e le colonne sono ancora presenti [v. immagine 4].

Il confronto evidenzia come certi particolari architettonici possano ripetersi, rivelando pratiche costruttive condivise.

E a chi dovesse obiettare che le basi di appoggio dei leoni potrebbero esser state progettate per reggere gli attuali stipiti del portale cinquecentesco, faccio sin d’ora notare che le basi degli stipiti sono fuori misura, risultando più larghe dei basamenti su cui poggiano, rispetto ai quali fuoriescono. [v. immagine 3].

Tale osservazione supporta l'ipotesi del reimpiego dei due manufatti architettonici.

L’idea che i leoni siano stati spostati per esaltare la visibilità del portale suggerisce quindi una volontà di valorizzare l’ingresso, rendendolo non solo un passaggio, ma anche un elemento di grande significato simbolico.

 

Giuseppe Pio Capogrosso

 

 

Note

1 Cfr. G. P. Capogrosso, Il portale del Duomo di Manduria e il committente “celato”, pubblicato in Nuovo Monitore Napoletano, n.120, Ottobre-Novembre 2019.

2 Desidero esprimere il mio sincero ringraziamento all’illustre Prof. Salvatore Costanza, docente di Filologia classica e bizantina presso la National Kapodistrian University of Athens (Università Statale di Atene), e al caro amico e conterraneo Prof. Dante Pastorelli. Le loro preziose indicazioni sono state fondamentali per la corretta trascrizione e traduzione dell’epigrafe.

3 Spiegazione: tra “Ad” e “Dei” segno interpuntivo per rimarcare la distinctio dei due lemmi.

Servitvt: il secondo “t” è soprascritto e la desinenza – em è sottintesa.

Donvs: abbreviazione di Dominus.

Pantvs: abbreviazione di Pantaleus.

Ostiy: “Y” sta per la seconda “i”, desinenza del genitivo.

Voluit = voluit

4 L. Tarentini sac., Manduria Sacra, ed. B. D’Errico, Manduria, 1899, p.134. Secondo la trascrizione del Tarentini, dovrebbe leggersi: «Ad Dei Servitutem Sexaginta Aureos Dominus Pantaleus Palmerius Ostium Huius Celatum Opus Exponere Pie Voluit».

Una diversa trascrizione dell’epigrafe è riportata da Gianbattista Arnò (Cfr.Manduria e manduriani, Scuola Tipografica Antoniana, Oria ,1954): «Ad Dei Servitvtem Donvs Pantvs Palmerivs In Ostii Hvivs Celatvm Opus Exponere Pie Volvit».  La lezione dell’Arnò, tuttavia, è ancora più problematica. In essa, a differenza di quella del Tarentini non sono state sciolte le abbreviazioni (v. Do.Nvs per Dominvs e Pant.Vs per Pantalevs), non sono state sostituite le “V” con valore vocale e non consonantico con le “U” (ad es. HvivS con Huius), mentre la frase è incompleta in quanto non sono riportati nella trascrizione i “Sexaginta Aureos” donati dal committente.

5 L.Tarentini sac., Cenni storici di Manduria antica, Casalnuovo e Manduria restituita, Tip. Spagnolo – Taranto, 1901. L’autore riferiva, a proposito dell’antica chiesa: «Altre porte non aveva, se non l’unica, situata nel centro e guarnita dai due grossi leoni di pietra durissima che ancora si notano; però sottoposti ai tre gradini, per via dei quali si accedeva.», specificando pure che Raimondo di Francavilla, su incarico del Palmieri, «sollevò il vestibolo e gli dette nuova forma: collocò i leoni di pietra dura su le basi, costruì rilievi, scolpì le piccole statue dei SS. Apostoli Pietro e Paolo e della SS.Trinità [….].»

6 Caratteristico dell’architettura sacra medievale, il leone stiloforo, veniva spesso collocato nei protiri delle chiese romaniche con la funzione di reggerne le colonne, ma era anche portatore di un messaggio spirituale simbolico rivolto ai fedeli. Nei bestiari medievali, l’animale veniva associato al concetto di protezione poiché si pensava che dormisse con gli occhi aperti quindi con la funzione apotropaica di difensore dal demonio.

 

Nelle immagini:

1. L’iscrizione del portale dopo i restauri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Particolari dei plinti posti sulla schiena dei due leoni del Duomo di Manduria

3. Particolari dei plinti posti sulla schiena dei due leoni del Duomo di Manduria

 

4. Analogo particolare in uno dei leoni del Duomo di Bitetto

 

 

 

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