Contro i “Guru” del web
Quello appena trascorso è stato un mese di agosto parecchio movimentato per i miliardari della Silicon Valley: ci sono state le dichiarazioni di Mark Zuckerberg riguardo le pressioni subite dal suo staff risalenti al 2021, ad opera della Casa Bianca, per censurare alcuni contenuti sul Covid e sul figlio del Presidente Biden - un vero e proprio contrappasso, se si pensa a quando il proprietario di Facebook decise di bloccare il profilo di Trump, allora su Twitter, durante la campagna elettorale del 2016, con il plauso di tutti gli utenti. Il 24 del mese è stato arrestato in Francia il fondatore di Telegram, Pavel Durov, con accuse alquanto generiche di frode (ma forse la sua unica vera colpa è quella di essere russo di nascita). Infine, l’intervista di Elon Musk proprio al tycoon, che ha sollevato un vespaio di polemiche, soprattutto in Europa. La conversazione, durata circa 2 ore e iniziata con 40 minuti di ritardo per un presunto cyberattacco, tra il numero uno di X (ex Twitter) e Trump, ha mostrato quale sia il vero volto della comunicazione sul web. Perché l’intervista di Musk ha dato così tanto fastidio? A tal punto da scomodare il Commissario europeo per il Mercato interno, il francese Thierry Breton, con una lettera rivolta all’imprenditore sudafricano, in cui gli è stato intimato il rispetto della normativa UE anti fake news, pena la sospensione preventiva della sua piattaforma social e altre ritorsioni legali? È proprio questo il punto: invocare la lotta alla “disinformazione digitale”, per colpire di fatto un avversario politico.
È accaduto con Zuckerberg contro Trump, come già detto, ed è successo con Bill Gates, un anno e mezzo fa, quando invocava l’uso dell’Intelligenza Artificiale contro gli estremismi e i complottismi in rete. Elon Musk, invece, ha commesso il sacrilegio di intervistare il “nemico pubblico numero 1” dei democratici americani, come si farebbe con un qualsiasi candidato a delle elezioni presidenziali. Per anni, infatti, i magnati del tech sono stati un bastione dei liberal americani (e dei governi di sinistra europei) e finché la “loro” creazione rifletteva le “loro” idee, con milioni di utenti schierati dalla “loro” parte, hanno sempre proclamato la massima libertà d’espressione sulla rete; quando, poi, di questa libertà hanno usufruito altrettanti milioni di utenti, ma con idee diverse, i vari Gates&co si sono inventati lo stigma della Fake news. Ciò dimostra non solo l’insofferenza di questi “filantropi” verso il dissenso, ma soprattutto quanto sia falsa (questa sì) l’aura di “santità”, costruita dai media, intorno a tali personaggi, descritti come dei “visionari” operanti per il bene dell’Umanità, dei “geni incompresi” che - nel chiuso dei loro garage - si sono presi una rivincita contro il mondo brutto e cattivo degli adulti, diventando un esempio per milioni di giovani alla “Will Hunting”. Peccato che questa gente è la stessa che ha provocato nel 2022 il crack finanziario della Silicon Valley Bank, con miliardi di dollari bruciati dalle aziende operanti nel settore dell’IA... alla faccia della filantropia. Dopo che per anni ci siamo sorbiti le agiografie romantiche dei vari Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e l’immancabile Steve Jobs - con il suo «Stay hungry, stay foolish» ripetuto come un mantra da miliardi di internauti - ci siamo resi conto che queste persone non sono altro che degli imprenditori, sicuramente brillanti, il cui unico scopo, però, è quello di fatturare... niente di più. Proprio recentemente sono stati pubblicati due libri che smontano la retorica degli “imprenditori illuminati che vogliono migliorare il mondo”. La giornalista Kara Swisher ha scritto “Burn Book. A tech love story”, sui segreti della Silicon Valley e dei capi delle aziende tecnologiche; mentre Anupeetra Das, firma del New York Times, ha dedicato un’intera biografia a Bill Gates e alle sue “beghe” quotidiane. La Swisher descrive i big californiani come degli «adolescenti incapaci di gestire il successo». Steve Jobs, ad esempio, aveva un carattere difficile e, negli ultimi anni, aveva perso la crudeltà ma non il sarcasmo (l’autrice racconta che durante un’intervista doppia con Bill Gates, definì Windows «l’inferno»), inoltre, sempre lei, partecipò ad una festa i cui invitati erano vestiti con pannoloni per adulti e tutine da neonati, per festeggiare la nascita del primo figlio di Brin, fondatore di Google, e della moglie Anne Wojicki, AD di Youtube. Il libro della Das - intitolato Bilionaire, Nerd, Savior, King. Bill Gates and his quest to shape our world - sul fondatore della Microsoft, ripercorre, tra le altre cose, l’ambigua amicizia col pedofilo suicida Epstein, il divorzio dalla moglie e le concomitanti dimissioni dall’azienda a causa dei numerosi flirt che Bill Gates era solito intrattenere con le dipendenti - a tal punto che le stagiste non potevano rimanere da sole nella stessa stanza insieme al capo (l’autrice lo definisce «un bambino in un negozio di caramelle»), ma non solo. Alcuni ex dipendenti lo hanno accusato di essere un bullo, egocentrico, al di sopra delle regole, imbarazzante nelle interazioni sociali, talmente convinto di essere la persona più intelligente da dare risposte del tipo «questa è l’idea più stupida che abbia mai sentito» oppure «stai cercando di distruggere l’azienda?» verso dirigenti donne che proponevano iniziative per la diversità di genere. Per concludere, risulta molto utile la visione del film The Circle (2013), con Emma Watson e Tom Hanks: una riflessione sulla pervasività della tecnologia nelle nostre vite e sulla malafede di chi ce la propina.
Gianluca Rizzi |
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