Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Dagli schiavi alle badanti: una evoluzione sociale in corso

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Nella società greco-romana il lavoro per l’andamento della casa delle famiglie ricche era svolto da schiavi di ambo i sessi. La schiavitù scomparve in Europa con la caduta dell’Impero romano e l’avvento del Cristianesimo.

Nel Medioevo fino all’età moderna permaneva la servitù, basta pensare ai cosiddetti “servi della gleba” o alle centinaia di servitori alle corti dei re o dei nobili nel Rinascimento.

La schiavitù ricomparve soprattutto in America del nord nei secoli XVIII e XIX per poi scomparire di nuovo.

La distinzione tra schiavitù e servitù è fondamentale: nella prima condizione il padrone aveva diritto di vita e di morte sullo schiavo equivalente ad un oggetto che si poteva vendere o comprare, nella seconda il servo era libero o meno di prestare la propria opera e il rapporto col padrone era previsto nei contratti.

Oggi con “schiavitù” si indica un particolare stato dell’essere umano sottoposto a situazioni ambientali drammatiche, a dipendenza amorosa o sostanze stupefacenti.

Nella società moderna la parola “servitù” è stata sostituita da termini che corrispondono ad una diversa sensibilità sociale come colf, collaboratrici domestiche, baby sitter, etc.

La loro presenza si è resa necessaria per la diminuita presenza della donna nel nucleo familiare dovuta alla sua introduzione nel mondo del lavoro.

 

I termini sono quasi sempre volti al femminile data la prevalenza delle donne che, in questa categoria di lavoratori, prestano la propria opera nell’andamento della vita familiare creando ordine e pulizia.

L’aumento esplosivo della popolazione anziana iniziato negli ultimi decenni del secolo scorso nei Paesi industrializzati, con la presenza sempre più numerosa di persone con disabilità, ha determinato la comparsa di una nuova figura di collaboratrice domestica, la “badante”.

È un brutto neologismo rifiutato dalla parte politicamente corretta dell’opinione pubblica, usato quasi sempre al femminile per l’assenza pressoché completa della presenza maschile. Le “badanti” non si occupano dell’andamento della casa, ma hanno il compito di assistere persone con disabilità, più meno autosufficienti, anziani e/o malati.

Nella mia famiglia di origine e in quella personale abbiamo avuto, dalla metà del secolo scorso ad oggi, la presenza di collaboratrici per il lavoro domestico.

Inizialmente erano italiane di provenienza contadina dovuta allo spopolamento delle campagne, con una progressiva sostituzione negli ultimi decenni da Paesi extracomunitari, Filippine, Ucraina, Albania, Colombia, Perù; sono tornane quasi tutte nei Paesi di origine richiamate da necessità familiari.

La loro posizione è sempre stata regolata da contratti, ma il settore del lavoro domestico risulta il comparto con la maggior presenza di lavoro nero, con un tasso di irregolarità pari al 57%, ben al di sopra rispetto alla media dei principali settori produttivi. La nostra esperienza è stata positiva, con rapporti talora proseguiti a lungo.

In questo lungo periodo non abbiamo avuto necessità di ricorrere all’aiuto delle “badanti”, ma, in analogia a quello infermieristico constatato in anni di attività professionale in ospedale, ritengo che questo tipo di lavoro sia duro e difficile per di più complicato dall’essere queste lavoratrici straniere e lontane dalla famiglia di origine.

Una dimostrazione drammatica delle difficoltà nell’assistenza a questo tipo di pazienti si trova nel film Amour di Michael Haneke del 2012: due anziani coniugi, hanno vissuto un passato di grande intesa amorosa ma la donna è colpita da ictus, con inabilità assoluta fisica e mentale. Il marito non ritiene adeguato il lavoro delle infermiere e per amore vuole svolgerlo personalmente. Presto, però, si rende progressivamente conto che si tratta di un compito impossibile ed allora prende la drastica decisione di pone fine alla sofferenza di entrambi.

Un film a lieto fine è invece Mare Nero del 2008 di Federico Bondi; i rapporti tra un’anziana donna e una giovane badante rumena caratterizzati inizialmente da ostilità e reciproca incomprensione si trasformano in seguito in un protettivo rapporto affettivo; l’anziana assistita aiuta la giovane addirittura recandosi con lei in Romania per risolvere i problemi familiari.

È probabile che in futuro il problema delle collaboratrici domestiche, addette al normale funzionamento della famiglia, possa essere risolto o ridotto a casi selezionati per una maggiore condivisione del lavoro domestico tra uomini e donne ancora carente almeno in Italia e mediante servizi adeguati all’infanzia.

Per gli anziani ancora autosufficienti, ma che hanno difficoltà nella vita quotidiana cittadina stanno nascendo i “condomini sociali”, con servizi che vanno dall’assistenza 24 ore su 24 alla spesa a domicilio, con la possibilità di vita autonoma e sociale e locazioni a prezzi accessibili; si evitano così le case di riposo che sradicano dalle storie personali.

Il problema è più complesso per le persone anziane e/o disabili non autosufficienti.

Il numero dei disabili varia in rapporto alla entità della disabilità; secondo l’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane vi sono in Italia 13 milioni di persone con disabilità di vario grado, tre milioni dei quali sono in condizioni di grave disabilità. Il loro numero aumenta nell’ età avanzata: sono circa 500mila nelle fasce di età dai 65 ai 74 anni, e 1milione e 500mila oltre i 75 anni.

Oltre 2 milioni di persone lavorano nel nostro Paese come colf, badanti o assistenti familiari.

Secondo i dati INPS rielaborati da DOMINA, nel 2020 i lavoratori domestici regolari sono stati oltre 920 mila, con un aumento del 7,5% rispetto all’anno precedente. Tra questi, vi è una netta prevalenza di donne (87,6%) e una forte presenza straniera, pari al 68,8% del totale, proveniente per lo più dall’Est Europa, ma da tutti i Paesi del mondo.

È un fenomeno dovuto alla differenza di status economico dei diversi Paesi: i lavoratori e le lavoratrici provengono di solito da quelli a reddito inferiore e trovano la sistemazione economica nel nostro.

Vi è uno stridente contrasto tra la retorica anti-im­migrazione di una parte delle forze di governo e l’interes­se (e la disponibilità) della popolazione ad aprire la propria casa a colf e “badanti” immigrate/i

In Italia il “modello badante” sembra attualmente la soluzione migliore, coerente con la cultura tradizionale.

Anche se estranea alla famiglia, la “badante” permette all’anziano di restare a casa propria. La domanda è se questa soluzione sarà possibile nel medio e lungo periodo, quando queste lavoratrici non troveranno più l’Italia una “meta interessante” dal punto di vista economico.

L’altra soluzione attuale è quella del ricovero nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), che forniscono assistenza medica, infermieristica e riabilitativa continuativa e sostegno anche per le attività quotidiane, come l’alimentazione e l’igiene personale.

Lentamente, tuttavia, queste strutture hanno preso il ritmo di qualsiasi reparto ospedaliero, abbandonato la dimensione sociale per assumere quella sanitaria con schemi rigidi, per quanto riguarda le camere, il cibo, i ritmi e i tempi, l’orario di entrata e di uscita per le visite.

Si rispettano le diete che fanno i dietologi, ma il cibo centralizzato è spesso insapore. Vivere in queste strutture per anni, significa la disumanizzazione delle persone.

La recente pandemia da COVID-19 ha mostrato la mancanza di attenzione al problema, favorendo la diffusione del virus e l’elevata mortalità. La scarsità di personale è un importante fattore negativo.

L’alternativa è umanizzare l’assistenza per mantenere a questi pazienti l’autonomia più alta possibile, creando strutture di tipo familiare, che siano i vicine ai luoghi di residenza piccole, che non ospitino più di 15 anziani, con almeno una stanza che l’anziano possa attrezzare come a lui piace; creare insomma dei “condomini sociali” con assistenza da parte di medici e infermieri e una serie di servizi che possono essere erogati, ma permettendo alle persone di restare nei singoli appartamenti.

Si tratta di mettere in atto politiche sanitarie diverse da quelle attuali che privilegiano la medicalizzazione e considerano solo la componente economica del problema che sottostà purtroppo alle regole di mercato.

 

 

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