Dall’Auri sacra fames virgiliana ai miliardari moderni
Ci voleva la vocazione maieutica di un professore di lettere per invitare lo scrivente, suo studente di prima liceo nel 1946, ad una gara letteraria; il tema sorteggiato era il verso virgiliano Auri sacra fames. L’argomento era impegnativo per un quattordicenne e non vinsi alcun premio; adesso confido nella comprensione della rivista per la pubblicazione dell’articolo. La frase intera Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames, è tratta dall’Eneide di Virgilio (Libro III, versi 56-57) e si riferisce ad un episodio della guerra di Troia: «Il povero Priamo segretamente aveva un giorno mandato questo Polidoro (il figlio ndr) al re Tracio, con un grande tesoro, affinché lo crescesse, quando ormai aveva perso fiducia nella guerra e vedeva la città dardania circondata dall'assedio. Costui, non appena le forze troiane furono infrante e la Fortuna si allontanò, seguendo i re greci e gli eserciti vincitori, infranse ogni legge divina: uccide Polidoro, e con la forza si impadronisce del tesoro. A che cosa non spingi l'animo degli uomini, maledetta fame dell'oro!» L'espressione virgiliana ha evidente valore deprecativo nei confronti della cupidigia di ricchezze come vizio capitale dell'umanità e movente di azioni vili e ferali.
In latino l'aggettivo sacer, accanto al significato equivalente all'italiano «sacro», può assumere anche il valore opposto di «esecrabile, maledetto» Nella storia la ricerca dell’oro è frequentemente associata a eventi tragici: Medea uccise i figli dopo essere stata tradita da Giasone, l’eroe che partì con gli argonauti alla ricerca del vello d’oro nella Colchide. Studiosi moderni ritengono che la pratica degli abitanti di quel Paese consistesse nel ricavare pagliuzze d’oro dai fiumi che scendevano dalle montagne del Caucaso usando come filtro la pelle di montone. I romani invasero la penisola iberica nel 218 a.C. e due secoli dopo la Dacia (attuale Romania) per impadronirsi delle ricche miniere d’oro; nel quindicesimo e sedicesimo secolo dell’era moderna vascelli spagnoli e portoghesi portarono in Europa dall’America una enorme quantità del metallo prezioso dopo lo sterminio delle popolazioni locali. A metà del diciannovesimo secolo la “febbre dell’oro” coinvolse popolazione intere: in California e in Canada, circa 300mila furono i partecipanti alla ricerca del metallo nei fiumi, lavorando in condizioni proibitive con sofferenze di ogni genere. Ne seguirono anche massacri delle popolazioni locali, alcuni si arricchirono, ma per la maggior parte la quantità di oro trovata copriva a malapena le spese. Durante il ventennio fascista in Italia gli unici bagliori aurei erano quelli delle fedi nuziali poi “donate” alla Patria per sostenere l’aggressione all’Etiopia nel 1935, in cambio di un cerchietto di metallo: mio padre, operaio specializzato, guadagnava 350 lire al mese, consolava la canzone, Se potessi avere mille lire al mese / senza esagerare, sarei certo di trovare tutta la felicità. I miliardari, come il magnate americano John D. Rockfeller, erano personaggi mitici, ma da aborrire in quanto appartenenti alle “demoplutocrazie”. L ’ultimo sinistro, bagliore dell’oro di quel periodo provenne dal cosiddetto tesoro di Dongo quando cadde la Repubblica di Salò. Il 27 aprile 1945 una lunga colonna di camion ed auto in fuga da Como fu fermata a Dongo dai partigiani; insieme a Mussolini e agli epigoni del fascismo, fu trovata anche un'ingente quantità di oro, gioielli, banconote di ogni taglio, titoli di Stato e valuta straniera, e anche fedi nuziali che erano state “donate alla Patria”. La storia di questo tesoro, segnata dalla uccisione di partigiani testimoni, e da successivi processi, inquadrata nel crepuscolo tragico del regime fascista, è stata descritta con accuratezza nel libro di Gianni Oliva, Il tesoro dei vinti (Mondadori, 2015). Dopo il secondo conflitto mondiale la percezione dell’oro come sinonimo di ricchezza si attenuò; una quantità enorme del metallo si trova adesso nei caveaux delle banche nazionali ed è garante della quantità di moneta circolante. I miliardari sono divenuti progressivamente i simboli viventi della ricchezza, resi “familiari” dalla pubblicità che li circonda. È considerato miliardario chi dispone di un patrimonio netto da un miliardo e oltre di una determinata valuta, di solito in euro o dollari. Individui in possesso d’immense ricchezze sono sempre stati presenti nella storia dell’umanità: dal faraone Ramses II (1303 a.C. – 1212 a.C.) al dittatore Mu’ammar Gheddafi (1942–2011), dal console Marco Licinio Crasso (114/115 a.C.– 53 a.C.) al principe Osman Ali Khan (1886–1967). Si calcola che quelle ricchezze fossero comparabili e talora superiori a quelle dei superricchi moderni. Per quest’ultimi la rivista statunitense Forbes dal marzo 1987 pubblica ogni anno una lista espressa in dollari. Nel marzo 2024 i miliardari impresari nel mondo, esclusi capi di stato o politici, erano 2781; il primato spetta agli Stati Uniti con 813 nomi, segue la Cina con 473, terza l‘India con 200, la Germania con 132, la Russia con 120, l’Italia con 73. Il patrimonio stimato dei primi dieci più ricchi varia da 233 miliardi a 114 miliardi. Scritto in modo diverso il patrimonio del più “povero” è di soli 114.000.000.000 dollari! La cronaca abbonda di episodi e di azioni che riguardano questi personaggi: dalle esibizioni di ville lussuose o giganteschi yatch alle ingenti donazioni per progetti umanitari, alle attività più strane come quelle di Elon Musk, secondo nella classifica soprariportata, che si diverte a finanziare viaggi spaziali per ricchi o ipotizza cervelli etero comandati da chip elettronici; non dimentica comunque di licenziare operai della sua fabbrica se i profitti diminuiscono. Il profitto è del resto sempre nel pensiero delle persone ricche o ultraricche, anche quando aumenta in modo eccessivo; quest’ultima evenienza è illustrata in modo divertente dai personaggi di Walt Disney: zio Paperone, ultramiliardario, seduto sulla sua montagna di dollari, è preoccupato per la continua crescita del patrimonio e per ridurla impone al nipote Paperino di procedere a qualunque tipo di spesa nei suoi possedimenti. Quando torna trova lo zio infuriato: le spese del nipote avevano provocato un ulteriore aumento dei profitti. È un meccanismo che funziona anche nella realtà. Al di là delle vicende e degli aneddoti più o meno eccitanti dei miliardari la loro ricchezza va confrontata con la situazione economica e sociale della popolazione mondiale. Il confronto è drammatico: nel 2013 erano circa 767 milioni le persone povere, al di sotto della linea convenzionale di un reddito pro capite di 1,90 dollari al giorno. Le disuguaglianze tra i vari Paesi sono abissali; il PIL pro capite del Lussemburgo è intorno ai 130mila dollari quasi 415 volte maggiore rispetto al quello del Burundi , uno dei cinque Paesi più poveri del mondo insieme a Repubblica Democratica del Congo, Zimbabwe, Liberia ed Eritrea, tutti nell’Africa Subsahariana, mentre nel terzo mondo alcuni sono in via di sviluppo, questi cinque, inquadrati nel quarto mondo, non ne hanno alcuna possibilità e, avranno sempre bisogno degli aiuti umanitari per poter sopravvivere. Secondo una ricerca della Clean Clothes Campaign sui salari minimi mensili mondiali nel settore abbigliamento e calzature il più basso è nel Bangladesh (50,32 euro). Segue l’India (50,32 euro), Moldavia con 71 euro, Ucraina con 80, Indonesia con 82, Romania con 133, Bulgaria con 139, Cina con 174, Serbia con 189, Turchia con 252. Negli ultimi anni sono riportati alcuni dati positivi come la riduzione della povertà mondiale. Il numero dei cittadini con reddito di 1,90 dollari al giorno è diminuito dai 1,67 miliardi del 1990 ai 767 milioni del 2013, ma la situazione è ancora drammatica. In base ai dati pubblicati dall'Unicef e dalla Banca mondiale, 333 milioni di bambini hanno vissuto il 2022 in condizioni di povertà estrema con una modesta diminuzione rispetto al 2013, anno in cui erano 383 milioni. Le enormi disuguaglianze economiche, insieme alle guerre e ai cambiamenti climatici rimangono le sfide irrisolte nel futuro dell’umanità. |
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