La sfida alla “società aperta”
È lecito interrogarsi circa la sfida che la storia pone al celebre concetto popperiano di “società aperta”. Quest’ultimo, com’è noto, è fondato sul principio di tolleranza, e per due buoni motivi. In primo luogo la nostra conoscenza è sempre fallibile, e ciò significa che, analogamente a quanto accade nella scienza, non possiamo mai essere sicuri di aver raggiunto lo stadio definitivo della conoscenza stessa. La storia dimostra che ogni teoria è destinata prima o poi a essere soppiantata da una teoria diversa, e la fase finale – quella in cui si dovrebbe raggiungere la completezza – resta un obiettivo che i nostri limiti ci impediscono di raggiungere. In secondo luogo, se dalla scienza passiamo agli ambiti dell’etica e della politica, il mondo umano è caratterizzato da un inevitabile politeismo dei valori, sul quale attirò l’attenzione Max Weber e, successivamente, Isaiah Berlin. Anche Popper infatti riteneva che l’etica non è una scienza, ragion per cui i valori ultimi non sono teoremi risolvibili con mezzi logici, bensì ideali di vita circa i quali le scelte sono inevitabilmente personali. Si può argomentare a loro favore, precisando però che essi non sono poggiati su basi certe, eterne e irrefutabili. Le argomentazioni volte a sostenerli presuppongono sempre un confronto franco e leale, al cui interno è vietato imporre agli altri credenze e convinzioni che non condividono. Ne consegue che, (1) la fallibilità della conoscenza umana e (2) l’impossibilità di derivare qualsiasi proposta etica da presupposti certi e non confutabili, costituiscono per l’appunto le uniche basi sulle quali la società aperta può reggersi.
Si tratta ovviamente di basi molto fragili, come la storia dei totalitarismi del secolo scorso (e del nostro) dimostra. In altri termini, i sostenitori della società aperta devono trovare il modo di salvarla dalle pressioni di coloro che, convinti di possedere la Verità (rivelata dall’alto, oppure disegnata a tavolino da teorie utopiche), intendono scardinarla e costringere il prossimo ad adottare una forma di vita che promette la salvezza eterna. E non importa il modo per conseguirla. A volte sono i precetti di un libro ritenuto sacro, in altre occasioni le promesse contenute in testi filosofici o economici. Diventa quindi arduo difendere tolleranza e politeismo dei valori quando, a contestarli, sono individui e movimenti convinti di aver trovato la soluzione di ogni problema. In particolare quando si crede che tale soluzione provenga da una divinità che tutto sa e tutto prevede. Come si può contestarla, dal momento che i suoi precetti sono in grado di rispondere a ogni interrogativo, offrendo finalmente all’umanità intera l’opportunità di vivere in un ordine socio-politico giusto, e di conseguire la tanto agognata armonia tra città terrena e città celeste? A fronte di un simile risultato, l’imposizione dei propri costumi, la sottomissione anche violenta di chi non crede e addirittura le stragi diventano un passaggio indispensabile per conseguire non tanto “un”, ma “il” mondo migliore. Possiamo trovare una parziale risposta all’interrogativo posto all’inizio in un piccolo libro che Popper pubblicò poco prima della sua morte: “Cattiva maestra televisione”. Il contesto è diverso, giacché il filosofo in quel breve scritto tratta il tema della violenza nei mass media, e in particolare sugli schermi della TV. Non tanto diverso, tuttavia, da impedire il confronto con i problemi che ci affliggono oggi. Quando gli venne fatto rilevare il paradosso che un liberale come lui sostenesse la necessità di limitare la libertà di espressione, Popper rispose in questo modo: «Devo confessare che faccio fatica a capire queste obiezioni. Potrei aver voglia di esprimermi colpendovi con un pugno, ma è chiaro che non posso, non devo farlo. È forse antiliberale impedirmi di colpirvi? Perché dovrebbe essere antiliberale o paradossale per un liberale come me affermare la necessità di limitare la libertà? Ogni libertà deve essere limitata. Non esiste libertà che non abbia bisogno di essere limitata. Dovunque ci sia libertà, la miglior forma di limitazione è quella che risulta dalla responsabilità dell’uomo che agisce, se è un irresponsabile cadrà sotto i colpi della legge». Popper propose quindi di istituire dei metodi di controllo, in base ai quali chiunque voglia fare televisione deve ottenere una sorta di “patente”. A ben guardare, il dilemma che dobbiamo fronteggiare oggi non è poi così distante. Predicare la necessità dell’immigrazione illimitata, sostenendo che chi chiede di stabilirsi nel nostro Paese (o in altre nazioni occidentali) dev’essere accolto senza “se” e senza “ma”, prescindendo da qualsiasi accertamento sul suo conto, è indice di superficialità o, addirittura, di irresponsabilità. E non importa quanto alte siano le cariche ricoperte dai promotori di questo approccio. Anzi, più sono alte, maggiori sono superficialità e irresponsabilità dimostrate. Mi sembra evidente che la società aperta, essendo basata come dianzi accennavo su basi preziose sì, ma anche fragili, ha il diritto di difendersi da chi la vuole minare dall’interno e poi abbattere. Se non si comprende un fatto così elementare, ciò significa che i partigiani della libertà illimitata e senza ostacoli sono – essi stessi – nemici della società aperta. |
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