Il significato della Cavalleria medievale

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Per molti è difficile accettare alcuni stereotipi tipici della nostra epoca. Nomino – e faccio solo due esempi tra i molti possibili – il rifiuto del concetto di “eroismo” e la credenza ampiamente diffusa che gli esseri umani siano tutti uguali.

Si pensi al fenomeno della Cavalleria medievale, ai motivi del fascino che tuttora continua a esercitare, all’esistenza di modi di pensare, di interi schemi concettuali a essa legati.

Questi elementi non si ritrovano in testi storici, ma altrove. In sommo grado nel ciclo arturiano, miscuglio di esaltazione della Cavalleria cristiana da un lato, e di miti e leggende celtici e nordici dall’altro.

Campo d’indagine dei filologi romanzi e degli studiosi del mito, più che degli storici di professione. Ma anche terreno di caccia di tanti poeti e visionari che credono nell’esistenza reale di un gruppo di nobili Cavalieri riuniti intorno a Re Artù e alla Tavola Rotonda.

Davvero curiosa questa situazione. Sappiamo molto degli Ordini Cavallereschi, anche se non tutto. Eppure, chi voglia cogliere lo spirito della Cavalleria nella sua forma più pura deve cercarlo nelle storie di un Re e di un gruppo di Cavalieri di cui non è accertata l’esistenza storica.

Strano destino, ma non troppo. Gli Ordini Cavallereschi erano formati da uomini in carne e ossa, con tutti i difetti del caso.

Ma la Cavalleria, per molti di noi, è più una dimensione dello spirito che un elemento della realtà empirica. Più una visione del mondo che qualcosa di concretamente esistente.

Il tema eterno è la lotta tra il Bene e il Male. Si tratta di un argomento dello spirito, e non è affatto facile separare i due domini. Essi, anzi, s’intersecano vicendevolmente, impedendo di tracciare distinzioni molto nette.

Come proferire un giudizio nei confronti di combattenti che sono sì guerrieri, ma guerrieri “spirituali”? Lo si sospende, il giudizio, nell’incapacità di valutarli come infami o generosi, sublimi o criminali. Talora i due attributi si combinano, e proprio allora l’attenzione è calamitata al massimo.

Attrae sempre, in questi casi, non il mero esercizio della forza, ma la coniugazione di questa con lo spirito. Compare, nelle saghe, nei romanzi, nei film, una sorta di ideologia che esorta alla lotta e la nobilita fecondandola con elementi spirituali. La lotta si sposta su un piano più elevato, sublime. Una sorta di compito alchemico che si propone di raggiungere una metamorfosi grandiosa.

Nella storia abbiamo veramente alcuni gruppi che si sono prefissi tale compito, in Occidente e in Oriente. Gli Ordini Cavallereschi sono un chiaro esempio occidentale di questo clima spirituale, come i Samurai in Oriente.

E, per quanto sia pericoloso oggi un simile accostamento, i richiami islamici alla guerra santa che combatte la modernizzazione auspicando il ritorno a una società ispirata da principi strettamente religiosi, dovrebbe richiamare alla memoria di noi occidentali elementi importanti della nostra storia passata.

Forse non tutti sanno che ai tempi delle Crociate, nelle quali gli Ordini Cavallereschi ebbero un grande ruolo, gli infedeli musulmani avevano una società per certi aspetti più progredita dell’Occidente medievale.

Il concetto di “progresso”, come tutti sappiamo, è relativo, e non assoluto né univoco. Ma se ci atteniamo all’accezione del termine “progresso” oggi comune, dobbiamo riconoscere che a quel tempo la civiltà araba era in pieno fulgore e, dal punto di vista scientifico e filosofico, può anche essere giudicata più progredita della società occidentale medievale.

Assai più avanzate erano in Oriente la matematica, le scienze naturali, e pure la filosofia. La riscoperta di Aristotele avvenne infatti nel contesto arabo e islamico, e gli specialisti del settore ben sanno quanto il nostro San Tommaso d’Aquino debba ai filosofi arabi.

Eppure sentiamo che dietro il concetto di guerra santa si celano forze quasi sovrannaturali, tutt’altro che defunte in Occidente, dove si limitano a sonnecchiare. Esse sono in realtà ben vive, e attendono la fine del razionalismo per riprendere l’antico vigore. Qualcuno ha parlato di “ideologia” della Crociata. Ebbene, si tratta di un’espressione appropriata.

L’ideologia crociata ha il suo fondamento nell’abitudine dei pellegrinaggi e nella pratica della guerra santa, entrambe sviluppate all’interno di un mondo culturalmente unito, la Cristianità. Trae la sua forza dall’accordo delle sue pulsioni con credenze antiche ma ancora vive (attitudini di fronte alla natura, il meraviglioso, etc.), e da una profonda convinzione religiosa.

Tre i suoi caratteri fondamentali: la contrapposizione della Cristianità all’Islam, la promessa della salvezza, la croce come testimonianza dell’impegno.

La memoria popolare ha trattenuto il carattere di violenza rivestito dalle guerre sante, violenza esercitata sotto la copertura di un dovere religioso e celebrato, senza alcun pentimento, da protagonisti diretti e memorialisti. La violenza faceva parte dell’ideologia crociata, dato che la guerra era il mezzo necessario per la conquista della Terra Santa.

L’avversario era il musulmano, visto come ostacolo alla pace e alla sicurezza. Inoltre il Papa aveva conferito all’impresa un carattere meritorio, quindi essa acquistava un carattere particolare e forniva una giustificazione ad atti guerreschi e a comportamenti crudeli.

Con la Crociata ci troviamo nel caso di una trascendenza religiosa che può definire una violenza legittima o garantire la sua specificità di fronte a ogni violenza illegittima. Per capire l’ideologia crociata occorre da una parte studiarne gli antecedenti (sia prossimi che lontani) e dall’altra comprenderne il contesto sociale e psicologico, perché questa ideologia appartiene a una storia di lunga durata.

La Crociata è il coronamento di una lunga evoluzione, la conseguenza della dottrina della guerra santa al servizio della Chiesa, la spiritualizzazione della funzione del guerriero e del dovere della Cavalleria. Si verifica, in parallelo, uno sviluppo del pensiero popolare sulla crociata, attraverso i pellegrinaggi, la poesia e il culto dei santi militari.

Viene elaborata una spiritualità in cui Gerusalemme, la croce, e le virtù di penitenza e di povertà hanno un ruolo fondamentale.

Il mito della croce si impadronisce dell’anima collettiva della Cristianità. Fondamentale il ruolo di Cluny e della Cavalleria. Motivazioni più spirituali e ideali che economiche, a differenza di quanto sostenuto da molti storiografi. Certo le Repubbliche marinare, e soprattutto Genova e Venezia, lucrarono molto sulle crociate e ne ebbero benefici economici duraturi. Ma questo non è l’elemento principale in gioco.

Torniamo dunque all’accezione “idealizzata” della Cavalleria. Il mondo arturiano è rappresentato, essenzialmente, come una società di Cavalieri. Uniti da una solidarietà materiale e spirituale intorno al Re, costituiscono una sorta di ordine militare.

Il loro itinerario esistenziale si articola sul tracciato delle partenze e dei ritorni in rapporto a un centro, la corte reale. I cavalieri del romanzo cortese nascono da un’idealizzazione della figura del guerriero feudale che si produsse nella seconda metà del XII secolo.

Abbiamo la raffigurazione di modelli compiuti di comportamento cavalleresco, ai quali sono sollecitati ad adeguarsi i numerosi avventurieri senza terra che girano di torneo in torneo alla ricerca del colpo di fortuna.

Stimolato dalle quattro virtù della prudenza, della giustizia, della saldezza e della temperanza, il cavaliere arturiano è impegnato con fedeltà nella protezione dell’ordine sociale. Questa mansione si esplica nella salvaguardia dei deboli e degli indifesi.

La superiorità del Cavaliere come restauratore della norma poggia sul possesso del cavallo, garanzia di uno status socio-economico, e delle armi del guerriero, usate in modi complessi e codificati.

In effetti, la ritualità presiede alla persona e all’azione intera del Cavaliere, dall’investitura con la spada battuta sulla spalla ai frequenti duelli e tornei minuziosamente regolamentati, all’uso della lancia che un vero Cavaliere non scaglierà mai come un giavellotto contro il nemico, ma terrà saldamente in linea orizzontale per colpire l’avversario nel torneo.

Se si leggono alcuni celebri romanzi, tra i quali il più famoso è Ivanhoe di Walter Scott, troveremo, accanto ai Cavalieri normali, anche la figura del monaco-guerriero. Quasi sempre – e non certo a caso – si tratta di un Templare, che partecipa ai tornei e viene temuto per la sua maestria nell’uso del cavallo e delle armi.

Un Templare di questo tipo figura proprio in Ivanhoe, connotato però in senso negativo: sta con i “cattivi”. L’esercizio della Cavalleria si compone di elementi di varia provenienza, laici e religiosi. Per esempio, graziare l’avversario che si arrende, se da un lato risponde a una morale utilitaristica - un nemico vinto e risparmiato può diventare un fedele alleato - dall’altro riflette l’influenza della Chiesa.

Si deve inoltre tener conto dell’apporto decisivo della cultura cortese, che umanizza la figura del guerriero per quel sentimento d’amore che spesso è alle origini delle sue imprese belliche.

Intreccio, insomma, tra amore e Cavalleria. Tuttavia il servizio alla dama e al sovrano vede la propria funzionalità ideologica andar man mano cedendo rispetto all’impegno trascendente volto alla ricerca spasmodica del Santo Graal.

La Cavalleria come collettività diviene uno strumento della materializzazione su questa terra del messaggio divino. E il Cavaliere destinato a dare compimento al mistero del Graal deve essere puro e casto, la sua essenza è racchiusa nella figura di Galaad.

Nel ciclo arturiano, Galaad è il Cavaliere da tutti atteso, l’Eletto, il novello Messia destinato a dare compimento a quell’avventura del Graal preconizzata fin dai tempi di Giuseppe di Arimatea. In Galaad si configura il Cavaliere Celeste, delineato da Bernardo di Chiaravalle nel sermone De laude novae militiae del 1136, che celebrava l’appena costituito Ordine dei Templari di Gerusalemme.

Un cavaliere che è al contempo monaco e soldato, difeso da un doppio usbergo di fede e di ferro, eletto da Dio, casto e moralmente integro. Tale è Galaad, personaggio senza chiaroscuri, alieno da esitazioni e debolezze. Proteso a perseguire la missione riservatagli dall’alto, bello nel corpo, candido nell’anima, saldo nel braccio.

Del tutto diversa la figura del più famoso Lancillotto del Lago. Cavaliere supremo, il migliore di tutti, che tuttavia non può aspirare a raggiungere il Graal perché schiavo delle passioni terrene e, soprattutto, della carne.

Con Galaad il tema del Graal si associa a quello della Cavalleria Celeste, che aveva avuto il suo germe nel pensiero di San Bernardo di Chiaravalle.

La tradizione vuole che il Graal, una volta ritrovato e svelato il suo segreto, venga tratto in cielo da una mano da lì protesa. Forse un giorno tornerà a essere visto sulla terra.

E Merlino istituisce la Tavola Rotonda al fine di formare una rinnovata cavalleria cristiana. Profetizza i misteri del Graal. Merlino è il profeta dell’avventura suprema, il demiurgo storico della nuova Cavalleria, di cui regge le fila in virtù della sua preveggenza. A queste doti è subalterna la sua sapienza magica, al servizio delle benefiche imprese dei cavalieri.

È utile riflettere sul fatto che Merlino è una sorta di archetipo. E’ il modello cui si rifanno, in misura più o meno fedele, il Gandalf del ciclo di Tolkien, Il Signore degli Anelli, e il druido Allanon, mistico, storico e filosofo, grande protagonista dell’epopea di Terry Brooks, La spada di Shannara. Ma elementi di Merlino si ritrovano anche in Yoda, il Maestro Jedi del ciclo di Guerre Stellari.

E non è affatto strano, se ripensiamo a quanto detto in precedenza. I Cavalieri Jedi del ciclo di George Lucas altro non sono che una rivisitazione, tecnologicamente aggiornata, dei Cavalieri medievali, e soprattutto di quelli inquadrati negli Ordini Cavallereschi.

Proprio come loro rappresentano un ordine chiuso, al quale si accede solo dopo un durissimo noviziato di ordine sia spirituale che guerresco. In tutti questi casi, associato al druido che domina le forze della magia, troviamo la figura del Cavaliere buono che lotta per il Bene, e del Cavaliere malvagio che sta dalla parte del Male. Entrambi, se vogliamo, “guerrieri dello spirito”.

 

 

 

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