Scienza e relativismo dei concetti
Il relativismo concettuale afferma che vi possono essere differenze incommensurabili tra i nostri concetti e quelli utilizzati dai membri di altre società, e che inoltre non vi sono criteri razionali per giudicare validi gli uni piuttosto che gli altri. Possiamo formulare tale posizione in questi termini: 1) Culture diverse impiegano schemi concettuali radicalmente diversi per definire ciò che esiste nel mondo, per determinare come oggetti ed eventi sono organizzati nel tempo e nello spazio, e quali tipi di relazioni vi sono tra le cose. 2) Non è possibile fornire motivi razionali per concludere che uno degli schemi concettuali tra loro in competizione riflette meglio di un altro la realtà. La prima tesi seleziona le assunzioni di fondo degli individui che appartengono a un certo gruppo a proposito del mondo circostante. Basandoci sulla visione del mondo della scienza occidentale, noi identifichiamo oggetti dotati di proprietà causali, collocati nello spazio e nel tempo; ciò ci porta a concludere che ogni evento ha una causa. Tuttavia i relativisti culturali sostengono che questo è soltanto uno tra molti schemi concettuali possibili, e che, inoltre, la varietà delle alternative si può constatare attraverso lo studio delle culture non occidentali. Possiamo cominciare la discussione di questa tesi menzionando l’ipotesi di Whorf. Benjamin Whorf negli anni ’30 del secolo scorso studiò in modo intensivo la lingua degli Hopi. Dalle sue ricerche egli trae la conclusione che le concezioni Hopi dello spazio, del tempo, della causalità e di altre categorie metafisiche fondamentali sembrano radicalmente differenti da quelle in uso nelle lingue e nelle società occidentali. Com’è noto, Kant affermava nel XVIII secolo che l’intero pensiero razionale dipende dall’esistenza di un insieme di concetti universali (trans-culturali) mediante i quali l’individuo analizza il mondo empirico; “oggetto fisico”, “spazio”, “tempo” e “causalità” sono alcune delle idee che Kant riteneva fondamentali e universali, cioè valide per ogni uomo in quanto tale. Whorf, al contrario, sostiene che lo schema concettuale Hopi è radicalmente diverso da quello kantiano, a sua volta basato sulla fisica newtoniana e sulla geometria euclidea.
Egli scrive, infatti, che il linguaggio Hopi non sembra includere parole, forme grammaticali o espressioni linguistiche che si riferiscano direttamente a ciò che noi chiamiamo “tempo”, né a passato, presente e futuro, o al concetto di “durata” e di permanenza temporale. Eppure tale linguaggio è in grado, da un lato, di spiegare e, dall’altro, di descrivere in maniera corretta tutti i fenomeni osservabili dell’universo. Risulta dunque inevitabile concludere a suo avviso che le varie culture incorporano schemi concettuali del tutto differenti, dal che segue che esse categorizzano il mondo in modi radicalmente diversi. La caratterizzazione che Whorf fornisce del linguaggio Hopi rappresenta una versione particolarmente forte del relativismo concettuale, ma alcuni antropologi dei giorni nostri ne hanno ulteriormente accentuato alcuni punti. Prendendo per esempio in considerazione linguaggio e visione del mondo degli indiani Navajo, si sostiene che vi sono profonde differenze tra il loro modo di dividere il mondo in oggetti e quello nostro (occidentale), e che occorre un’approfondita indagine etnografica per scoprire lo schema concettuale Navajo. Ancora una volta il risultato è che le culture non occidentali possiedono schemi concettuali diversi per analizzare e categorizzare la realtà quotidiana, mentre - e questo è il fatto che più interessa - sarebbe difficile o addirittura impossibile tradurre tali schemi entro la visione del mondo scientifica che noi adottiamo. Il linguaggio Navajo, sostengono alcuni antropologi, presuppone uno schema concettuale organizzato intorno a un dualismo di forme dinamiche (attive) e statiche, e la classificazione Navajo delle cose (animali, oggetti naturali, etc.) riflette tale dualismo. Il concetto di “controllo” svolge in questo caso un ruolo centrale: gli oggetti vengono ordinati secondo una certa gerarchia ascendente che stabilisce quali tipi di cose ne controllano o influenzano altre. Ad esempio, l’analisi della sintassi e della semantica del linguaggio Navajo dimostrerebbe che in quel contesto un enunciato come “Il cavallo fu preso a calci da un mulo” rispetta le regole della grammatica ed è accettabile, mentre “l’uomo fu preso a calci da un cavallo” non lo è, e provoca ilarità quando viene pronunciato. Tale asimmetria si spiegherebbe col fatto che nella visione del mondo Navajo cavalli e muli sono sullo stesso piano per quanto riguarda le loro capacità attive di controllo, mentre i cavalli sono inferiori agli uomini da questo punto di vista. Non si può quindi invertire la gerarchia attribuendo al cavallo una qualsiasi capacità di controllo sull’uomo. Il relativismo concettuale fa spesso perno sulla nozione kuhniana di incommensurabilità, affermando in sintonia con l’ipotesi di Whorf che differenti culture possono avere schemi concettuali distinti e incommensurabili. L’idea di base è che due schemi concettuali sono incommensurabili se risulta impossibile stabilire l’equivalenza di definizione tra concetti individuali appartenenti ai due schemi. Supponiamo che due individui stiano conversando mentre passeggiano in un bosco, e che dalla loro conversazione emerga il fatto che il primo interlocutore possiede uno schema concettuale più raffinato di quello del secondo: il primo parla di pini, abeti e faggi dove il secondo vede soltanto alberi; il primo distingue le lepri dagli scoiattoli, mentre il secondo vede solo piccoli animali. Questi due schemi sono certamente distinti ma non incommensurabili, poiché è possibile stabilire delle equivalenze tra i loro termini. Così il concetto di “albero” equivale all’unione dei concetti di “pino”, “abete”, “faggio”, etc. Dobbiamo insomma paragonare il modo di dividere il mondo in oggetti; nel caso appena menzionato i due individui identificano le stesse entità - alberi e animali - ma utilizzano categorie di diversa estensione per classificarle. Si può pertanto procedere ad una sorta di sovrapposizione delle due strutture: tutto ciò che è un “albero” in uno schema è un pino, un abete o un faggio nell’altro, e lo stesso dicasi per tutti gli altri concetti. Cos’è, allora, l’incommensurabilità concettuale completa? Ne parla Thomas Kuhn in La struttura delle rivoluzioni scientifiche. A suo avviso è possibile parlare di incommensurabilità totale dei concetti appartenenti a diversi paradigmi scientifici; questi ultimi incorporano visioni del mondo complessive, ognuna dotata di categorie proprie, e paradigmi alternativi costituiscono sistemi di concetti e credenze che non possono essere tradotti gli uni nei termini degli altri. I significati dei termini teorici, le interpretazioni dei dati empirici e i criteri di inferenza risultano pertanto incommensurabili quando si passa da un paradigma a un altro. Anche se la fisica classica e quella relativistica sembrano riferirsi allo stesso termine di “massa”, in realtà il significato di tale termine nei due sistemi sono radicalmente differenti e reciprocamente incomprensibili. Simili argomenti spiegano lo scetticismo di Kuhn circa l’esistenza di un unico metodo scientifico; se una disputa teorica non può essere espressa in un linguaggio che sia comprensibile per entrambi gli interlocutori, chiaramente non v’è modo di risolvere logicamente eventuali dispute. Un altro importante argomento a favore dell’incommensurabilità è stato proposto da Quine, che prende in considerazione la possibilità di tradurre un linguaggio in un altro (in questo caso si tratta non più del linguaggio scientifico, ma di quello ordinario). Secondo la tesi quineana della “indeterminazione della traduzione”, non vi sono criteri inalterabili che possano consentirci di giudicare in maniera neutrale la correttezza dell’equivalenza tra enunciati quando traduciamo da una lingua a un’altra; ne consegue che “Manuali per tradurre una lingua in un’altra possono essere composti in modi divergenti, tutti compatibili con la totalità delle disposizioni verbali, eppure incompatibili fra di loro. In innumerevoli punti essi divergeranno nel fornire, come loro rispettive traduzioni di un enunciato di una lingua, enunciati dell’altra fra i quali non sussiste alcuna sorta plausibile di equivalenza, per quanto ampia”. Dunque per ogni coppia di linguaggi vi sono schemi alternativi di traduzione che sono egualmente coerenti rispetto all’evidenza empirica disponibile, ma non equivalenti. E, se la traduzione dal nostro linguaggio a un altro è indeterminata, allora non possediamo criteri assoluti per preferire un’alternativa alle altre. Ecco quindi l’idea più importante che risulta implicita nella nozione di schemi concettuali incommensurabili. Due culture possono avere maniere radicalmente incommensurabili di categorizzare il mondo, cioè di determinare quali tipi di cose esistono, come gli oggetti possono essere distinti, qual è la struttura di spazio e tempo; eppure può risultare impossibile scoprire tali differenze mediante la ricerca etnografica e antropologica. Se tuttavia esaminiamo con attenzione i vari argomenti disponibili, ci accorgiamo ben presto che le tesi a favore del relativismo concettuale radicale sono sostanzialmente di due tipi: (1) Vi sono parecchi argomenti a priori (e quindi astratti) - avanzati da filosofi - i quali affermano la possibilità logica che differenti comunità linguistiche utilizzino schemi concettuali incommensurabili. La tesi di Quine e quella di Kuhn rientrano ovviamente in questa tipologia. (2) Gli argomenti classificabili nel secondo gruppo sono invece a posteriori (ed hanno quindi carattere empirico o concreto). Si tratta di tesi, sostenute in particolare da scienziati sociali come antropologi o linguisti, le quali affermano che gruppi socio-linguistici ben determinati (e quindi realmente esistenti) utilizzano de facto (e non solo a livello teorico) schemi concettuali incommensurabili rispetto al nostro, identificato con la visione del mondo fornita in larga misura dalla scienza occidentale. Tutto ciò riveste grande importanza ai fini del nostro discorso. (1) e (2), infatti, non vengono di solito distinti con chiarezza, e molti autori tendono addirittura a confonderli, mentre è ovvio che la forza delle due tipologie appena menzionate è assai diversa. È praticamente impossibile contestare la possibilità a priori che esistano schemi concettuali radicalmente diversi. Trattandosi di una possibilità logica, non v’è nulla di incoerente nelle argomentazioni a suo favore, e il semplice ricorso agli esperimenti mentali ci convince di questo. D’altro canto, è un mero dato di fatto che tutti i tentativi empirici di identificare schemi concettuali realmente esistenti che risultino “completamente” incommensurabili rispetto al nostro sono falliti. Si sono soltanto trovati casi di incommensurabilità “parziale”, e questo porta a concludere che la tesi del relativismo concettuale radicale è sì coerente dal punto di vista logico, ma anche falsa quando venga riferita a culture umane realmente esistenti. Si noti comunque che, anche da un punto di vista puramente filosofico, la nozione di schemi concettuali incommensurabili presta il fianco a serie obiezioni. Si può ad esempio affermare che l’incommensurabilità radicale è insostenibile perché rende inintelligibile il proposito della traduzione inter-comunitaria. Le argomentazioni a favore del relativismo concettuale debbono per forza rinunciare alla nozione di verità adottando quelle di “verità-per-il-nostro gruppo” e di “verità-per-il-loro gruppo”. Tuttavia si può osservare che la possibilità stessa della traduzione dipende dalla disponibilità di condizioni di verità inter-culturali nei cui termini le coppie di enunciati di due lingue risultino effettivamente comparabili. Ne risulta che, rinunciando alla nozione di verità, siamo obbligati pure a rinunciare alla possibilità di tradurre da uno schema all’altro. In questo modo gli schemi concettuali diventano una versione modernizzata delle monadi di Leibniz che, com’è noto, non hanno porte né finestre.
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