Il tecnicismo in filosofia
Succede, in filosofia come altrove, di osservare studiosi in grado di sviluppare una grande abilità nell’analizzare le singole foglie e di smarrire al contempo la corrispondente capacità di vedere gli alberi e le foreste di cui le singole foglie fanno parte. Buona parte della corrente analitica, per esempio, ha deliberatamente scelto di essere frammentaria e, di conseguenza, si è impantanata sempre più in argomenti di scarsa importanza. Al sempre maggiore approfondimento dei dettagli, e al crescente virtuosismo acquisito nella pratica dell’analizzare, si è accompagnato un progressivo distacco dai fini originari dell’analisi. Si sono analizzati tutti i “se”, i “ma” e i “però”. Secondo J.L. Austin, un esame di questo tipo avrebbe dovuto fornire gli strumenti per pervenire a una corretta comprensione della morale. Tuttavia il numero davvero enorme di analisi dei concetti morali non ha consentito di indagare la sfera della moralità sotto una nuova luce. Al contrario (anche se in modo inconsapevole), questo preciso esame analitico degli enunciati dell’etica ha originato un diffuso relativismo morale, cui è ben presto seguito il nichilismo etico.
La preoccupazione esclusiva per l’indagine semantica e logica ha causato un vuoto morale in cui relativismo e nichilismo si sono insinuati in modo del tutto naturale. I filosofi analitici si vantano di essere precisi e razionali, ma la loro razionalità è piuttosto limitata. Più che di razionalità in quanto tale, si può parlare di una forma di adulazione per le caratteristiche astratte dell’etica, della fisica e della logica formale. Talvolta questa razionalità si riduce alla semplice applicazione dei criteri logico-formali. Non si tratta, pertanto, della razionalità intesa in senso globale, e cioè come uso della ragione per giungere a conclusioni illuminanti, ma di una ricerca ristretta e dominata dai criteri della ideologia scientifica. Come quasi sempre accade ai movimenti filosofici, le novità introdotte si sono man mano inaridite, e i discepoli dei fondatori hanno finito col dar vita a una sorta di “scolastica” (termine che qui assumo nella sua valenza ripetitiva, acritica e infeconda), più attenta alla cura ossessiva del dettaglio che al chiarimento filosofico dei problemi. Lo stesso tecnicismo logico, che inizialmente era stato introdotto con ben precisi intenti di chiarificazione linguistica, si è col tempo trasformato in una sorta di virtuosismo fine a se stesso, che può bensì portare a risultati brillanti dal punto di vista formale, senza tuttavia incidere sul versante teoretico il quale resta il tratto caratterizzante della riflessione in filosofia. Stranamente, proprio le correnti di pensiero che più avevano insistito sulla ricerca del significato hanno contribuito in modo essenziale a quello smarrimento di senso che attraversa la filosofia dei nostri giorni. Molto spesso, leggere i saggi prodotti dai filosofi di tendenza analitica e dagli epigoni del neopositivismo logico equivale a tuffarsi in un mondo artificiale, più intento a seguire le proprie regole di coerenza interna che impegnato a fornire delle chiavi per interpretare la realtà circostante. Ed è superfluo notare che ben diversa è l'impressione che si ricava leggendo le opere di Moore, Austin, Wittgenstein, Carnap e di altri classici dell’analisi. Anche il mito dell’esattezza, così caro agli esponenti delle scuole di pensiero di cui sto parlando, si è rivelato un’arma a doppio taglio. Poiché esso può senza dubbio essere perseguito, e con ragione, in ambito logico. Ma la filosofia non è la logica, e il discorso filosofico deve essere distinto da quello logico, se non altro per il fatto che, dal filosofo, la società di solito si attende proprio quel “conferimento di senso” alla realtà che la logica, per la sua stessa natura, non può fornire. L’analisi logico-linguistica dei problemi filosofici può tutt’al più aiutarci metodologicamente, facendo comprendere che, a volte, l’uso improprio del linguaggio dà vita a problemi che non hanno ragione di sussistere. Ma sarà invece di scarso ausilio nella ricerca riguardante i fini delle azioni umane o il significato della presenza dell’uomo nel mondo. Prima parlavo di “ideologia scientifica”. Ebbene, anche in questo caso la filosofia analitica, e soprattutto il neopositivismo logico, hanno creato e diffuso una serie di miti che per molti decenni hanno dominato la filosofia, miti sostenuti in modo acritico e responsabili del progressivo isterilimento della filosofia della scienza. Si pensi, per esempio, al vasto campo d’indagine offerto dalle scienze umane e storico-sociali. Un grande economista molto interessato all’indagine epistemologica della sua disciplina, Friedrich von Hayek, aveva già compreso negli anni ’40 del secolo scorso che gran parte dei problemi che affliggono le scienze sociali è dovuta all’insensata ambizione di imitare le scienze naturali, adattando i loro metodi a un ambito che deve invece essere indagato con strumenti diversi e specifici. Nel polemizzare con lo “scientismo ingenuo”, von Hayek rilevò che i metodi che i filosofi affascinati dalle scienze naturali hanno cercato di imporre alle discipline storico-sociali non sempre erano quelli che gli scienziati di fatto seguivano nelle loro ricerche, ma piuttosto quelli che essi (i filosofi) ritenevano che gli scienziati impiegassero. E le due cose, ovviamente, non sono affatto identiche. Si tratta, in effetti, di una fedele fotografia della crisi che negli ultimi decenni ha investito la filosofia della scienza. A partire dai tempi del Circolo di Vienna, i neopositivisti logici hanno creato una complessa struttura destinata, nelle loro intenzioni, a svelare i meccanismi di un metodo scientifico concepito su basi unitarie. Il fatto è che gli stessi fisici hanno notato che una simile impresa è quanto mai aleatoria, non esistendo “il” metodo scientifico di cui parlano i neopositivisti. Ogni filosofia è basata su qualche mito, dove con il termine “mito” s’intende un modo generale di vedere il mondo in un certo periodo storico. Il mito della filosofia analitica è per l’appunto quello dell’esattezza, il che significa mettere assieme logica e linguaggio. I filosofi analitici credono che utilizzando gli strumenti della logica formale e un linguaggio opportunamente raffinato sia possibile formulare propriamente i problemi filosofici e, di conseguenza, risolverli in modo soddisfacente. Seguendo una simile strategia, dovrebbe essere possibile - a loro avviso – approdare a un mondo razionale in cui la perspicuità offerta dai nostri strumenti di comprensione costituisce una guida sicura per tutti i percorsi cognitivi, ivi inclusi quelli che ci conducono nelle sfere dell’etica e dei problemi sociali. Accettando in modo acritico le idee dominanti del nostro tempo, così come sono state formulate dai protagonisti dello sviluppo scientifico, la filosofia analitica ha tentato di ri-costruire tutta la filosofia a immagine della scienza. Di conseguenza, essa ha condiviso con la cultura scientifica l’avversione di fondo per i cosiddetti pregiudizi antiscientifici e per gli inganni della metafisica (con i quali, spesso, si intendono semplicemente le speculazioni non-empiriche); si è fatta completamente conquistare dall’esigenza dell’esattezza, al punto di farne un feticcio. Pertanto le tendenze minimaliste della filosofia analitica, la sua diffidenza nei confronti della speculazione sintetica, il suo razionalismo a una sola dimensione, la sua preoccupazione ossessiva per le questioni metodologiche, altro non sono che manifestazioni del particolare carattere di questa mentalità. Come notava von Hayek, i filosofi analitici e i neopositivisti logici si richiamano continuamente alla scienza, ma a una scienza che ha a che fare più con le loro speculazioni astratte che con la ricerca effettivamente condotta dagli scienziati di professione. E tutto ciò porta a un atteggiamento che, paradossalmente, si rivela anti-scientifico, in quanto comporta l’applicazione meccanica e acritica di particolari modi di pensare a campi diversi da quelli in cui essi si sono formati. C’è infatti una differenza fondamentale tra punto di vista scientifico e punto di vista scientistico; quest’ultimo è viziato da un pregiudizio di fondo in quanto, prima ancora di aver considerato il proprio oggetto di studio, pretende di conoscere il modo più adatto per investigarlo. Mette comunque conto sottolineare che i precedenti rilievi critici non intendono affatto negare i grandi meriti del neopositivismo logico e della tradizione analitica, primo fra tutti quello di aver finalmente costretto i filosofi a prendere seriamente in considerazione i problemi posti dallo sviluppo scientifico degli ultimi secoli. In ambito analitico si parla spesso di “apparato concettuale” e di “visione del mondo”, ma queste espressioni assumono un senso ben diverso da quello filosofico tradizionale. L’apparato concettuale è linguaggio, e la visione del mondo lo è parimenti. La possibilità che esista un mondo circostante indipendente dal nostro linguaggio ha poca importanza, nè si pensa all’ipotesi che il linguaggio stesso sia semplicemente un mezzo di comunicazione sociale, nato da un lungo processo di stratificazioni storiche e creato proprio per consentirci di parlare della realtà che ci circonda. Per dirla in termini schematici, i progressi della scienza ci hanno fatto capire che l’uomo è soltanto una parte del mondo. La realtà circostante esisteva da miliardi di anni prima che gli esseri umani facessero la propria comparsa, ed è logico pensare che essa continuerebbe a sussistere qualora l’umanità - per un motivo qualsiasi - dovesse scomparire dalla faccia della Terra. L’evoluzione della cultura umana, inclusa quindi la filosofia, è caratterizzata dalla crescente comprensione da parte dell’uomo della realtà nella quale si trova inserito, e a tale comprensione ha fornito un contributo davvero decisivo la scienza; di qui l'importanza sempre maggiore che la scienza stessa, come oggetto d’indagine filosofica, ha assunto in epoca moderna e contemporanea. Si rammentino, a tale proposito, i rilievi critici che Karl Popper rivolge agli analisti del linguaggio nella Prefazione alla prima edizione inglese della sua celebre opera Logica della scoperta scientifica. Anche il linguaggio, dunque, può e deve essere oggetto d’indagine filosofica, ove si rammenti che esso è soltanto una delle molte creazioni umane. Altri, invece, hanno dato vita a una corrente di pensiero che, partendo dall’accento posto sulla funzione conoscitiva del linguaggio, è giunta a una sua assolutizzazione. La realtà circostante recede sullo sfondo e viene man mano annullata, mentre il linguaggio acquista la funzione impropria di giudice della stessa realtà. Non è il linguaggio che dipende dalla realtà, ma viceversa: non è l’uomo a dipendere dalla realtà essendone parte costitutiva, ma è la realtà a dipendere dall’uomo. Il linguaggio, così inteso, assume le sembianze di una struttura astratta che possiede, al contempo, gli attributi dell’arbitrarietà e dell’assolutezza. Vive una propria vita autonoma, che poco ha a che fare con l’uomo concepito come animale sociale, come soggetto della storia. Ritenere che il linguaggio, scelto in modo arbitrario, determini la visione del mondo che a sua volta è un prodotto dell’apparato concettuale, significa rinunciare a una realtà circostante in grado di fungere quale garanzia di oggettività e, quindi, di “comunicabilità” fra gli esseri umani. Il mondo, in altri termini, diventa un “qualcosa” che il nostro apparato concettuale può modificare a piacimento e, stando così le cose, l’intraducibilità di due linguaggi che afferiscono a diversi apparati concettuali diventa piuttosto ovvia. L’unico punto fermo resta, pertanto, il linguaggio. Ma si deve pure notare che non si tratta del linguaggio inteso come insieme di pratiche sociali alla maniera del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, e nemmeno di uno strumento di comunicazione cresciuto storicamente nel tempo, bensì di una struttura altamente idealizzata, una sorta di “linguaggio ideale”. Il problema risiede nel fatto che spesso si tratta il linguaggio in questo modo anche parlando della lingua usata concretamente dagli uomini nella vita quotidiana. La dimensione eminentemente sociale del linguaggio sfugge: il che è giustificabile per un logico matematico, ma non per un filosofo che intende enucleare le regole generali che determinano il funzionamento del linguaggio inteso globalmente (e, quindi, anche nella sua dimensione ordinaria). Molti pensatori di tendenza analitica tendono a respingere questo tipo di obiezioni come irrilevanti, al che si può rispondere: che senso ha concepire un fatto sociale come il linguaggio quasi fosse una sorta di divinità, in grado di determinare in modo univoco la nostra visione del mondo? A mio avviso è giusto attribuire a questi rilievi il peso che meritano. |
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