Le “immagini del mondo” di Wilfrid Sellars
Il pensiero di Wilfrid Sellars rappresenta il punto più alto raggiunto dalla filosofia del secolo scorso nella riflessione sui rapporti tra scienza e senso comune. Al centro della sua attenzione troviamo la difficoltà di raccordare l’immagine dell’uomo e del mondo proposta dalla scienza contemporanea (e in particolare dalla fisica teorica), con quella che egli definisce l’immagine “manifesta”, vale a dire la concezione spontanea di noi stessi in quanto esseri che hanno costantemente a che fare con intenzioni, credenze, significati, colori, e altre componenti apparentemente ineliminabili del mondo umano. In questo senso, l’immagine manifesta rappresenta il modo comune di pensare a noi stessi come enti inseriti nella realtà, come persone che possono percepire e agire, tra altre persone simili che condividono uno spazio formato da oggetti colorati e dotati di dimensioni. A differenza di altri filosofi contemporanei, Sellars ritiene che la suddetta immagine manifesta sia in contrasto con quella scientifica, secondo la quale il mondo si può realmente conoscere soltanto studiando il comportamento degli insiemi di particelle elementari “postulate” dalla scienza moderna e contemporanea.
Esiste a suo avviso una “filosofia perenne” - da Platone ai giorni nostri - che accetta la “realtà” dell’immagine manifesta. Ma Sellars ritiene fondamentale il problema di riconciliare le sue affermazioni con quelle dell’immagine scientifica la quale - egli sostiene parafrasando Aristotele - è in realtà l’arbitro “di ciò che è, in quanto è, e di ciò che non è, in quanto non è”. Sellars tratteggia l’immagine “manifesta” affermando che la transizione dagli schemi pre-concettuali di comportamento al pensiero propriamente concettuale ha avuto un carattere olistico, una sorta di “salto” (jump) che ha determinato l’avvento dell’uomo. Si noti che egli parla non di uomo tout court, ma di “uomo-nel-mondo”, lasciando intendere che di “umanità” non si può parlare a proposito degli esseri pre-umani (o quasi-umani) che vivevano prima del salto olistico cui dianzi si accennava. L’espressione “uomo-nel-mondo” sta a significare “uomo in grado di pensare al mondo e di parlare del mondo”, oppure “uomo in grado di comprendere che egli abita uno spazio condiviso”, in maniera non dissimile da quanto avviene nella successiva riflessione di Donald Davidson. Secondo tale quadro tutti i grandi sistemi speculativi della filosofia antica, medievale e moderna sono stati costruiti proprio partendo dal presupposto della veridicità dell’immagine manifesta dell’uomo-nel-mondo. Quanto al secondo tipo di cornice concettuale sopra menzionata - quella scientifica - Sellars ammette che si tratta di un’idealizzazione, poiché vi sono tante immagini scientifiche dell’uomo quante sono le scienze. Ciò nonostante, egli ritiene che esista la immagine scientifica che si può derivare dalle molte attualmente proposte. E si deve inoltre notare che una tipica immagine teorica come quella scientifica rappresenta una costruzione i cui fondamenti sono pur sempre forniti dall’immagine manifesta. Per dirla in termini più semplici: è pur sempre il senso comune a costituire il fondamento su cui può nascere e svilupparsi la scienza. Ciò significa ammettere un fatto di per sé innegabile: l’immagine manifesta è prioritaria, almeno in senso metodologico, rispetto a qualsiasi costruzione teorica. Ora, Sellars è dell’avviso che ai nostri giorni le due immagini avanzino pretese contrastanti circa la rappresentazione vera e completa dell’uomo-nel-mondo, dal che consegue la necessità che la filosofia prenda in considerazione tali pretese per valutarne la validità. La conclusione del pensatore americano è che il dualismo delle immagini debba essere trasceso (anche se solo sul piano ideale). Si deve tuttavia rilevare un altro fatto che è importantissimo ai nostri fini. Come ho detto poco sopra, Sellars è realmente convinto che l’immagine scientifica, e quindi la scienza stessa, sia il giudice finale della verità. In altri termini, è alla scienza che dobbiamo rivolgerci se desideriamo sapere come il mondo effettivamente è, ed è sempre ad essa che spetta il compito fondamentale di verificare la validità dei nostri impegni ontologici (nel senso attribuito da Quine a tale espressione). Ma non per questo egli è incline a svalutare il senso comune. In altre parole, siamo di fronte ad una distinzione tra “la” verità e “le” verità oppure, se si preferisce, a quella tra verità “relativa” e “assoluta”. Sellars infatti, pur essendo come si è detto convinto che alla scienza spetta la determinazione della verità tout court, ammette senza esitazioni la presenza di verità (al plurale) che, per quanto di portata più limitata, non si possono tuttavia eliminare a cuor leggero. In particolare, poiché attualmente la nostra vita si svolge lungo i binari tracciati dall’immagine manifesta, ed avendo tale immagine uno statuto ontologico che trascende il pensiero dei singoli individui, è ovvio che essa risulti vera-per-noi. Come direbbe Davidson, questa immagine è condivisa, ed è proprio essa a farci capire che abitiamo un mondo comune a noi e ai nostri simili. Se le cose stanno così, allora è evidente che esiste una verità-relativa-all’immagine-manifesta, ed è pure evidente che verità ed errore sono presenti in essa. Esiste, insomma, correttezza e non-correttezza all’interno di questa immagine, dal che consegue la pericolosità di negare in maniera radicale la validità del senso comune. Anche se in ultima analisi l’immagine del senso comune nel suo complesso dovesse rivelarsi falsa, poiché per esempio non riflette la struttura della realtà, liberarci della descrizione che essa ci fornisce può risultare assai difficile (o addirittura impossibile) poiché è al suo interno che l’uomo ha preso coscienza di se stesso come “uomo-nel-mondo”. Ovviamente, per quanto idealizzata sia la immagine scientifica che Sellars ha in mente, resta il problema di capire di quale immagine scientifica egli stia parlando. A differenza dei neopositivisti, egli in realtà prende in considerazione la storia, ma lo fa soltanto in misura limitata. In altri termini, dalla lettura dei suoi scritti si ricava spesso l’impressione che la ricerca scientifica possa davvero raggiungere la fase finale, e non occorre certo rammentare quanto impopolare risulti questa tesi ai nostri giorni. Per illuminare meglio il palcoscenico sul quale le due immagini si collocano, si deve notare che non si può concludere che gli enunciati scientifici ci forniscono una caratterizzazione oggettiva della realtà senza presumere in anticipo che essi sono sostanzialmente corretti. Tuttavia è pure arduo sostenere che disponiamo di una simile premessa relativamente alla scienza nel suo stato presente, ragion per cui, ancora una volta, altro non resta da fare che rivolgersi alla scienza ideale. Soltanto nel caso (poco realistico) del raggiungimento della perfezione possiamo senza problemi adottare una posizione di realismo forte, per cui il mondo è effettivamente come le nostre attuali teorie affermano che sia. Ecco quindi che questo tipo di “canonizzazione” delle teorie scientifiche, nettamente percepibile nelle parole di Sellars, richiede una fiducia ideale nella loro sostanziale correttezza. Si può anche concordare con il filosofo americano quando dice che gli oggetti da noi sperimentati sono “qualcosa” che non esiste in quanto tale, ma nel senso in cui esistono le proprietà secondarie di Locke. E’ chiaro però che abbiamo bisogno di una teoria in grado di spiegare perché la produzione causale degli oggetti-come-noi-li vediamo è sempre mediata dalla base neuro-fisiologica che sottende ogni schema concettuale; in questo caso possiamo sostenere che l’apparato concettuale gioca un ruolo assolutamente centrale in quella che egli definisce immagine “manifesta” del mondo. In Sellars, invece, la connessione tra immagine scientifica e manifesta rimane, tutto sommato, piuttosto misteriosa. Un rilievo finale. Mentre Sellars, almeno nella maggior parte delle sue opere, tratta la scienza come se fosse qualcosa di “neutrale” (e qui l’influenza dell’empirismo logico è ancora presente), risulta assai più plausibile parlarne come della nostra scienza. Essa è infatti sempre il risultato delle nostre indagini sulla natura, e ciò significa che siamo in presenza di un’interazione o transazione (nel senso attribuito da Dewey a tale termine) in cui la natura costituisce un polo e la nostra ricerca rappresenta l’altro. E’ più che pausibile pensare che degli esseri alieni interrogherebbero la natura in modi anche molto diversi dal nostro. Partendo da un modello interazionista, abbiamo buoni motivi per ritenere che le scienze di ipotetiche civiltà aliene presenterebbero al massimo delle vaghe somiglianze “di famiglia” con la nostra. Se le cose stanno così, la scienza non è affatto indipendente dagli scienziati che la praticano e dalle particolari procedure che essi adottano. La nostra visione scientifica del mondo si giustifica solo in maniera retrospettiva: in altre parole, essa ci fornisce gli elementi atti a convalidare i suoi stessi metodi. Proprio per questi motivi la visione del mondo che la scienza ci trasmette è tale da spiegare perché esseri come noi, che siamo situati nella realtà in un certo modo e facciamo ricerca utilizzando strumenti di un certo tipo, riusciamo ad elaborare un visione del mondo che tutto sommato funziona e ci consente di adattarci al meglio all’ambiente.
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