Su Russell e la matematica
Notava Alfred J. Ayer che, nonostante il suo platonismo logico-matematico, Bertrand Russell è una figura che si inserisce a pieno titolo nella tradizione dell’empirismo classico britannico; e, in effetti, la sua prossimità a Locke, Berkeley, Hume e John Stuart Mill è maggiore che non quella a pensatori neopositivisti e analitici quali Moore, Wittgenstein e Carnap. Russell sostiene che tutte le credenze debbono essere giustificate e, a suo avviso, asserire una proposizione significa accettare l’esistenza delle entità di cui la proposizione parla. Non possono esservi tavoli a meno che non vi siano oggetti fisici; perché certi numeri possano essere primi devono esserci dei numeri; se non vi fossero dei triangoli, non potrebbero esservi relazioni tra i quadrati delle loro ipotenuse e i quadrati dei loro cateti. Ma che si sia giustificati - e in quale senso lo si sia - a ritenere che vi sono oggetti fisici, o persone, o punti nello spazio, numeri, o triangoli euclidei, è per Russell una questione da dibattere filosoficamente. Come deve procedere il dibattito? La risposta russelliana a questa domanda risale a Descartes. Dobbiamo cominciare dagli elementi che sono meno soggetti al dubbio, e vedere in seguito cosa possiamo costruire a partire da essi.
Nel sistema di Russell gli elementi sono praticamente gli stessi che erano stati prescelti da Locke; così come Locke era partito dalle “idee semplici di sensazione” e dalle “idee semplici di riflessione”, Russell parte dal presupposto che conosciamo direttamente nella sensazione i dati dei sensi esterni, e attraverso l’introspezione i dati di ciò che potremmo chiamare i sensi interiori: pensieri, sentimenti, desideri, etc.; e proprio come Locke attribuisce agli esseri umani la capacità di formare idee astratte a partire dai materiali che vengono presentati nella sensazione o nella riflessione. Russell pensa inoltre che la nostra conoscenza diretta si estenda agli universali, come la bianchezza o la diversità, che sono esemplificati nella nostra esperienza, o che sono quanto meno analizzabili in termini che vengono esemplificati nella nostra esperienza. Come dice lo stesso Russell, “ogni enunciato completo deve contenere almeno una parola in rappresentanza di un universale, giacché tutti i verbi hanno un significato che è universale”. Questi universali sono qualità o relazioni, e noi arriviamo ai fatti di base sui quali è fondata tutta la nostra conoscenza empirica con il predicare in modo veritiero una qualità di un oggetto presentato, o una relazione tra due o più di tali oggetti. Già a questo primo stadio incontriamo problemi filosofici, come quello della effettiva composizione del dominio dei fatti di base, o quello del modo in cui li si deve interpretare. Qual è, ad esempio, lo statuto dei dati primitivi dei sensi? Sono privati o pubblici, mentali o fisici? Inoltre, Russell ha accettato la distinzione tra i particolari e gli universali, e quella tra le qualità e le relazioni. Alcuni filosofi hanno invece negato la realtà degli universali e altri hanno negato l’esistenza delle relazioni, trattando tutte le proposizioni come se avessero la forma soggetto-predicato. Per Russell, tuttavia, è evidente che una proposizione che asserisce una relazione tra due termini non può essere posta sullo stesso piano di una che implica l’esistenza di uno solo di essi, e ne conclude che alcune proposizioni sono irriducibilmente relazionali; ciò gli offre l’occasione per affermare che non vi sono mezzi validi per eliminare gli universali. D’altro canto, il concetto metafisico classico di “sostanza” lo insospettisce proprio come insospettiva Locke; tuttavia, mentre Locke ammetteva l’esistenza di un “qualcosa” che tenesse insieme le qualità, Russell alla fine si allinea alla posizione secondo cui i particolari possono venire sostituiti da complessi di qualità. Anche sulla questione concernente il dominio dei fatti di base, Russell ebbe opinioni differenti in momenti diversi. Quando scrisse I problemi della filosofia (1912), sosteneva che l’esercizio della memoria può permetterci una conoscenza diretta della nostra esperienza passata, ma in seguito, in L’analisi della mente (1921), affermò che ogni credenza fondata sulla memoria dev’essere inferenziale, e che è quindi incerta. Ancora, dopo aver sostenuto (pur con qualche esitazione) in I problemi della filosofia che si può aver conoscenza diretta del proprio sé, quanto meno come del possessore momentaneo delle esperienze che si hanno attualmente, Russell passa in un primo tempo alla tesi per cui si ha esperienza del proprio sé come di un’entità distinta dalle proprie esperienze, e non per conoscenza diretta, ma per descrizione; e per finire, in L’analisi della mente, decide che non c’è bisogno di considerare il sé come un’entità separata dalle sue esperienze, dato che lo si può costruire a partire da queste ultime. La stessa tendenza verso una maggior economia è rilevabile nel suo trattamento delle entità astratte. Vediamo infatti che il platonismo liberale dei Principi della matematica, in cui la realtà viene concessa a tutti gli oggetti di pensiero, si riduce progressivamente fino al punto in cui anche certe entità astratte, come le classi e le proposizioni, appaiono quali finzioni logiche, e ci rimangono soltanto gli universali. La ragione della fedeltà di Russell al “rasoio di Ockham” - il principio per cui le entità non debbono essere moltiplicate oltre il necessario - è che quante più sono le entità che si vogliono postulare, tanto maggiore è il rischio che si creda in qualcosa che non esiste. Una posizione di scetticismo completo non è a suo parere sostenibile per motivi pratici: non possiamo spogliarci di quelle che Hume definiva le nostre credenze naturali; ma possiamo riuscire a ri-formulare queste credenze in modo da aumentarne l’affidabilità senza impoverirne il contenuto in modo troppo drastico. Così, nel caso del proprio sé non si accetterà una teoria il cui esito è la negazione della propria esistenza (o anche soltanto un grave dubbio a questo proposito); ma se il sé può venir analizzato attraverso le sue esperienze, la credenza che si ha nella propria esistenza acquista una base più solida di quella che si ha qualora si identifichi il sé con qualcosa di dubbio quale la “sostanza spirituale”. Lo stesso principio di cautela guida l’estensione russelliana dei dati primari. Russell comprende che non si può avere alcuna immagine credibile del mondo utilizzando soltanto le proprie esperienze, anche se si aggiungono le informazioni della memoria a quelle della sensazione e dell’introspezione. La questione è, allora, come integrare questi materiali frammentari. Quando si va al di là di un dato insieme di elementi, si possono fare due tipi di inferenza. Le entità che vengono inferite possono essere della stessa specie delle entità dalle quali si era partiti, o di una specie diversa. Chiamiamo orizzontali le inferenze del primo tipo, e verticali quelle del secondo tipo. La tesi russelliana è che debbano venir sfruttate tutte le risorse del tipo orizzontale di inferenza prima di fare ricorso a quelle di tipo verticale. Egli cerca quindi di presentare gli oggetti fisici come composti di elementi che hanno lo stesso carattere dei dati di senso, e passa poi a concepirli come cause inosservate delle nostre percezioni soltanto quando avverte che il risultato della prima ipotesi non è scientificamente adeguato. Dunque l’analisi fine a se stessa non gli interessa. Per Russell essa coincide sempre con il processo opposto di costruzione, e quindi con un tentativo di dare maggiore sicurezza a credenze che altrimenti sarebbero problematiche. In poche parole, egli usa l’analisi come un metodo di giustificazione, e ciò autorizza a dire che, pur avendo avuto una profonda influenza sulla nascita della filosofia analitica del ’900, Russell non può tuttavia essere considerato un pensatore “analitico” a tutti gli effetti.
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