Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Wittgenstein e la matematica

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Com’è noto, Ludwig Wittgenstein fu sempre molto interessato allo status delle proposizioni matematiche.

Troviamo testimonianze di questo interesse sia nel primo dei suoi testi, il Tractatus logico-philosophicus, sia nelle opere del secondo periodo.

Come sempre accade nel caso del filosofo austriaco, tuttavia, egli non ci ha lasciato opere sistematiche a questo riguardo, e i suoi scritti pubblicati sono in realtà raccolte di note e appunti edite e ordinate da alcuni suoi allievi dopo la morte del maestro.

Due di tali raccolte, Lezioni sui fondamenti della matematica e Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, e in particolare la seconda, riguardano direttamente il nostro discorso.

Il carattere frammentario dei due volumi ne rende ovviamente difficile un’interpretazione perspicua, anche se è possibile estrapolare alcune tesi di fondo.

Wittgenstein parte dal progetto di Frege e di Russell di ridurre la matematica alla logica, cui egli stesso aveva aderito nel periodo del Tractatus, osservando che tale progetto si proponeva di fornire un sostegno sicuro alle nostre convinzioni matematiche.

La posizione del secondo Wittgenstein è che non c’è niente da guadagnare da una simile riduzione, per quanto interessante possa risultare il sistema logico prescelto per effettuarla.

La matematica non ha bisogno di alcuna fondazione perché essa è - al pari di ogni altra attività umana - un “gioco linguistico” (o una serie di giochi linguistici) che, in quanto tale, si auto-fonda. In sostanza, l’abbandono dello status privilegiato accordato alla logica e alla matematica nel Tractatus va di pari passo con la rinuncia alla ricerca delle cosiddette “verità definitive”.

Mentre nella prima fase della sua parabola speculativa il filosofo austriaco riteneva che la logica (e di conseguenza la matematica che a essa poteva essere ridotta) fosse una sorta di “super-fisica” che ci pone in grado di descrivere una “struttura logica del mondo” molto astratta e altrettanto rigida, nella fase successiva abbiamo un rovesciamento di tale posizione.

Non ha senso ricercare verità definitive proprio perché esse non esistono. Si chiede dunque Wittgenstein nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica: «A che scopo la matematica ha bisogno di una fondazione? Non ne ha bisogno, io penso, più di quanto le proposizioni che riguardano oggetti fisici - o quelle che trattano di impressioni sensibili - abbiano bisogno di un’analisi. Tuttavia la grammatica delle proposizioni matematiche, così come quella delle altre proposizioni, richiede un chiarimento».

Ed è proprio su tale “grammatica” che egli si concentra. Gli interessa, in particolare, il chiarimento del concetto di “regola matematica”, dal quale dipendono a loro volta i concetti di dimostrazione matematica, di coerenza nella matematica, nonché il senso - ammesso che ne esista uno - in cui le proposizioni matematiche sono “necessariamente” vere, e l’applicazione della matematica all’esperienza intesa in senso lato.

Nell’opera prima citata Wittgenstein ci dice che «il matematico non scopre: inventa».

Ciò ovviamente implica il rifiuto di ogni concezione platonista dei numeri come entità reali astratte e, ancor più polemicamente, un rifiuto della concezione realista secondo cui una proposizione matematica deve essere vera o falsa.

Tuttavia, pur riconoscendo che l’utilità delle somme aritmetiche dipende da certe circostanze fisiche, che avrebbero anche potuto essere diverse da come sono, tale constatazione non lo spinge a sostenere che dette somme siano generalizzazioni empiriche ben confermate (alla maniera di John Stuart Mill). Wittgenstein non è disposto a rinunciare al carattere necessario delle proposizioni matematiche o, ancor meglio, al loro carattere “normativo”.

Le proposizioni matematiche sono normative nel senso che fissano regole per il calcolo. Esse non sono predizioni di ciò che risulterà se qualcuno eseguisse certe operazioni, per esempio quelle di somma o di moltiplicazione, poiché notoriamente si possono fare errori di calcolo.

Senza dubbio nessuno di coloro che affermano che le proposizioni matematiche sono necessariamente vere intende implicare che un procedimento di calcolo, da chiunque sia eseguito, fornirà un dato risultato senza possibilità di scampo.

La sua tesi è, piuttosto, che le regole che governano il calcolo sono tali che solo un determinato risultato è “corretto”; chiunque trovi un risultato diverso ha commesso inevitabilmente un errore.

Dunque, la risposta corretta è predeterminata dall’imposizione della regola.

Interessante risulta, a questo fine, la reazione di Wittgenstein al teorema di Gödel, teorema che può essere inteso nel senso che in ogni sistema come quello dei Principia Mathematica di Russell e di Whitehead, che sia abbastanza ricco da esprimere un’aritmetica, si può costruire una proposizione vera che non risulta dimostrabile all'interno del sistema.

In effetti questa proposizione, quando venga tradotta dal linguaggio matematico in cui è espressa, asserisce la propria indimostrabilità.

Questa conclusione non è gradita a Wittgenstein, che intende identificare “vero nel sistema di Russell” con “dimostrato nel sistema di Russell”.

Egli prosegue affermando: «Supponiamo che io dimostri che P non può essere dimostrata (nel sistema di Russell): con questa dimostrazione ho dimostrato P. Ora, se questa dimostrazione appartenesse al sistema di Russell - avrei contemporaneamente dimostrato l’appartenenza e la non-appartenenza di questa proposizione al sistema di Russell. - Ecco che cosa capita a costruire proposizioni di questo genere. - Ma qui c’è una contraddizione! Ebbene, sì, qui c’è una contraddizione. Nuoce a qualcuno, qui?».

E Wittgenstein adotta tale linea anche nella discussione sui paradossi semantici: «Nuoce forse a qualcuno la contraddizione che si ottiene quando si dice: ‘Io mento. - Dunque non mento. - Dunque mento. - Eccetera’? Voglio dire: il nostro linguaggio è meno utilizzabile per il fatto che in questo caso, applicando le solite regole, da una proposizione si può derivare la sua contraddittoria, e poi di nuovo la prima proposizione? - Inutilizzabile è la proposizione in se stessa, e inutilizzabili sono anche le conclusioni che se ne traggono, ma perché non lo si deve fare? – È un’arte che non dà pane! – È un gioco linguistico che consiste nel tentare di afferrarsi il pollice. Una simile contraddizione merita il nostro interesse solo perché ha tormentato gli uomini, e perché mostra quali problemi tormentosi possano sorgere dal nostro linguaggio; e quale sia il genere di cose che possono tormentarci».

I matematici tentano di dimostrare la coerenza dei loro sistemi perché vogliono garantirli contro la contraddizione ma, secondo Wittgenstein, non dobbiamo prendere sul serio questa minaccia. Perché non “mettere in quarantena” la contraddizione, unitamente alle proposizioni che ne conseguono?

E inoltre, se possiamo separare tali proposizioni dal corpo principale del sistema, e se troviamo che possiamo ricavare una certa utilità da ciò che rimane, perché mai dovremmo emendare l’intero sistema? Il paradosso del mentitore, dopo tutto, non mette affatto in crisi l’intero linguaggio, ma solo una sua porzione assai limitata.

Dovrebbe essere facile arguire, in base a questi schematici cenni, perché il secondo Wittgenstein considerasse più o meno inutili le ricerche condotte grandi scuole fondazionali, mentre risulta altrettanto facile capire per quale motivo le tesi wittgensteiniane non siano molto popolari all’interno della comunità dei matematici.

Un ultimo fatto che deve essere notato è il seguente. Wittgenstein, pur criticando il platonismo, non adotta affatto una qualche forma di nominalismo.

Egli ritiene che le verità matematiche abbiano effettivamente un carattere a-temporale il quale dipende, tuttavia, dal ruolo peculiare che esse svolgono all’interno del nostro linguaggio.

In altre parole, la “necessità” delle proposizioni matematiche dipende da noi, dal tipo di vita e di cultura che abbiamo sviluppato.

Il “dover” ottenere un certo risultato se si effettua una certa operazione altro non è che il riflesso dell’atteggiamento che noi assumiamo verso le tecniche di calcolo; tale atteggiamento è “inesorabile” e non ci lascia scampo.

La necessità non si trova dunque negli oggetti, o nella mente, bensì nelle “forme di vita”, nel fatto che la nostra civiltà si è sviluppata in un certo modo e non in un altro.

Per Wittgenstein, allora, il fatto che nessuna legge o regola sia inesorabile in se stessa non significa che essa non possa esserlo per noi.

L’atteggiamento di cui parla il filosofo fa parte di un “processo di formazione dei concetti”.

La stessa possibilità di una qualsiasi formazione dei concetti richiede che noi assumiamo un certo atteggiamento verso certe cose e verso certe mosse all’interno di un determinato “gioco linguistico”.

Ecco quindi spiegata la presenza di alcune proposizioni che sono non rivedibili; ma esse sono tali solo all’interno di un determinato gioco linguistico.

Wittgenstein afferma che c’è una grande differenza tra il rifiutare una verità contingente, vale a dire una proposizione che si credeva vera e che è stata in seguito confutata, e il rifiutare una verità necessaria.

Quest’ultima mossa implica - a suo avviso - l’accettazione di un nuovo modo di formare i concetti, e da ciò consegue che le proposizioni che noi consideriamo non rivedibili, e che quindi sono verità necessarie, rappresentano una parte diversa del linguaggio: esse sono strumenti linguistici diversi dalle proposizioni contingenti.

Il linguaggio e la sua logica possono senz’altro cambiare, ma il linguaggio stesso ha una sua autonomia. In quanto esseri umani apparteniamo a tradizioni di pensiero in cui il nostro linguaggio e la sua logica sono incardinati.

Non possiamo manipolare la logica del nostro linguaggio perché essa costituisce la nostra cornice di riferimento, e proprio questa ci offre il modo per distinguere il senso dal non-senso, ciò che possiamo dire da ciò che non possiamo dire.

È vero che il matematico può estendere la matematica, e Einstein ha adottato una geometria non-euclidea perché essa era più rispondente alle sue teorie.

Ma estendere la matematica non significa cambiarla completamente, né scegliere tra calcoli alternativi significa distruggere il carattere del calcolo che si è scelto.

Per Wittgenstein, dunque, il rifiuto della concezione platonista dell’immutabilità della logica e della matematica non implica affatto il rifiuto della distinzione tra verità necessarie e quelle contingenti.

Abbiamo allora un nuovo significato del termine “necessità”, anche se occorre rammentare che vi è grande discordanza di opinioni circa il senso effettivo della proposta wittgensteiniana.

 

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