Nello Rosselli e la valenza del sacrificio di Carlo Pisacane

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Categoria: Storia del Risorgimento
Creato Venerdì, 04 Novembre 2022 20:48
Ultima modifica il Sabato, 05 Novembre 2022 14:59
Pubblicato Venerdì, 04 Novembre 2022 20:48
Scritto da Angelo Martino
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Nel 1932 Nello Rosselli pubblicava il saggio Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, offrendo il suo contributo alla storiografia sul sacrificio di Carlo Pisacane, di cui anche in quegli anni si dibatteva con studi che destavano attenzione ed interesse.

Nello Rosselli ripercorse con la sua monografia appassionata e documentata i vari e cruciali momenti storici per evidenziare quanto la figura di Pisacane costituisse il simbolo del patriota romantico tormentato, completamente dedito all'esempio del sacrificio estremo, coraggioso, ma intriso di speranze mal riposte.

Pertanto la spedizione di Sapri nei vari momenti, a suo dire, si rivelò illusoria rispetto ad una realtà rivoluzionaria repubblicana inesistente in quel momento storico.

Ciononostante, secondo Rosselli «i rivoluzionari di Napoli avevano costituito, sin dal 1853, un Comitato insurrezionale repubblicano delegato a dirigere un moto nelle province (dove si erano fondate numerose sezioni) e a corrispondere con gli emigrati repubblicani a Malta, a Genova, a Londra. Nicola Mignogna, Teodoro Pateras, Giuseppe Fanelli, Luigi Dragone e qualche altro n’erano i più cospicui esponenti.»

 

Per questi patrioti repubblicani il Paese era giunto ad una “soddisfacente” preparazione di azione diretta, e dunque espressero solenni parole, che, pronunciate o meno in piena buona fede, ebbero una forte influenza su un patriota temerario e generoso, quale fu Carlo Pisacane.

Il primo esplicito riferimento al Sud, quale centro della spedizione, si ritrova in una lettera del 1855, indirizzata al rifugiato politico Agostino Plutino in cui Pisacane testualmente scriveva: «Io potrò convincermi che il nostro caso è disperato. […] Il moto noi l’accetteremo  e l’aiuteremo ovunque sorgerà, ma lo desideriamo nel Mezzogiorno.»

Pertanto, Pisacane, dall’estate del 1856 «non ebbe più un giorno, non ebbe più  un’ora che non fosse dedicata a concretare il progetto di spedizione, a perfezionarne la tecnica dell’esecuzione, a studiar nuove forme di propaganda nel Sud».

Aveva altresì auspicato, nonostante i dissidi precedenti, che la spedizione fosse capeggiata da Giuseppe Garibaldi, data la sua maggiore popolarità.

«Può stupire- evidenziava Rosselli- tale repentino accesso di garibaldinismo da parte di Pisacane», solo ricordando quanto espresso in maniera chiara nei Saggi, ma in lui era dominante il pensiero della spedizione.

A tal riguardo Rosselli riportava i vari incontri che nel 1857 si ebbero per convincere Garibaldi a guidare la spedizione nel Sud.

«Il giorno 12 maggio- scriveva Rosselli- Mazzini si abbocca con Pisacane; poi quasi tutte le notti sono convegni segreti e di decisiva importanza. Pochi giorni dopo, ecco a Genova Jessie White […].»

L’arrivo della corrispondente inglese in Italia costituisce l’ultimo tentativo di far affidamento sulla cooperazione attiva di Garibaldi in un incontro che si tenne a Torino alla fine di maggio ’57.

Oltre a Pisacane, Garibaldi e la stessa White, erano presenti Enrico Cosenz, Giovanni Nicotera, Giovambattista Falcone, Rosolino Pilo. Si discusse dell’insurrezione nel Cilento e dell’uomo che avrebbe dovuto guidarla. Garibaldi, acclamato da tutti, declinò l’invito in quanto ritenne privo di esito positivo il movimento insurrezionale proposto.

D’altronde, già nel febbraio del ’57, quella era stata la netta posizione di Garibaldi: «Se io fossi sicuro d’aver una piccola probabilità di successo, dubitereste voi che io mi lancerei con gioia febbrile al conseguimento di quell’idea di tutta la vita, abbenché mi si presentasse, per compenso, il martirio più atroce?»

Nello Rosselli raccontò le varie tappe di una “spedizione” che da Sapri fino al tragico epilogo di Sanza ebbe ben pochi momenti di esaltazione e decisamente maggiori esperienze di disillusione.

Imbarcatosi sul postale Il Cagliari il 25 giugno, due giorni prima della partenza Pisacane aveva scritto l’ultima lettera al Comitato Napoletano che la ricevette due giorni dopo solo quando, «con venti giovanotti di cuore egli era riuscito, sì, d’impadronirsi di Ponza e liberare i detenuti.» Ora con trecento uomini, di cui i relegati politici erano in numero decisamente inferiori, aveva al suo comando non già volontari autentici, che sperava tuttavia con l’impeto di uomo e teorico di guerra, conquistare alla nobile causa della rivoluzione politica e sociale e rendere, peranto, i detenuti comuni liberati a Ponza «una banda disciplinata, combattiva e,  chi sa, valorosa».

Al fine di comunicare fiducia nei suoi uomini, Pisacane li arringò come se fossero esperti veterani di guerra: «Figliuoli, noi siamo stati ventuno individui che vi abbiamo liberati dall’isola, adesso voi dovete liberare il Regno.»

Rosselli pose l’accento sulla prima delusione di Pisacane che, giunto a Sapri e, pur avendola occupata, non trovò il paese «gremito di una popolazione pronta ad accoglierlo con entusiasmo».

Quando si recò dal barone liberale Giovanni Galotti, costui gli rivelò con accenti di protesta che «di preparativi rivoluzionari compiuti nella regione non si era mai inteso parlare».

Proseguendo verso Torraca ci rese sempre più conto che «gli stessi liberali del paese erano ben noti alla polizia e attentamente sorvegliati».

Rosselli evidenziava altresì, senza accenti di disappunto, che Pisacane e i suoi uomini «credevano di essere attesi nelle vicinanze di Sala da 2000 correligionari ed altri 500 in Padula», ma ciò non corrispondeva alla realtà, per cui Rosselli proseguì testualmente con forti accenti di rammarico: «Possibile che tutto questo, tutto, tutto, tutto fosse millanteria di loquaci capi popolo di provincia? Ma gli organizzatori della spedizione non avevano tenuto conto di una circostanza di capitale importanza: e cioè che in quel periodo dell’anno, in quella regione, gran parte della parte della popolazione maschile soleva emigrar nelle puglie per la mietitura del grano».

Solo a Casalnuovo, a mezza strada fra il Fortino e Padula si ebbe la soddisfazione di trovare il paese in pieno tumulto, con persone che attendevano i trecento rivoltosi in maniera festante.

Tuttavia, quando si lasciò il paese, non vi fu uno dei cittadini disponibile a imbracciare un fucile e porsi al seguito della “spedizione”.

L’epilogo tragico per Pisacane e i suoi uomini fu pertanto vicino. Abbandonata Padula, Pisacane si ritrovò con soli cento uomini sofferenti e stremati nei boschi del Salernitano, alla ricerca ancora di un possibile ultimo e temerario tentativo di conquistare pace e libertà.

Sanza non era lontana, ma lì attendevano «una piccola squadra di undici urbani difensori del regime borbonico, la cui audacia fu conseguentemente spiegata allorché nel paese di Sanza le campane suonavano a stormo; il parroco, d’accordo col comandante le guardie urbane, radunava a precipizio la gente. Una torma di briganti- egli si pose a gridare - calava su Sanza per spogliarvi le case, oltraggiare le donne, attaccare il colera.»

E il “popolo”, scrive Rosselli, quel “popolo” che Carlo Pisacane voleva redimere, emancipare, e per il quale aveva affrontato le pene di quel tremendo calvario, avendo creduto che fosse davvero un brigante, quando era già ferito, gli fu «sul capo con roncole, falci, spiedi, pronti ad abbatterlo come belva famelica […] impugnò la sua pistola, e con un colpo si sottrasse allo scempio.»

Falcone, il più giovane, che gli era accanto e che a malincuore aveva obbedito al suo ordine di non resistenza, vistolo cadere, si uccise a sua volta […]

Dopo questa tragica fine il movimento repubblicano dovette subire ulteriori e accese accuse da parte dei patrioti liberali moderati e il principale accusato fu Giuseppe Mazzini.

Settembrini espresse alla moglie di Pisacane il suo dolore, maledicendo «quegli scellerati che sotto specie di libertà, standosi lontano, mandano giovani generosi a morire, anzi ad essere macellati […]»

Silvio Spaventa biasimava «il colpo che ci fa perdere il frutto di dieci anni di persecuzioni sofferte e il vantaggio d’una situazione che si rendeva ogni giorno più difficile pel governo. Pazienza!»

Bisogna, infine, evidenziare che, tramite questa disamina del totale insuccesso della spedizione, Nello Rosselli, pur riconoscendo il fallimento e narrandolo con quei   toni di disappunto che emergono sia a causa di una mancata organizzazione  degli ambienti rivoluzionari repubblicani, sia per una certa avventatezza della “Spedizione”,   concluse tuttavia il suo saggio, evidenziando il sacrificio  dell’eroe idealista, precursore consapevole del sacrificio e pertanto dedito a quella sorta di laico martirio il cui  intento era di costituire un esempio da additare ai posteri per continuare la lotta.

Sono al riguardo ampiamente esemplificative le parole con cui terminò: «Il viandante, nel varcare il torrente, deve gettare pietre su altre per poter porre il suo piede sicuro sulle ultime che affiorano, perché sa che quelle scomparse nel gorgo sosterranno il suo peso. Pisacane, anche lui, pareva sparito nel nulla. Ma sulla sua vita, sulla sua morte poteva posare e posa uno dei piloni granitici dell’edificio italiano.»