Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Secondo viaggio in Vietnam

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Torno dal mio secondo soggiorno all’Università di Hanoi (o, meglio, Ha Noi, come dicono gli abitanti), con sentimenti contrastanti.

Il nome ufficiale del Paese è “Repubblica Socialista del Vietnam” e c’è ancora il partito unico – quello comunista – che detiene un potere assoluto e incontrastato.

Proprio nei giorni in cui ero in loco ha celebrato il suo 12° congresso, con la città piena di manifesti di Ho Chi Minh, oppure con operai, soldati e contadini nelle classiche pose tipiche del socialismo reale.

E tuttavia, a differenza di quanto accade nella Repubblica Popolare Cinese, italiani ed europei possono entrare senza visto se il soggiorno è turistico e non supera il mese di permanenza. Una situazione simile a quella di Hong Kong da cui, però, non potete andare in Cina senza visto. Non è tutto.

In albergo si possono tranquillamente seguire le trasmissioni della CNN, incluse quelle che riguardano lo stesso Vietnam e l’Asia in genere.

La grande sorpresa, tuttavia, viene dall’atteggiamento delle nuove generazioni, e assicuro che più occidentalizzate di così non potrebbero essere.

Proprio come i loro coetanei europei e americani vivono praticamente in simbiosi perpetua con i loro smartphone e tablet.

È un continuo pigiare di tasti, uno scorrimento senza fine di immagini.

 

Sono – anche – in collegamento costante con il mondo intero. Se vi accompagnano, come è capitato al sottoscritto, a visitare i posti più noti della capitale, la conversazione s’interrompe spesso perché devono rispondere a chiamate e messaggi che arrivano a ritmo ininterrotto.

Non solo.

Durante una lezione in inglese dedicata al mondo globale e al concetto di sovranità nazionale, ho chiesto ai miei giovanissimi interlocutori cosa pensassero al riguardo.

Ebbene, tutti si sono dichiarati a favore della sovranità nazionale pensando, ovviamente, al problema del rampante espansionismo cinese.

Ma tutti si sono parimenti mostrati convinti che la globalizzazione sia un processo irreversibile e permanente, che dev’essere favorito in ogni modo e per nulla contrastato.

Alla mia osservazione che, dopo tutto, globalizzazione e sovranità nazionale potrebbero essere in contrasto, nessuno ha saputo fornire delle controdeduzioni.

Né i miei giovani interlocutori sembravano turbati più di tanto dalla presenza di un partito unico, pur essendo ben coscienti del fatto che in Occidente esiste un forte competizione tra un vasto schieramento di formazioni politiche.

Ai loro occhi la questione non è interessante, giacché il partito comunista sta favorendo a tappe forzate la transizione verso l’economia di mercato, anche se mantiene ben salda la classica impalcatura di impronta sovietica nella quale le decisioni politiche importanti vengono prese unicamente nelle riunioni ristrette del Politburo.

Chissà se sanno che, a Pechino, hanno già percorso quella strada, generando tensioni che negli ultimi tempi sono emerse con prepotenza. Forse sì, ma il problema non sembra interessarli in maniera significativa.

Hanoi ora è piena di “McDonald’s”, “Kentucky Fried Chicken” e altri classici fast food Usa, nonché di negozi di lusso con marche famose (molte quelle italiane). E i vietnamiti benestanti li frequentano con una certa assiduità, come del resto accade – in misura ancor maggiore – a Pechino e a Shanghai.

Bene, sono trascorsi più di quarant’anni dal quel fatidico 30 aprile 1975, giorno in cui i carri dell’esercito di Hanoi, opportunamente travestiti con la bandiera Vietcong, occuparono Saigon (che ora si chiama Ho Chi Minh) e sfondarono il cancello dell’ambasciata americana obbligando gli ultimi funzionari Usa a fuggire in elicottero dal tetto. Sembrava una vittoria totale.

Eppure, allo stato dei fatti, vien da chiedersi chi abbia veramente vinto la guerra del Vietnam. Sul piano militare non sussistono dubbi.

Ma è pur vero che, a tanti anni di distanza, il soft power americano si è preso una rivincita clamorosa, trasmettendo il suo stile di vita a una nazione per lungo tempo nemica.

 

 

 

 

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