Il marxismo e le scienze sociali

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Pubblicato Martedì, 06 Settembre 2022 09:51
Scritto da Michele Marsonet
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Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.

L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita.

Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere che determina la loro coscienza.

A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze prima si erano mosse.

Questi rapporti si convertono, da forme di sviluppo delle forze produttive, in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. E con il mutamento della base sociale si sconvolge, più o meno rapidamente, tutta la gigantesca sovrastruttura.

 

Marx collegava in tal modo la concezione del processo storico come movimento dialettico e la teoria del materialismo storico. La contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive, che tende a procedere al di là dell’assetto esistente, e i rapporti sociali che corrispondono a un momento precedente di tale sviluppo, rappresenta il meccanismo che conduce da una formazione economica a un’altra, in cui la contraddizione risulta “risolta”.

In questa maniera la società borghese-capitalistica è sorta dalla società feudale; e analogamente da tale società nascerà un’altra forma di organizzazione, il comunismo. Anche per il marxismo, dunque, la storia dell’umanità ha un andamento progressivo; ma la base di questo progresso non è il movimento dell’idea, bensì lo sviluppo delle forze produttive - la divisione del lavoro e l’organizzazione della produzione.

Se il “motore” della storia è, come si è visto, la lotta di classe, in quanto la contraddizione interna a ogni formazione si esprime appunto attraverso il conflitto tra classe dominante e classe dominata, il fondamento di esistenza delle classi è la struttura economica.

In ciò consiste il materialismo storico, elemento fondamentale della concezione marxiana, dove per “materia” s’intende la “struttura” economica della società in antitesi a ciò che è invece “sovrastruttura”, vale a dire la sfera dei rapporti politici e quella dei fenomeni ideologico-culturali.

La storia non è infatti altro che una sequenza di formazioni economiche della società, ognuna delle quali corrisponde a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. E soltanto la struttura economica possiede propriamente una storia.

Lo Stato e il diritto, infatti, altro sono altro che un apparato istituzionale creato dalla classe dominante a difesa dei propri interessi; analogamente, le idee di una data società sono le idee elaborate dalla classe dominante, che ne riflettono la concezione del mondo.

Anche tra struttura e sovrastruttura, però, si ha una relazione dialettica, vale a dire un’azione reciproca.

Se nel testo della Ideologia tedesca il rapporto tra i due termini si configura piuttosto come un rapporto unilaterale, di determinazione della struttura sulla sovrastruttura, in seguito alla struttura sarà attribuito da Engels il carattere di fondamento “in ultima istanza”, e alla sovrastruttura sarà riconosciuta la possibilità di reagire sulla base economica della società, e in qualche misura di modificarla.

Anche allora, però, il movimento della sfera politica come di quella ideologico-culturale sarà ricondotto al movimento della struttura, senza acquisire una propria autonomia sostanziale.

Lo Stato e il diritto, al pari della cultura, sono pur sempre espressione di una particolare classe in conflitto con la classe ad essa antagonistica. E l’autonomia della sovrastruttura consisterà soprattutto nella capacità riconosciuta anche alla classe dominata di dare vita a una propria organizzazione politica e a una propria ideologia, in antitesi a quelle della classe dominante.

La storia non è però soltanto uno sviluppo progressivo; è anche sviluppo che tende a un fine. E questo fine, che segna il passaggio dall’alienazione all’umanità liberata, è appunto il comunismo. Sul processo di transizione al comunismo, come sui caratteri che in esso contraddistingueranno i rapporti sociali, Marx e anche i successivi teorici del marxismo sono stati piuttosto generici.

Negli scritti giovanili il comunismo è definito di solito in termini negativi, come “la soppressione dell’auto-alienazione” o “l’espressione positiva della proprietà privata soppressa” (com’è detto nel testo dei Manoscritti economico-filosofici).

Ma anche in seguito, nel Capitale, esso sarà sempre caratterizzato in maniera piuttosto generica.

Una cosa, tuttavia, è certa. Come per Hegel lo Stato moderno, quale si è configurato nel mondo cristiano-germanico, segna il culmine dello spirito oggettivo, così per Marx il comunismo rappresenta l’ultima possibile formazione della società, una formazione priva di quel carattere conflittuale che costituiva un elemento comune a quelle che l’hanno preceduta.

Il comunismo non segna soltanto, infatti, l’eliminazione delle classi e quindi la scomparsa della lotta di classe; esso segna anche la liberazione dell’uomo dall’alienazione e il recupero della sua essenza, vale a dire - come si espresse Engels - il trapasso dal regno della necessità al regno della libertà.

Per realizzare il comunismo è però necessario il ricorso all’azione rivoluzionaria. In conformità al principio - enunciato nelle Tesi su Feuerbach - secondo cui “i filosofi hanno soltanto interpretato diversamente il mondo” e “si tratta ora di trasformarlo”, Marx ritiene che la futura società senza classi possa essere instaurata soltanto attraverso la rivoluzione del proletariato.

La necessità che presiede allo sviluppo storico, e che rende inevitabile la fine della società borghese-capitalistica, non può prescindere dall’intervento attivo degli uomini, di quegli “individui reali” la cui esistenza costituisce il primo presupposto della storia.

Il passaggio da un modo di produzione all’altro non avviene in virtù di un processo evolutivo, ma attraverso la contraddizione che lo sviluppo delle forze produttive introduce nell’assetto sociale e la rottura di quest’ultimo.

E la storia del modo di produzione capitalistico è costellata, del resto, da una serie di rivoluzioni non soltanto politiche ma anche sociali, culminanti nel 1848 e più tardi nella Comune parigina. Esse preannunciano, in qualche maniera, la rivoluzione del proletariato, che provocherà la fine della società borghese-capitalistica; e tuttavia questa dovrà avere caratteristiche peculiari.

Essa sarà infatti, a differenza delle precedenti, una rivoluzione generale condotta dal proletariato nei confronti della classe che detiene la proprietà dei mezzi di produzione, una rivoluzione destinata a diffondersi in tutto il mondo. E ciò in quanto nel corso degli ultimi secoli si è venuto formando, a causa dello sviluppo della società borghese-capitalistica, un mercato mondiale, che ha trasformato la storia in “storia universale”.

L’unificazione del globo in un mercato privo di confini, determinata dalla capacità espansiva del modo di produzione capitalistico, ha come conseguenza che la rivoluzione del proletariato, pur avendo inizio nei paesi in cui esso ha raggiunto il maggior grado di sviluppo, sarà anch’essa una rivoluzione universale.

Il marxismo è dunque sì una scienza della società, ma è anche - e in maniera indissolubile - una filosofia della storia che si propone di determinare lo sviluppo dell’umanità tanto nel passato quanto nel futuro, e una teoria della rivoluzione del proletariato come condizione necessaria del trapasso dal capitalismo al comunismo.

Il cuore di questa complessa costruzione, quale è stata delineata da Marx dapprima nei Manoscritti e poi soprattutto nel Capitale, è costituito dall’analisi della società borghese-capitalistica, della sua origine, del suo sviluppo e delle tendenze che dovranno condurre alla sua scomparsa.

Si tratta di un’analisi che ha per oggetto la struttura di tale società, vale a dire il funzionamento del sistema economico capitalistico, e che lascia in secondo piano - in quanto, tutto sommato, secondaria - la sua sovrastruttura, cioè i fenomeni appartenenti alla sfera politica e a quella ideologico-culturale. Essa riveste un carattere che si può dire storico-sociologico.

Sorto in un’epoca nella quale soltanto l’economia politica aveva conseguito un grado soddisfacente di autonomia disciplinare, costituendo un proprio corpus teorico, il marxismo si era proposto di offrirne una “critica” capace di liberare le sue categorie dall’assolutezza che presentavano in Smith e in Ricardo. Il risultato era stato la storicizzazione sia dell’economia politica sia del suo oggetto.

A questa operazione si era accompagnato il tentativo di costruire, coniugando le categorie economiche con una concezione della storia come progresso, una scienza della società che ne determinasse le leggi oggettive di sviluppo e permettesse quindi, oltre che di spiegarne i processi, anche di predire la direzione dello sviluppo futuro.

Questo programma era analogo a quello della sociologia positivistica, anche se presupposti e risultati erano divergenti: anch’essa proponeva infatti una critica delle dottrine dell’economia politica, anch’essa assorbiva in sé la scienza politica, anch’essa non ammetteva la legittimità di discipline rivolte a studiare singoli aspetti o settori della vita sociale.

Marx si richiamava alla dialettica hegeliana, mentre Comte innestava il modello di una società organica ereditato dall’ideologia della Restaurazione sui tentativi tardo settecenteschi di una scienza dell’uomo ispirata alla fisiologia; ma il modello epistemologico di una scienza unitaria della società, coincidente con la filosofia della storia, era comune.

Questo modello ha dominato la sociologia come, in qualche misura, anche l’antropologia evoluzionistica ottocentesca, mentre è stato sostanzialmente estraneo (già in Smith e in Ricardo) allo sviluppo della scienza economica. Ma anche in sociologia e in antropologia esso è ben presto entrato in crisi.

Già all’indomani del compimento del grandioso edificio del Capitale esso appariva difficilmente sostenibile.

Con Durkheim aveva inizio, nella sociologia europea, il processo di distacco dal positivismo; e se la prima generazione dei sociologi d’oltreoceano si muove ancora in un orizzonte che ha come termini di riferimento principali Darwin e soprattutto Spencer, già nei primi decenni del Novecento anche la sociologia americana imbocca strade nuove.

E in antropologia le prospettive evoluzionistiche vengono sottoposte a una critica radicale fin dai primi anni del nuovo secolo.

Al modello di una scienza onnicomprensiva della società o dell’evoluzione umana si sostituisce - e, sul terreno epistemologico, si contrappone - la realtà di molteplici discipline indipendenti, che rinunciano all’ambizione di un’interpretazione “globale” della società.

Le scienze sociali si separano dalla filosofia della storia; anzi, ne respingono la stessa possibilità, o per lo meno negano ad essa qualsiasi rilevanza scientifica.

Lo sviluppo delle scienze sociali ha così percorso vie opposte a quella indicata da Marx. Ciò che è venuto meno, nel corso del secolo e mezzo che ci separa ormai dagli anni in cui Marx elaborò il suo progetto di analisi della società borghese-capitalistica, è proprio il nesso tra scienza della società e concezione generale della storia, da cui discendeva la pretesa di determinare la direzione dello sviluppo storico nel futuro prossimo o remoto.

Le scienze sociali sono oggi diventate un universo disciplinare composito, caratterizzato dalla compresenza di teorie e di metodi differenti, non riconducibili a una matrice unitaria.

Ciò non vuol dire che tra queste discipline e i loro apparati teorico-concettuali non siano frequenti gli scambi, che i concetti da esse formulati non possano essere trasferiti in contesti disciplinari diversi da quello originario.

Ma l’interdisciplinarità della ricerca non significa affatto - com’è stata talvolta intesa - riducibilità a una base teorica comune; meno che mai può significare, oggi, la subordinazione a una teoria generale della società che stabilisca le direttrici d’indagine delle singole scienze o ne irrigidisca i rapporti in un quadro sistematico.

Questo processo ha finito per “spiazzare” il progetto marxiano di una scienza della società; anzi, ha finito per renderlo improponibile.

Esso è stato sottoposto alla critica metodologica dapprima di Max Weber, poi dell’epistemologia di derivazione neopositivistica. Anche Karl Popper, in La società aperta e i suoi nemici, ne ha denunciato il peccato originale, la pretesa “olistica”, e il conseguente trapasso della predizione scientifica alla profezia. Ma questo peccato rappresenta anche, paradossalmente, il motivo di forza del marxismo e la sua capacità di attrazione.