Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La filosofia marxiana della storia

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Il marxismo nasce, negli scritti di Marx e di Engels degli anni ’40 dell’Ottocento, sotto forma di una scienza della società che intende fornire un’interpretazione complessiva della nascente società borghese-capitalistica in pieno sviluppo. Naturalmente, il marxismo non è soltanto questo, ma fin dall’inizio è anche e soprattutto questo.

A partire dal 1845, e ancor più esplicitamente nel Manifesto comunista scritto alla vigilia della rivoluzione europea del 1848, Marx ed Engels hanno preso posizione nei confronti di quello che hanno definito il socialismo “utopistico”, contrapponendogli il proprio come socialismo “scientifico”.

E nella prefazione al Capitale Marx ha dichiarato che oggetto della sua indagine era “il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono”, di cui si proponeva - in analogia con il procedimento delle scienze della natura - di scoprire le “leggi naturali”, cioè le tendenze “che operano e seguono una bronzea necessità”.

Questa ambizione di scientificità non è estrinseca; essa è invece un elemento costitutivo dell’analisi marxiana (e poi marxista) della società.

Ciò che Marx ed Engels si propongono è infatti, in primo luogo, di individuare gli aspetti caratteristici di una nuova struttura sociale che si è venuta affermando nel mondo europeo nel corso degli ultimi secoli, e di cui lo sviluppo dell’industria dapprima sul suolo inglese, poi anche nel continente, ha ormai posto in luce l’irriducibilità alle società del passato; in secondo luogo, di spiegare il processo di trasformazione che ha messo capo ad essa e che potrà condurre, in futuro, alla nascita di un’altra società che ne costituisca il “superamento”.

La prima linea di analisi ha il proprio centro di gravità nel riconoscimento della struttura capitalistica della società moderna - una struttura assente nelle società del passato, la quale si è venuta costituendo nel corso di un processo secolare che ha avuto inizio nel tardo Medioevo.

Questa struttura risulta caratterizzata dal prevalere della proprietà privata o, più precisamente, di un tipo particolare di proprietà privata - la proprietà capitalistica - che comporta per un verso la trasformazione delle forme di proprietà precedenti, e per l’altro verso un processo di crescente concentrazione nelle mani di un determinato gruppo sociale, ossia della classe dei “capitalisti”.

 

Caratteristica fondamentale della proprietà capitalistica è infatti la separazione tra capitale e lavoro, e quindi tra la classe che possiede i mezzi di produzione e quella che fornisce la forza-lavoro.

Marx ha collegato questa analisi alla distinzione, formulata da Adam Smith e largamente recepita dall’economia politica dei primi decenni del secolo XIX, tra salario, rendita e profitto, definendo il reddito del capitale investito in termini di profitto.

Mentre la classe proprietaria di origine feudale aveva la propria base economica nella rendita, la classe capitalistica vive del profitto ricavato dall’investimento del capitale, e perviene ad accumulare capitale in misura crescente attraverso il profitto.

Ma nel passaggio dalla società feudale, fondata sulla proprietà terriera, alla società borghese-capitalistica, non si ha soltanto uno spostamento di importanza dalla rendita al capitale; la rendita stessa viene trasformata in capitale, cosicché la classe percettrice di rendita vede progressivamente diminuita, insieme al proprio peso economico, anche la propria importanza sociale. E come la classe capitalistica viene assorbendo i ceti redditieri, così la classe operaia assorbe, da parte sua, i ceti artigianali e piccolo-borghesi.

Al processo di concentrazione del capitale fa riscontro la proletarizzazione della forza-lavoro, che viene a trarre la fonte esclusiva del proprio sostentamento dal salario.

Questa analisi, ripresa e ampiamente sviluppata nel primo libro del Capitale - pubblicato a distanza di circa un ventennio, nel 1867 - poggia su un’interpretazione conflittuale della struttura dicotomica della società moderna. Capitale e lavoro, profitto e salario non sono infatti componenti che cooperano al processo produttivo integrandosi a vicenda; sono invece elementi contrapposti, in quanto la classe capitalistica tende ad accrescere il proprio profitto riducendo la quota di ricavo destinato ai salari al minimo possibile, a un livello di pura e semplice sussistenza, mentre la classe operaia è in balia delle crisi ricorrenti che producono disoccupazione.

Il rapporto tra le due classi si configura perciò, agli occhi di Marx e di Engels - i quali guardano soprattutto alle condizioni del lavoro nelle manifatture e nelle fabbriche inglesi del loro tempo, e al pauperismo che ne costituiva l’inevitabile conseguenza - come un conflitto permanente e non suscettibile di composizione, come una lotta.

La lotta di classe è un elemento costitutivo, non eliminabile, della società borghese-capitalistica.

Tale elemento è rintracciato, fin dalla Ideologia tedesca, anche nelle società del passato: questa è la seconda fondamentale direzione dell’analisi marxiana. Tutte le società finora succedutesi nella storia presentano infatti un’analoga struttura dicotomica, anche se le classi “polari” e contrapposte sono diverse in ognuna di esse. E ciò per la correlazione che sussiste tra proprietà e stratificazione sociale.

Richiamandosi su questo punto alla tesi largamente diffusa nella cultura socialista francese e inglese della prima metà dell’Ottocento, che aveva collegato l’origine della diseguaglianza sociale alla nascita della proprietà (secondo un modello interpretativo che risale a Rousseau, e che è stato in seguito ampiamente sviluppato nei testi di Proudhon), Marx ed Engels ritengono che la divisione della società in classi sia un fenomeno universale riconducibile all’esistenza di una qualche forma di proprietà.

Ma essi relativizzano questo fenomeno, cercando di determinare il rapporto esistente tra la successione storica delle formazioni economiche della società e quella delle forme di proprietà. E - fatto ancora più decisivo - pongono la struttura della proprietà in relazione con il progredire della divisione del lavoro.

La divisione del lavoro è un processo per così dire lineare, che però dà luogo a una successione di modi di produzione tra loro qualitativamente distinti.

Già nella Ideologia tedesca s’incontra infatti la distinzione tra proprietà tribale, proprietà comunitaria, proprietà feudale e proprietà capitalistica, intese come la struttura portante di forme differenti di organizzazione sociale.

Nella comunità primitiva la divisione del lavoro ha una base naturale, essendo il semplice prolungamento della divisione per sesso e per età presente all’interno della famiglia, e la proprietà appartiene non al singolo ma alla tribù, cosicché in essa non esiste ancora proprietà privata; nelle forme successive la proprietà è invece nelle mani di una classe detentrice anche del potere politico, la quale trae il proprio sostentamento dal lavoro o degli schiavi o dei servi della gleba o, nella società borghese-capitalistica, del proletariato industriale.

A differenza di quanto avviene nella comunità primitiva, queste forme di organizzazione poggiano tutte su una divisione tra classe possidente e classe non possidente, la quale coincide con quella tra classe dominante e classe dominata: tra cittadini e schiavi nella comunità antica, tra signori e servi della gleba nella società feudale, tra capitalisti e lavoratori salariati nella società borghese-capitalistica.

Marx ha ripreso i termini della sua analisi nei Manoscritti economico-filosofici - un testo composto nel 1857-58, ma pubblicato soltanto a metà di del secolo scorso, nel 1939-41.

Se nella Ideologia tedesca l’elenco dei modi di produzione era riferito in modo esclusivo allo sviluppo europeo, nei Manoscritti se ne aggiungeva ad essi un altro estraneo a questo sviluppo, vale a dire il modo di produzione asiatico. Anche qui il punto di partenza era rappresentato dalla comunità primitiva, corrispondente all’organizzazione tribale.

Da essa trae origine la comunità di villaggio diffusa soprattutto, ma non soltanto, nel subcontinente indiano, che detiene collettivamente il possesso della terra ma non la sua proprietà: questa è infatti nelle mani di un potere esterno alla comunità stessa, cioè del sovrano. Si ha così una dissociazione tra possesso comunitario e proprietà, la quale costituisce il fondamento del modo di produzione asiatico.

Esso è infatti caratterizzato non soltanto, e non tanto, dall’appropriazione collettiva e dallo sfruttamento collettivo del terreno, già presenti nella comunità primitiva, quanto dal sorgere di un potere dispotico che si colloca al di fuori della comunità di villaggio e al quale va - sotto forma di prelievo fiscale o di prestazioni per lavori pubblici - il prodotto eccedente di ogni comunità.

A questa forma di organizzazione sociale se ne affiancano altre due, in un rapporto che per certi versi è di parallelismo, per altri versi di sequenza: la comunità antica e la comunità germanica, caratterizzate l’una dall’affermarsi della distinzione tra proprietà pubblica e proprietà privata, e l’altra dal prevalere della proprietà individuale o familiare.

Se la comunità germanica tenderà a scomparire dal quadro dell’analisi marxiana, il modo di produzione asiatico veniva a caratterizzare la prima formazione economica della società nata dalla dissoluzione della comunità primitiva.

All’estremo opposto della serie a cui esso ha dato inizio si colloca, dopo le tappe intermedie rappresentate dal modo comunitario e dal modo feudale di produzione - che sembra affondare le sue radici nella comunità germanica più che in quella antica - la società strutturata su base capitalistica.

Ma, comunque si configuri la classe proprietaria, sotto forma di un despota esterno alle comunità di villaggio o della classe possidente della città antica o della nobiltà feudale, o ancora della classe capitalistica, ad essa si contrappone sempre una classe dominata, dal cui lavoro trae il proprio sostentamento.

Questa concezione dicotomica della società distingue nettamente la scienza della società marxiana dall’impostazione della sociologia positivistica, quale era stata formulata negli scritti di Saint-Simon e di Auguste Comte successivi al 1815, e poi sistematizzata dallo stesso Comte nel Corso di filosofia positiva.

Anche per Comte, come già per Saint-Simon, la società moderna che sta sorgendo dal processo di industrializzazione rappresenta una forma di organizzazione radicalmente nuova, irriducibile a quella delle società del passato; anche per Comte la società moderna si distingue da queste in virtù dell’affermarsi di nuove classi sociali.

Ma questa struttura non riveste affatto un carattere dicotomico. Il passaggio da una società all’altra si compie attraverso un processo di sostituzione delle classi detentrici del potere, tanto temporale quanto spirituale: dalla nobiltà feudale e dal clero che dominavano nel vecchio sistema ai giuristi e ai metafisici che nel periodo di transizione hanno minato le basi di quel sistema, agli industriali e agli scienziati positivi che costituiscono la base del nuovo sistema, cioè di quello industriale.

Ma all’interno di ognuno di questi sistemi non vi è una divisione rigida, e tanto meno una contrapposizione, tra le classi detentrici del potere e il resto del corpo sociale; vi è, anzi, una solidarietà che affida alle classi detentrici del potere la rappresentanza legittima degli interessi dell’intero corpo sociale.

Non la lotta di classe, ma il progresso intellettuale dell’umanità quale si manifesta nel passaggio dal sapere teologico al sapere positivo, attraverso l’intermediazione dello stato metafisico - costituisce il “motore” della storia.

Emerge qui la profonda distanza che separa la scienza marxiana della società dalla sociologia positivistica.

Quest’ultima si richiama infatti al modello di una società organica fondata su rapporti di solidarietà, sia che si tratti della società sviluppatasi nel corso del Medioevo sulla base dell’autorità di una fede religiosa condivisa, oppure di quella che - dopo l’azione dissolvitrice della Riforma, della cultura dei “Lumi” e della Rivoluzione francese - sta nascendo in seguito all’affermarsi dell’industria, e che trova la sua base nel sapere positivo e nel potere che dev’essere riconosciuto agli scienziati. In questa prospettiva il conflitto è un elemento transitorio della vita sociale, destinato a scomparire allorché la società poggia su un’autorità legittima e sul consenso che questa riscuote.

Marx ed Engels proiettano invece la visione di una società organica nel futuro, nella formazione che dovrà nascere dalla dissoluzione della società borghese-capitalistica: per quanto riguarda il passato e ancor più il presente, la storia è - secondo la formulazione del Manifesto - lotta di classe, conflitto permanente tra classi contrapposte.

E tale è stata fin dal momento dell’uscita dell’uomo dalla comunità primitiva, in cui il carattere collettivo della proprietà e dell’uso dei beni non consentiva il sorgere di divisioni al suo interno. O, più precisamente, tale è stata non la storia, ma la “preistoria” dell'umanità; perché la storia vera e propria avrà inizio soltanto con l’eliminazione delle classi e quindi del loro conflitto.

Mentre la teoria comtiana vedeva nella società industriale la forma definitiva di organizzazione sociale, la prospettiva marxiana fa del futuro, non del presente, il luogo della liberazione dell’uomo dalle catene prodotte dalla proprietà privata. Essa sfociava così in una filosofia della storia di chiara impronta escatologica.

Fin dall’inizio, infatti, il marxismo si presenta anche come una concezione dell’uomo e della storia dell’umanità, formulata in riferimento a Hegel e alle posizioni della Sinistra hegeliana.

Per Marx l’uomo è essenzialmente un essere sociale, un essere che ha bisogni e cerca di soddisfarli trasformando la natura mediante il lavoro. Correlativamente, la società non è altro che l’insieme dei rapporti reciproci tra gli uomini, di rapporti storicamente determinati che sono, in primo luogo, rapporti di produzione.

L’uomo si realizza nel lavoro, ma al tempo stesso viene a perdere la propria essenza, ad “alienarsi”, in quanto è costretto a cedere ad altri il prodotto del proprio lavoro.

Questa prospettiva è stata enunciata da Marx fin dai Manosctitti economico-filosofici del 1844, in cui egli ha per la prima volta preso in esame la situazione del lavoratore salariato nella società borghese-capitalistica.

Il rapporto tra capitalista e lavoratore è, per Marx, un rapporto di diseguaglianza, nel quale il lavoratore non può determinare il prezzo del proprio lavoro ma è costretto a sottostare alle condizioni che gli vengono imposte dal capitalista.

In tale situazione anche il lavoro, che pure appartiene all’essenza dell’uomo, viene ridotto a merce, non differente dalle altre merci; e dalla mercificazione del lavoro deriva l’estraniazione del lavoratore dal processo produttivo, vale a dire la sua alienazione.

Questa assume una triplice forma: nei confronti del prodotto del proprio lavoro, che non appartiene più a lui bensì al capitalista; nei confronti del lavoro, che risulta estraneo al lavoratore; e, infine, nei confronti della essenza stessa dell’uomo, che diventa estranea all’uomo in quanto semplice mezzo della sua esistenza.

Marx riprendeva così la nozione hegeliana di alienazione per caratterizzare la situazione del lavoratore nella società borghese-capitalistica, definita dalla separazione tra la proprietà dei mezzi di produzione e la disponibilità della forza-lavoro.

Ma l’alienazione, a rigore, non si ha soltanto nella società borghese-capitalistica; essa accompagna lo sviluppo dell’umanità fin dalla nascita della proprietà privata e quindi della divisione in classi, pur assumendo forma diversa nelle diverse forme di organizzazione sociale.

L’uomo può liberarsi dall’alienazione soltanto dando vita a una società senza classi, compiendo cioè il passaggio al “comunismo”.

Questo passaggio è reso non soltanto possibile, ma necessario, dalla dialettica della storia. Il trapasso da un modo all’altro di produzione, e quindi da una forma all’altra di organizzazione sociale, avviene in virtù del meccanismo tipicamente hegeliano dell’insorgenza di una contraddizione all’interno di una data società e della sua risoluzione in una struttura ad essa superiore.

Ma la dialettica marxiana si presenta come il “rovesciamento” di quella hegeliana; si presenta non come dialettica dell’idea, ma come dialettica reale. In polemica con Hegel, ma anche con Feuerbach, Marx e Engels fanno valere - a partire dalla Ideologia tedesca - il principio secondo cui non è lo sviluppo dell’idea a determinare la vita degli uomini, ma sono i rapporti tra gli uomini a determinare le forme della coscienza, le quali non posseggono di per sé alcuna autonomia e quindi neppure, a rigore, una storia.

La. dialettica marxiana ha infatti il proprio fondamento nella relazione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione, cioè tra lo sviluppo della divisione del lavoro e dell’organizzazione produttiva e i rapporti sociali che caratterizzano una data formazione della società.

Il che vuol dire che essa ha un fondamento economico, e che su questa base poggiano gli altri aspetti della vita dell’uomo.

Lo stato di sviluppo delle forze produttive dà luogo a un determinato tipo di rapporti sociali; ma, mentre questi tendono a stabilizzarsi permanendo più o meno immutati nel tempo, quello sviluppo procede ininterrotto, mettendo in crisi i rapporti a cui ha dato origine.

Questa concezione si trova espressa in forma sintetica nella prefazione a Sulla critica dell’economia politica, che risale al 1859.

 

 

 

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