Di nuovo Fukuyama sulla “fine della storia”
A quasi trent’anni di distanza dalla pubblicazione del suo famoso articolo La fine della storia (1989), poi seguito dall’ancor più celebre libro La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), il politologo nippo-americano, Francis Fukuyama, non demorde affatto e continua a sostenere – pur con leggere modifiche – la sua tesi di fondo. Si rammenterà, a tale proposito, che prendendo spunto dalla caduta del muro di Berlino, avvenuta nel 1989, Fukuyama pronosticava che dopo l’implosione dell’Unione Sovietica non esistevano più alternative plausibili alla democrazia liberale. Ciò significa che a suo avviso questo tipo di ordinamento era destinato a propagarsi, senza incontrare ostacoli significativi, all’intero pianeta. E non è tutto. A partire da simili premesse era plausibile pensare che la stessa democrazia liberale potesse, e dovesse, essere “esportata” nei contesti storico-geografici in cui non era ancora insediata. Al 2004 risale infatti un altro suo saggio, intitolato significativamente Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo. Inutile rammentare il grande impatto che tali opere ebbero sul mondo politico ancor più che su quello accademico, consentendo da un lato all’autore di sviluppare una brillante carriera in prestigiose università degli Stati Uniti e, dall’altro, di figurare quale consulente di enti governativi americani. Ora Fukuyama torna sull’argomento con un altro articolo, uscito presso la rivista Vita e Pensiero, in cui sostiene di essere stato frainteso da molti. In un primo momento sembra quasi rinunciare al concetto di “fine della storia”, che lo ha per l’appunto reso celebre, equiparandolo ad altri certamente più innocui quali “sviluppo” e “modernizzazione”. Ma i conti non tornano e, subito dopo, sostiene che «la ‘fine’ della storia indicava lo scopo o l’obiettivo, più che non la sua conclusione; la ‘fine della storia’ poneva quindi la questione della finalità o del punto terminale dello sviluppo umano e del processo di modernizzazione.»
Tutto chiaro? Per niente, vien fatto di rispondere. In realtà l’autore continua a dimostrare di essere un convinto hegeliano, e da questo punto di vista occorre dargli atto di essere riuscito a rendere popolare Hegel in un contesto culturale, come quello anglo-americano, che al pensatore tedesco non ha mai tributato grandi onori, preferendogli sempre i classici della tradizione empirista. Tuttavia pure in quest’ultimo articolo troviamo affermazioni che paiono francamente superficiali, anche se tale impressione è mitigata dal fatto che Fukuyama, dopo tutto, ha il coraggio di imbarcarsi in un’impresa che i più ritengono datata e votata all’insuccesso. Vale a dire l’elaborazione di una vera “filosofia della storia” speculativa, come fece il suo maestro Hegel e altri dopo di lui. Un esempio di superficialità, almeno ad avviso di chi scrive, lo troviamo nelle seguenti parole: «La migliore indicazione che la storia va chiaramente nel senso del progresso sta forse nel fatto che, ogni anno, milioni di persone di Paesi poveri, caotici o repressivi, cercano di raggiungere con le loro famiglie Paesi situati ‘alla fine della storia’ – ossia ricchi, stabili e democratici -, che offrono loro delle possibilità di sviluppo individuale.» Affermazione sorprendente, non appena si pensi a quante volte, e proprio nella storia, nazioni ricche e stabili siano in tempi rapidi decadute privando i loro stessi cittadini delle opportunità minime di sviluppo individuale. Spesso senza quasi rendersi conto di quanto stava avvenendo. In conclusione, a trent’anni di distanza il giudizio su Fukuyama non cambia. È un autore che si legge con piacere e che indubbiamente fa riflettere, anche solo per criticarlo. Permane però una debolezza di fondo nelle sue premesse teoriche che si riflette, inevitabilmente, sulle conclusioni che egli ne trae.
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