La battaglia di Hué, svolta cruciale nella guerra del Vietnam

Categoria principale: Storia
Categoria: Storia Contemporanea
Creato Venerdì, 24 Giugno 2022 16:08
Ultima modifica il Venerdì, 24 Giugno 2022 16:08
Pubblicato Venerdì, 24 Giugno 2022 16:08
Scritto da Michele Marsonet
Visite: 1299

A 47 anni dalla sua fine gli americani non riescono a scordare il conflitto vietnamita, anche perché si tratta della prima guerra perduta dagli Stati Uniti. Libri e documenti continuano a uscire e le opinioni su quegli eventi diventano sempre più critiche. Eppure non è così facile distinguere con un taglio netto il bene dal male, i buoni dai cattivi come si faceva con molta faciloneria nel periodo della contestazione studentesca in Italia e altrove.

Un ulteriore e prezioso contributo viene ora fornito da Mark Bowden con il volume Hué 1968. L’anno cruciale della sconfitta americana in Vietnam (edito da Rizzoli). L’autore, che è un noto giornalista investigativo, conferisce alla narrazione un taglio quasi cinematografico che rammenta le celebri scene di film dedicati al Vietnam come “Platoon” di Oliver Stone e “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick.

Siamo dunque nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968, quando si celebra il Tet, il capodanno vietnamita che è considerato il giorno più importante del calendario locale. Durante le celebrazioni ogni operazione militare, per tacito accordo, si ferma e a tutti viene concessa la possibilità di festeggiare in pace. Finora era sempre andata così ma, quell’anno, ad Hanoi si decise altrimenti. Nonostante le perplessità di Ho Chi Minh e del leggendario generale Giap (il vincitore dei francesi a Dien Bien Phu), alcuni giovani emergenti del partito comunista vietnamita decidono di lanciare una grande offensiva nel Vietnam del sud che coinvolge piccoli e grandi centri inclusa la capitale Saigon.

Ma è soprattutto a Hué, l’antica capitale imperiale nella parte centrale del Paese, che si scatena l’inferno. Come sempre i nordvietnamiti e i loro alleati vietcong sono abilissimi a dissimulare i preparativi, e la sorpresa è totale. In realtà gli americani e i loro alleati del sud si attendevano un attacco più a settentrione, vicino alla zona demilitarizzata che segna il confine tra i due Vietnam. E il comandante Usa, generale William Westmoreland, continua a crederci sino alla fine a dispetto dell’evidenza contraria.

Il risultato è che la scarna guarnigione locale, e un pugno di marines americani, si trovano ad affrontare una forza nemica immensamente superiore che ammonta a ventimila uomini. Nei primissimi giorni di combattimento le richieste di rinforzi non vengono accolte poiché Westmoreland e altri generali Usa ritengono che i comandanti impegnati a Hué stiano esagerando. In realtà gli strateghi di Hanoi hanno concentrato proprio nell’antica capitale imperiale lo sforzo maggiore, pur riuscendo a colpire, con un commando vietcong, addirittura l’ambasciata Usa a Saigon.

 

La presa di coscienza del comando militare americano è terribilmente lenta, il che consente ai nordvietnamiti di occupare quasi per intero la città. Quando i rinforzi cominciano ad arrivare la situazione lentamente cambia, ma i marines – che di solito combattono nella giungla – ora devono affrontare e snidare il nemico casa per casa, un tipo d’azione cui non sono abituati. Hué si trasforma insomma in una sorta di piccola Stalingrado.

Nel frattempo nordvietnamiti e vietcong conducono una feroce pulizia politica giustiziando sommariamente tutti coloro che erano giudicati vicini al governo di Saigon. E infatti un numero enorme di cadaveri verrà alla fine della battaglia ritrovato in numerose e grandi fosse comuni, quasi tutti uccisi con un colpo alla nuca. La svolta della battaglia si ha quando il comando americano autorizza il bombardamento degli edifici occupati dai nemici, prima negato per non danneggiare il patrimonio storico e architettonico di Hué.

Tra atti di eroismo militare da entrambe le parti e decisioni assurde imposte da comandanti americani lontani dal teatro di guerra, il peggio tocca come sempre ai civili presi tra due fuochi, civili cui venivano chieste prove di fedeltà tanto dagli uomini di Saigon quanto da quelli di Hanoi. Il conteggio delle vittime civili fu altissimo, anche se ciò non era un’eccezione nel conflitto vietnamita. Si noti che la battaglia, iniziata il 30 gennaio, terminò soltanto il 3 marzo 1968.

Dal libro emerge con chiarezza che gli Stati Uniti riponevano troppa fiducia nella loro enorme superiorità tecnologica, a loro avviso in grado di condurli infallibilmente alla vittoria. Robert McNamara, Segretario alla Difesa dal 1961 al 1968, prima con John Kennedy e poi con Lyndon Johnson, era un tecnocrate convinto che la guerra potesse essere resa razionale e comprensibile con l’uso delle statistiche. Elaborò quindi il concetto del raggiungimento di “un punto di passaggio critico”: quello del momento in cui i soldati americani avrebbero ucciso più nemici di quelli che i nordvietnamiti potevano rimpiazzare. Di lì in avanti, il Pentagono si aspettava che le forze comuniste si arrendessero, perché sarebbe stata l’unica scelta razionale da fare. Si noti che il generale Westmoreland aderì in pieno a tale visione regolando in base a essa la sua strategia.

Naturalmente non funzionò mai. Negli Stati Uniti ogni singolo caduto contava e, quando le perdite cominciarono ad aumentare sempre più, l’opinione pubblica manifestò una crescente ostilità alla guerra che infine sfociò in aperta ribellione. La leadership di Hanoi e i vietcong non avevano questo problema, poiché in quel regime dittatoriale non c’era un’opinione pubblica indipendente dal partito, e ai vietnamiti importava in primo luogo l’unificazione nazionale a prescindere dal numero dei morti sul campo.

Bowden sottolinea che la vittoria del Nord, militarmente meritata, non fu tutta rose e fiori come tanti intellettuali del tempo la dipinsero. Buona parte della popolazione del Sud non voleva vivere sotto un regime comunista per di più duro, qual era quello di Hanoi. E la tragedia dei boat people in fuga su imbarcazioni di fortuna nel Mar Cinese Meridionale ne è la testimonianza più eloquente. Inoltre le differenze tra Nord e Sud non sono mai cessate. Chi visita ora Ho Chi Minh City nota subito che per i locali la città si chiama ancora Saigon, e capita di incontrare persone che non nascondono di aver collaborato con gli americani.

Si aggiunga, infine, che molti giovani vietnamiti oggi si chiedono come sarebbe ora il loro Paese se avesse vinto il Vietnam del Sud appoggiato dagli americani. La risposta più comune è che sarebbe una delle “tigri asiatiche” economicamente sviluppate come Taiwan o la Corea meridionale. Una situazione molto complicata, dunque, in cui le ferite della guerra sono ancora vive e la linea divisoria tra bene e male non è – come dicevo dianzi – netta e precisa.