Le critiche pragmatiste alla logica formale
John Dewey anticipò le critiche che in seguito i rappresentanti della svolta postempirista rivolgeranno alla concezione neopositivista della logica formale. Gli obiettivi polemici di Dewey sono l’atomismo (sia logico che psicologico) e il dualismo kantiano. Il filosofo americano denuncia infatti l’astrattezza e la mancata corrispondenza con la realtà del carattere frammentario dell’esperienza umana che costituisce l’eredità negativa dell’empirismo tradizionale, eredità che - egli sostiene - finisce col rafforzare il classico dualismo di Kant. Ora, non v’è dubbio a suo avviso che esista una stretta interrelazione fra gli sviluppi della logica formale e la presupposizione di “atomi” di esperienza, o dati elementari, che devono a loro volta essere tradotti in “proposizioni atomiche”. Un’altra e parallela tendenza della logica contemporanea è - sempre secondo Dewey - quella di dar vita a sistemi formali che risultano così lontani dagli ambiti di conoscenza cui possono servire da dare spesso l’impressione della costruzione tecnica più o meno gratuita. Ad ogni modo la logica così intesa riguarda, secondo la sua opinione, più la sistemazione di ciò che già si conosce che la conoscenza del nuovo, o almeno non ha quell’importanza per la conoscenza del nuovo - e cioè per l’indagine vera e propria - che a Dewey sta cuore. Ne consegue che i calcoli logici intesi nel senso anzidetto, secondo Dewey, servono a poco. E, in particolare, non servono quando si tenta di sottoporre le vicende umane a trattamento scientifico. Per Dewey la dimensione logica costituisce un’espressione organica della dimensione pratica, nel senso che logica da un lato e prassi dall’altro non possono essere artificialmente scisse: l’unica logica valida è quella che funziona praticamente. Egli vuole evitare le difficoltà che si pongono quando si cerca di far incontrare una “materia” empirica ed una “forma” razionale scisse ab initio, e intende così eliminare l’immediato, il fatto puro, il meramente sensoriale dal campo della ricerca. Il suo “modello dell’indagine” si inserisce in un quadro di evoluzione biologica e sociale: esso costituisce null’altro che un’articolazione, che è resa possibile dalle capacità del linguaggio e delle transazioni vitali che necessariamente esistono fra ogni individuo biologico e l’ambiente in cui vive. La disputa che nei tardi anni ’30 del secolo scorso oppose Bertrand Russell a John Dewey si svolse proprio seguendo i questi binari: da un lato la presupposizione russelliana della possibilità di fare certe assunzioni sul mondo prescindendo dall’esperienza che ne abbiamo; dall’altro la tesi deweyana della natura interattiva e transazionale del nostro “prestare attenzione alle cose”. George H. Mead, collega di Dewey e maestro di Hilary Putnam, ha riassunto in modo tanto sintetico quanto efficace la posizione pragmatista a proposito della logica formale. Egli parte dalla constatazione, che “in ambito scientifico è del tutto impossibile distinguere entro un oggetto il fatto da quello che può essere un’idea. Vi è una forte tentazione a collocare queste presunte strutture dei fatti in un mondo di oggetti concettuali - molecole, atomi, elettroni e simili - perché questi oggetti sono per definizione quanto meno al di là dell’universo percettivo. Sembrano appartenere a un regno di cose in sé, se ne studiamo la struttura entro l’universo dei costrutti scientifici, notiamo che il loro carattere infrasensibile è dovuto solo alla natura dei nostri processi sensoriali, non a una differente essenza metafisica”. Mead prosegue poi osservando che, dipendendo le nostre analisi scientifiche dalla forma che assumono i nostri oggetti, non esiste un procedimento analitico generale cui la scienza si sia attenuta dalle origini ai giorni nostri. Diventa quindi illusoria la pretesa russelliana di giungere ai cosiddetti “fatti atomici” che non sono ulteriormente scomponibili: “E’ possibile operare con dati sensoriali più o meno atomici, disponendoli in modo da soddisfare le variabili apparenti delle proposizioni, e arrivare a conclusioni formalmente corrette. Il problema è che nessuno scienziato ha mai scomposto il proprio oggetto in simili dati sensoriali, che esistono solo nei libri di filosofia”. La sua conclusione è che “l’astrazione completa dal contenuto ha relegato le condizioni del pensiero universalmente valido così lontano dai problemi concreti della scienza che la logica simbolica non è mai stata usata come metodo di ricerca. Essa ha in effetti evidenziato il fatto che il pensiero tratta problemi che riguardano usi cui può applicarsi, non un mondo metafisico al di là dell’esperienza. La logica simbolica ha a che fare con l’universo del discorso, non con il mondo delle cose”. Questo dunque è il contesto in cui si inserisce la concezione della logica proposta da Dewey, e che la differenzia da quella divenuta usuale ai giorni nostri. Secondo il filosofo americano l’uso della simbolizzazione non garantisce automaticamente la validità dei processi di ragionamento logico. Egli ritiene invece che vi sia uno stretto legame tra lo sviluppo della logica formale contemporanea e la presunta presenza di “atomi di esperienza”, o dati elementari, che a loro volta dovrebbero essere tradotti in proposizioni atomiche. D’altro canto è chiaro che per Dewey (e per tutta la tradizione pragmatista, sia vecchia che nuova), la visione scientifica del mondo non deve per forza di cose essere una visione positivista. Il pragmatismo, in tutte le sue varie correnti e sottocorrenti, ha sempre respinto ogni dicotomia tra giudizi di fatto e giudizi di valore, mentre neopositivisti e neoempiristi ponevano questi ultimi nella sfera interiore delle emozioni e dei sentimenti. Ma questo rifiuto è ben diverso da quello del positivismo, che adotta a questo riguardo un atteggiamento riduzionistico. Dal punto di vista pragmatista la dimensione logica fa parte integrante della dimensione pratica, dal momento che logica e prassi non possono essere separate artificialmente da barriere rigide. In tale senso sussistono somiglianze tra la concezione pragmatista della logica (e del linguaggio) e le tesi dell’ultimo Wittgenstein. L’attitudine critica di Dewey nei confronti della logica formale va quindi cercata nel fatto che, a suo avviso, questo tipo di logica non è in grado di catturare l’enorme complessità del mondo reale. Secondo la sua prospettiva la logica è significante soltanto nel più vasto contesto della metodologia della ricerca, e in tale contesto essa gioca un ruolo prezioso, ma strumentale.
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