Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il secondo Wittgenstein

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Nei tardi anni ’20 del secolo scorso, a Cambridge, Wittgenstein strinse amicizia con il celebre economista italiano Piero Sraffa, esule in Inghilterra dopo l’avvento del fascismo.

Narra la leggenda wittgensteiniana che fu proprio Sraffa, con il suo pragmatismo tipicamente napoletano, a convincere il filosofo austriaco a rivedere il punto di vista sostenuto nel Tractatus.

C’è infatti un aneddoto che chiarisce bene questo aspetto.

Secondo un racconto che pare risalire allo stesso Wittgenstein, egli insisteva in una discussione con Sraffa che una proposizione e ciò che essa descrive debbono avere la stessa “forma logica” o, il che è equivalente, la stessa “grammatica”.

A tale considerazione Sraffa, con un tipico gesto napoletano, si passò la punta delle dita di una mano sotto il mento e domandò: «Qual è la forma logica di questo?»

L’esempio concreto formulato da Sraffa avrebbe convinto Wittgenstein della non validità della teoria sostenuta nel Tractatus secondo cui una proposizione è una “immagine” della realtà che descrive.

Tutto ciò è molto importante poiché, indipendentemente dalla reale portata dell’episodio, le conversazioni con Sraffa indicarono a Wittgenstein un modo “antropologico” di affrontare i problemi filosofici.

 

Il Tractatus, infatti, analizza il linguaggio prescindendo del tutto dalle circostanze nelle quali viene utilizzato.

Le Ricerche filosofiche invece non si stancano di sottolineare l’importanza della “corrente di vita” che conferisce alle espressioni linguistiche il significato loro proprio: un gioco linguistico non si può descrivere senza fare riferimento alle attività e al concreto modo di vita degli individui che lo giocano.

Tornando al tema dei rapporti tra linguaggio ed etica, Wittgenstein disse una volta a Schlick che l’etica è il tentativo di dire ciò che non può dirsi: di avventarsi contro il limite del linguaggio.

È molto importante, affermava il filosofo austriaco, por fine a tutte le chiacchiere sull’etica, se vi siano valori, se vi sia una conoscenza, se si possa definire il bene, etc.

D’altra parte, però, è altrettanto importante rendersi conto che l’inclinazione a dire non-sensi indica qualcosa. E Wittgenstein disse di potersi immaginare molto bene quel che Heidegger intendeva, per esempio, con i termini “essere” e “angoscia” (in affermazioni del tipo: «Ciò per cui si prova angoscia è l’essere-nel-mondo in quanto tale») e anche di capire Kierkegaard quando parlava di «questo sconosciuto contro il quale l’intelletto va a sbattere nella sua passione paradossale.»

A suo parere, i membri del Circolo di Vienna dovevano mostrare e non dire quello che volevano fare. Nota Ray Monk: «Nelle lezioni universitarie Wittgenstein ribadisce spessissimo che non sta presentando una teoria filosofica bensì fornendo gli strumenti per liberarsi dal bisogno di una teoria del genere.La sintassi, la grammatica del nostro pensiero, contrariamente a quanto riteneva in precedenza, non possono né delinearsi né rivelarsi sulla base dell’analisi, sia essa fenomenologica o di altro tipo. Nel corso delle nostre ricerche non arriviamo mai alle proposizioni fondamentali; raggiungiamo la frontiera del linguaggio che ci impedisce di continuare a porre ulteriori domande. Non raggiungiamo il fondo delle cose, ma perveniamo ad un punto in cui non possiamo più procedere, in cui non possiamo porre ulteriori domande».

Assai interessante è il paragone con Oswald Spengler, autore del tutto estraneo all’orizzonte concettuale neopositivista ed analitico.

L’enfasi con la quale Wittgenstein sottolinea l’esigenza di vedere le connessioni istituisce un preciso legame tra la sua filosofia e il Tramonto dell’Occidente di Spengler, offrendo nello stesso tempo una chiave per comprendere la connessione tra il pessimismo culturale e i temi della sua opera posteriore.

Nel Tramonto dell’Occidente Spengler opera una distinzione tra “principio della forma” (Gestalt) e “principio della legge” (Gesetz): col primo si ha l’avvento della storia, della poesia e della vita, col secondo quello della fisica, della matematica e della morte. Sulla base di questa distinzione, Spengler enuncia un principio di portata generale: «Il mezzo per conoscere le forme morte è la legge matematica. Il mezzo per intendere le forme viventi è l’analogia.»

Ne deriva che Spengler era interessato a comprendere la storia non tanto sulla base di leggi quanto a cercar di “vedere” le analogie tra le diverse epoche culturali.

Il suo bersaglio privilegiato era la storiografia travestita da scienza della natura, perché in una ricerca come la presente non può trattarsi di assumere gli avvenimenti politico-sociali nei loro aspetti esteriori per ordinarli secondo “causa” ed “effetto”.

In sostanza Spengler era il sostenitore di una concezione storiografica per cui il compito dello storico non consiste nel collezionare fatti cui fornire spiegazione, bensì nel cogliere il significato degli eventi “vedendone” le relazioni morfologiche. Il metodo filosofico di Wittgenstein si colloca nello stesso solco.

Nel corso di una lezione ebbe a dire: «Ciò che vi dò è la morfologia dell’uso di un’espressione. Stiamo infatti confrontando una forma di linguaggio col suo ambiente, o lo trasformiamo in modo immaginario al fine di acquisire una visione panoramica dello spazio in cui la struttura del nostro linguaggio si colloca.»

Si noti, ancora una volta, il completo rovesciamento delle tesi neopositiviste. Per i Viennesi (e per i pensatori analitici in generale) Spengler è un autore “tabù”, un irrazionalista le cui idee non sono nemmeno degne di essere prese in considerazione.

Nel campo della storiografia essi partono dal principio del riduzionismo, intendendo quindi ridurre la storiografia (ma anche la sociologia o la scienza politica) alle discipline naturali (e alla fisica in primis).

Il metodo scientifico è uno, e non si può introdurre una divaricazione tra le scienze della natura e quelle che gli storicisti definiscono “scienze dello spirito”.

Carl Gustav Hempel e Popper, ad esempio, elaborano un modello di spiegazione scientifica destinato ad assimilare la storiografia alla scienza naturale, assimilazione che passa attraverso criteri di tipo metodologico, ma che lascia pure intravvedere il comune sostrato ontologico del mondo umano e di quello naturale.

Man mano il secondo Wittgenstein si avvicina alle tesi del pragmatismo. Afferma infatti che l’azione e l’attività sono primari, e che non derivano né razionalità né giustificazione da qualsiasi teoria noi si possa mettere in campo.

Detta affermazione è vera sia per quanto riguarda il linguaggio e la matematica sia per quanto riguarda l’etica, l’estetica e la religione. A volte si stabiliscono le regole di un gioco e si viene poi a scoprire che in certi casi si contraddicono. Che dobbiamo fare in casi del genere?

Molto semplice: introdurre una nuova regola e il conflitto è risolto; non abbiamo bisogno della logica di Frege e di Russell per servirci della matematica, così come non abbiamo bisogno dell’analisi di Moore per servirci del linguaggio comune.

Il problema della giustificazione di un gioco non si pone nemmeno: chi è in grado di giocarlo lo è anche di capirlo. Non si può mai giustificare la sintassi, e la connessione tra una parola e il suo significato non la si deve trovare in teoria bensì in pratica, nell’uso della parola.

La connessione diretta tra regola e sua applicazione, tra parola e atto, non può delucidarsi mediante un’altra regola: dev’essere vista. «L’essenziale è vedere: non abbiamo un sistema finché non lo vediamo.»

Questa concezione, come quella di Spengler, sottolinea l’importanza e la necessità di quella «comprensione che consiste nel vedere le connessioni.»

Nota Ray Monk: “Ciò che differenziava il suo rifiuto della metafisica da quello dei positivisti logici era in prima istanza lo spirito cui si informava.

Come il discorso non è essenziale alla religione, così le parole non sono essenziali per rivelare ciò che è vero, o profondo, in metafisica.

La profondità della metafisica, come della magia, consiste nell’espressione di un sentimento fondamentalmente religioso: il desiderio di infrangere i limiti del linguaggio di cui Wittgenstein aveva parlato in relazione all’etica.

Il desiderio di oltrepassare i confini della ragione, il kierkegaardiano “salto nella fede”. Per questo desiderio Wittgenstein nutriva un profondo rispetto, in tutte le sue manifestazioni: fossero la filosofia di Kierkegaard o di Heidegger, le Confessioni di Sant’Agostino, la devozione degli ordini monastici”.

È assai interessante, a questo proposito, l’accenno alla magia, dimensione che i neopositivisti escludevano dall’ambito del discorso, né si può scordare il grande interesse wittgensteiniano per il mito, testimoniato dalle sue note sul Ramo d’Oro di Frazer.

Il Libro marrone prende le mosse da una delle grandi cause di disorientamento filosofico, cioè la tendenza a cercare una cosa che corrisponda a un sostantivo. Insomma, ci chiediamo: «Che cos’è il tempo?», «Che cos’è il significato?», «Che cos’è la conoscenza?», «Che cos’è il pensiero?», «Che cosa sono i numeri?» etc., e poi riteniamo di poter rispondere a queste domande nominando una cosa.

La tecnica dei giochi linguistici vuole combattere tale tendenza. In altri termini, il filosofo soggiace alla tentazione di fraintendere, di cui l’uomo comune non è vittima: avvertiamo la sensazione che quando l’uomo comune parla di “bene”, “numero” etc., in realtà non sa bene di che cosa stia parlando.

Vediamo qualcosa di strano nella percezione e lui invece ne parla come di una cosa normalissima. Possiamo dire che sa di che cosa parla oppure no? Si possono dire entrambe le cose. Immaginiamo di giocare a scacchi.

Ci si pongono strani problemi quando esaminiamo le regole e le sottoponiamo al vaglio della critica. Invece Rossi e Bianchi giocano a scacchi senza nessuna difficoltà. Capiscono bene il gioco? Possiamo rispondere: «Be’, lo giocano.»

C’è dunque il desiderio di cominciare a giocare invece di sottoporre le regole del gioco al vaglio della critica. In questo senso - ma solo in questo - il secondo Wittgenstein è anti-metafisico. In sostanza Wittgenstein, constatando che le domande metafisiche restano senza risposta, considera “mondo” e “vita” in quanto si auto-giustificano.

Nulla v’è da scoprire. Limitiamoci a partecipare al gioco in cui - volenti o meno - ci troviamo inseriti, e i problemi scompariranno: «I risultati della filosofia sono la scoperta di un qualche schietto non-senso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio. Essi, i bernoccoli, ci fanno comprendere il valore di quella scoperta.»

I giochi linguistici non vengono introdotti per “regolamentare” il linguaggio quotidiano, come si proponeva di fare il Tractatus, bensì come termini di paragone che vogliono far luce, attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del nostro linguaggio. I problemi filosofici, quindi, devono svanire completamente.

La vera scoperta è quella che ci rende capaci di smettere di filosofare quando vogliamo. Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema.

I risultati della filosofia sono, appunto, la scoperta di qualche schietto non-senso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio (dal che si vede come, in ogni caso, il linguaggio resta intrascendibile anche per il secondo Wittgenstein).

Il punto in questione, secondo Wittgenstein, è che i criteri del ragionamento corretto o scorretto non possono far riferimento a un mondo esterno come quello delle verità platoniche, ma si basano invece su se stessi, su una convenzione o un uso e, forse, sulle nostre esigenze pratiche. La convenzione di usare dei regoli rigidi anziché elastici non è più vera ma, semplicemente, più pratica. Il risultato di una dimostrazione matematica non è mai la verità di una proposizione empirica, bensì la determinazione di una regola applicabile in modo generale.

 

 

 

 

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