Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Che cosa conosciamo?

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La nostra conoscenza ha, adottando un’ottica pragmatista e in particolare deweyana, un carattere essenzialmente transazionale, dove per “transazione” s’intende un processo che non comprende fattori rigidamente determinati sin dall’inizio, bensì elementi le cui caratteristiche vengono stabilite nello svolgersi del processo medesimo.

Di qui le critiche di Dewey alla logica standard che è basata su alcune assunzioni ontologiche forti, vale a dire:

(A) esiste un dominio di oggetti chiaramente identificabili, e (B) vi sono delle relazioni stabili tra essi.

Chiediamoci allora se i termini (a) “esistenza” e (b) “realtà” possano essere identificati, o se debbano invece essere tenuti distinti. Se partiamo dal presupposto che una distinzione sia legittima, possiamo dire che (a) si identifica con “apparenza”, mentre (b) è la realtà in quanto tale.

Questa è la strategia seguita da idealisti come Bradley. Se invece seguiamo il sentiero kantiano, (a) corrisponde agli “oggetti esperibili” (fenomeni), mentre (b) si identifica con le “cose-in-sé” (noumeni).

Si potrebbe obiettare che, tracciando una distinzione di questo tipo, non possiamo dire alcunché di significante a proposito del mondo in sé, inteso come realtà indipendente dalle indagini che gli esseri umani svolgono. Ovvero, vi sarebbe un mondo naturale che esiste indipendentemente dal fatto che noi entriamo o meno in contatto con esso. Tuttavia questo mondo è anche ambiente solo nella misura in cui ha a che fare, direttamente o indirettamente, con le funzioni vitali dell’organismo.

Ad ogni modo - afferma la tradizione pragmatista - si può dire ben poco circa le cose prima che esse entrino nel raggio d’azione della nostra indagine.

L’errore consiste nel pensare a situazioni che fanno parte del mondo indipendentemente dagli effetti che la nostra ricerca ha su di esse. Sostenendo che non si può dire gran che circa la natura delle cose prima che entrino nel raggio d’azione della nostra indagine, si presuppone una distinzione - che appare intuitivamente fondata - tra (1) cose esperite e (2) cose indipendenti dall’esperienza.

 

Se affermo che non posso dire molto circa (2), non sono affatto costretto a negare che vi sia un mondo indipendente dall’esperienza. Per esempio, è legittimo sostenere che c’è stato un tempo in cui non vi erano soggetti conoscenti che esperissero il mondo, e la storia naturale ci insegna in fondo proprio questo.

In termini kantiani, si potrebbe anche dire che c’è un mondo indipendente dalla nostra attività sensoriale e dai particolari modi in cui essa si esplica. Ma occorre fare attenzione, perché il punto è molto delicato. Se parliamo di organismi e di ambiente, e di interazioni tra quest’ultimo e gli organismi, facciamo sempre riferimento a certi aspetti della realtà che si collocano al di fuori dei contenuti e dei risultati delle indagini poste in essere dai soggetti conoscenti.

Tuttavia, è altrettanto chiaro che dobbiamo pur delineare una qualche cornice concettuale in base a cui la formulazione di una teoria dell’indagine risulti possibile. In altri termini il tempo in cui non vi erano soggetti conoscenti possiamo solo immaginarlo e ricostruirlo in base a una cornice in cui i soggetti conoscenti sono presenti.

È la nostra indagine che ci consente di far questo, ed è il ricorso alla dimensione della “possibilità” che fornisce la chiave per procedere su questa strada. Il tempo in cui i soggetti conoscenti non c’erano può essere immaginato e ricostruito soltanto in riferimento a un tempo in cui tali soggetti ci sono.

Quel tempo è pur sempre visto attraverso gli occhi della mente, ed è lo schema concettuale che noi abbiamo ora a permetterci di formulare ipotesi e giudizi.

Tutto ciò ha, nonostante le apparenze contrarie, degli effetti importanti sulla concezione della logica. In altre parole: l’esperienza gioca o no un ruolo anche nella formulazione delle leggi logiche? Il contrasto divide chi ritiene che dal fattore-esperienza non si possa comunque prescindere, e coloro (una parte della tradizione analitica) i quali invece sostengono che l’esperienza si colloca al di là degli interessi propriamente logici.

Si può concordare sul fatto che la nostra esperienza del mondo è tale che consiste di oggetti che hanno proprietà e stanno in relazione tra loro. Tuttavia, il modo in cui la realtà si manifesta al soggetto dipende, a sua volta, dalla prospettiva operativa che il soggetto ha nel mondo.

Con ciò si potrebbe anche dire che oggetti, proprietà e relazioni, che svolgono in logica un ruolo primario (particolarmente a livello semantico, e cioè nell’interpretare un linguaggio e nello stabilire condizioni di verità per gli enunciati), dovrebbero essere trattati come elementi della nostra esperienza.

Questo significa che essi sono, a un tempo, prodotti e strumenti dell’attività conoscitiva, e non dovrebbero invece essere visti come indipendenti dalla - e precedenti alla - ricerca stessa. Dunque, la costruzione di una cornice concettuale precede in ogni caso l’elaborazione di qualsiasi teoria semantica. Il punto è stabilire dove termina la costruzione della cornice e comincia la logica propriamente detta.

Se leggiamo Bertrand Russell, egli afferma che dobbiamo essere in grado di fare certe assunzioni di base intorno al mondo indipendentemente dalla nostra esperienza di esso. Per Russell il mondo è diviso in oggetti che hanno proprietà e stanno in relazioni reciproche: dobbiamo soltanto “aprire gli occhi” per notare tali fatti.

Questi fatti, a loro volta, non sono prodotti dell’esperienza, in quanto è piuttosto la nostra esperienza ad essere ancorata ai fatti. Una proposizione è vera se esprime un fatto, ed è falsa altrimenti. Ne consegue che la logica è lo studio degli aspetti formali di sistemi linguistici. L’attenzione è rivolta, in modo particolare, agli aspetti sintattici di detti sistemi, ed è in tale contesto che la logica svolge le proprie indagini.

Se si adotta la visione di Russell si abbraccia quella che Dewey definisce la “teoria della conoscenza da spettatore” (spectator theory of knowledge). Secondo tale visione possiamo dire come il mondo realmente è indipendentemente dalla nostra partecipazione. Si assume cioè che vi sia un mondo “pieno di fatti” senza chiederci come entriamo in contatto con essi nella nostra esperienza.

Russell presuppone che gli esseri umani siano in grado di entrare in contatto immediatamente con le cose “prestando loro attenzione”, come se ciò permettesse di ottenere una conoscenza di base e irrefutabile dei fatti stessi. Dewey e altri hanno replicato che questo significa ignorare il carattere interattivo del nostro prestare attenzione alle cose.

Ad esempio, la fisica classica newtoniana dà per scontato un netto distacco tra osservatore da un lato e oggetto osservato dall’altro. La scienza attuale, e in particolar modo la meccanica quantistica, revocano in dubbio proprio tale presupposto. Dalla scienza stessa, dunque, prima ancora che dalla filosofia, viene la smentita di questo quadro così semplice (perché così intuitivo).

Non perdiamo il contatto diretto con la realtà ammettendo che i fatti, in quanto tali, sono relativi a (o interni a) qualche schema concettuale.

Consideriamo un’analogia. Guidando la nostra automobile, notiamo che un’auto affiancata si muove a velocità costante rispetto alla nostra macchina.

Questo è un fatto semplice e reale, anche se non siamo in grado di dire a quale velocità quell’automobile stia viaggiando rispetto a un punto di riferimento assoluto. Che la velocità dell’altra automobile sia costante rispetto a noi non cessa di essere un “fatto” perché adottiamo la nostra posizione quale punto di riferimento.

Noi, letteralmente, non possiamo fare altro: non abbiamo punti di riferimento assoluti a disposizione. Gli schemi concettuali, a questo riguardo, sono prospettive operative nei confronti del mondo, e sono quindi simili a cornici di riferimento relative come quella che ho appena menzionato.

Nella misura in cui una proposizione contiene un riferimento almeno implicito alla prospettiva operativa impiegata per formularla, non c’è modo di ottenere, per così dire, un fatto “più fattuale” di questo. Non possiamo descrivere la realtà più concretamente di così, anche se possiamo descriverla in modo via via più accurato.

Non v’è motivo di ritenere che non si descrivano le cose “come realmente sono” perché ne parliamo adottando la prospettiva di un certo schema concettuale, dal momento che non vi è altro modo per farlo ora, e non v’è mai stato in passato.

È il nostro rapporto con il mondo, che è un’interrelazione organismo/ambiente, a dettare questi limiti. Non possiamo trascendere la prospettiva mediante la quale siamo in contatto con il mondo, e anche dire “entriamo in contatto con il mondo” è pericoloso, perché lascia supporre che ci sia un “prima” (quando non eravamo in contatto) e un “dopo” (quando lo siamo). In altri termini, non possiamo “staccarci” dalla realtà per guardarla da una prospettiva esterna a essa.

 

 

 

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