Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Gli errori dell’alto comando imperiale sul Piave

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I primi mesi del 1918 avevano mostrato sempre più chiaramente ai vertici politici e militari dell’Austria-Ungheria che l’impero si stava disfacendo internamente, a livello sia materiale, sia morale.

Il blocco navale aveva provocato una penuria di materie prime che inficiava sia la produzione bellica, sia anche e soprattutto il rifornimento alimentare di militari e civili ridotti alla fame. Una guerra lunga e durissima stava esasperando le fortissime divisioni nazionali e sociali che già in tempo di pace scuotevano il Reich asburgico, anche perché la disaffezione verso un impero che aveva condotto ad una tale catastrofe cresceva sempre più. L’alto comando asburgico pertanto aveva una sola opzione: attaccare l’esercito italiano sul Piave e vincere. Attendere avrebbe significato perire lentamente d’usura.

Se il concetto strategico di base era certo, una grande offensiva che doveva essere risolutiva, la sua applicazione concreta era dibattuta. Il fronte descriveva come una “S”, di cui la maggior parte si poneva sulle montagne dell’area altoatesina-trentina, la rimanente sul Piave.

Un settore del fronte però, quello che andava dalla frontiera svizzera sino al lago di Garda, era coperto da ambo le parti da poche unità, perché il terreno favoriva nettamente il difensore rispetto all’attaccante con le sue alte montagne.

 

Il settore centrale era quello che andava dal lago di Garda sino al Grappa. Infine vi era il settore del Piave, che concentrava su di sé la maggior parte delle divisioni.

Il capo di stato maggiore austriaco, il generale Arz von Straussenburg, era un uomo di buona preparazione militare, ma caratterialmente insicuro e troppo accomodante, in altre parole “debole”. Anziché essere il capo effettivo dell’esercito, come avrebbe dovuto, finiva con il fungere da paciere e diplomatico fra i suoi sottoposti per cercare di accontentarli.

Il capo di stato maggiore ed i suoi collaboratori coltivavano l’idea di concentrare le forze sul Piave, con obiettivo strategico Treviso, città su cui convergevano gli assi viari dietro il fronte italiano sul fiume e che aveva quindi un’importanza strategica decisiva negli spostamenti delle unità. Tale offensiva non avrebbe necessariamente condotto alla distruzione dell’armata italiana, che avrebbe potuto ritirarsi ad ovest, ma si sarebbe giovata di un terreno più favorevole all’attacco delle montagne trentine.

Il generale Conrad von Hoetzendorf, per prestigio il maggiore fra i militari austriaci, sebbene non fosse più capo di stato maggiore conservava una notevole autorità su buona parte dei suoi colleghi, sia perché era stato considerato per anni il migliore intelletto militare dell’impero, sia perché larga parte degli ufficiali superiori erano cresciuti alla sua scuola.

Egli era sicuramente un uomo risoluto, un valido organizzatore ed in possesso di doti strategiche, ma aveva anche difetti, fra cui quello di sottovalutare il nemico e, soprattutto, una visione dogmatica della guerra, che toglieva ai suoi piani la necessaria flessibilità.

Von Hoetzendorf era sempre stato un sostenitore dell’idea di una offensiva contro l’Italia a partire dal saliente trentino, come già nel 1916 con la famosa “spedizione punitiva”, ed ora ripropose quella che era una sua ossessione, derivante dal suo dogma della manovra volta ad accerchiare l’intero esercito nemico.

La sua proposta prevedeva di concentrare le forze sull’altopiano dei Sette Comuni, con un’azione secondaria sul Grappa. È vero che, in caso di sfondamento, quasi l’intero esercito italiano avrebbe rischiato di essere avvolto e circondato, perché la penetrazione nemica scagliata da nord e diretta a sud verso il mare (si pensava di raggiungere Padova e poi Venezia) avrebbe potuto tagliare fuori dalla linea di ritirata le divisioni schierate sul Piave.

Tuttavia, il generale non considerava che il terreno era sfavorevole ad un’offensiva con i suoi rilievi che offrivano validi punti di appoggio ai difensori, aveva ricevuto in più forti apprestamenti campali ed era tenuto da alcune delle truppe migliori degli italiani.

Di più, non era stato possibile sfondare nel 1916 nella zona dei Sette Altopiani, malgrado la situazione logistica precaria per il Regio esercito e la presenza d’opere difensive improvvisate. Anche se un ipotetico successo sarebbe stato foriero della pressoché totale distruzione dell’armata italiana (sarebbero scampate soltanto le poche truppe schierate sul fronte altoatesino-trentino occidentale), esso sarebbe stato improbabile su quel tratto del fronte.

Il rivale di Conrad von Hoetzendorf, Boroevic von Bojna, era invece un sostenitore dell’attacco sul Piave, ma non con uno sfondamento concentrato in un dato settore, come voleva Arz, bensì con un’offensiva su tutto il settore del fronte. Egli concordava che l’azione principale puntasse a Treviso, ma voleva anche due azioni secondarie, una a nord sul Montello e l’altra a sud alla foce del fiume.

Buon ultimo, il generale Krobatin voleva avere la sua parte di gloria ed insisteva per un’offensiva sul suo fronte, quello che copriva il settore esteso dalla frontiera svizzera al Garda. Malgrado le enormi difficoltà sia tattiche, sia logistiche, egli voleva sfondare sul Tonale per arrivare a Bergamo!

Il capo di stato maggiore Arz accontentò tutti; von Hoetzendorf, von Bojna, Krobatin. Il risultato fu un piano operativo che violava totalmente il principio della concentrazione delle forze, poiché l’esercito imperiale avrebbe attaccato praticamente ovunque: sull’intera linea del Piave (operazione Albrecht); sull’altopiano dei Sette comuni e sul Grappa (operazione Radetzky); persino sul Tonale (operazione Lawine).

A questo gravissimo errore di base risultato dal voler accontentare tutti i comandanti dei vari settori, Arz aggiunse ancora del suo. Egli avrebbe potuto e dovuto quantomeno scegliere una direttrice principale dell’offensiva fra i molti attacchi programmati (ben sei! Tonale, Altopiano dei sette comuni, Grappa, Montello, Treviso, foce del Piave), mentre invece decise che l’azione maggiore avrebbe dovuto essere una tenaglia di cui una branca data dal Conrad (sull’Altopiano) e l’altra dal Boroevic (verso Treviso).

Così facendo però le possibilità di una rottura diminuivano ancora: si poteva sperare di sfondare od in un punto, od in un altro, mentre non si avevano le forze per rompere lo schieramento italiano in ambedue. Inoltre per la distanza era impossibile che le due branche della tenaglia potessero essere realmente coordinate fra loro, per cui l’attacco era slegato. L’operazione Lawine poi era del tutto priva di rapporto con le altre e letteralmente eccentrica.

Una mescolanza di fattori personali, ambizione, rivalità, debolezza, intrigo, aveva condotto lo stato maggiore imperiale a predisporre un piano offensivo incredibilmente cervellotico e macchinoso, che mancava totalmente di ciò che von Clausewitz chiamò Schwerpunkt (il centro di gravità dell’azione, in cui si concentra il centro della forza disponibile) e che consisteva in una serie di attacchi su tutta la linea del fronte e scoordinati fra di loro. L’offensiva da cui dipendeva la sopravvivenza stessa dell’impero d’Asburgo era già compromessa prima della partenza.

 

 

Una presentazione del ponderoso studio dello storico ungherese Andras Siklos, che ricostruisce esemplarmente il retroscena della preparazione alla battaglia da parte austriaca, è riportata in Paolo Pozzato, Uno sguardo ungherese sulla battaglia del Solstizio, in Sandro Gherro (a cura di); 1918. La nostra vittoria cento anni dopo, Padova, 1918.

Un’ottima sintesi della famosissima battaglia del Solstizio è quella, accurata, completa ed equilibrata, storico Pierluigi Romeo di Colloredo, La Battaglia del Solstizio - Giugno 1918, Associazione Italia, 2008.

 

 

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