Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La Compagnia dei Bianchi della Giustizia

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Sin dalle origini, i confratelli della Compagnia dei Bianchi della Giustizia si erano assunti il triste compito di confortare i condannati a morte, disporne funerali e messe di suffragio ed assistere le famiglie. Da qui il nome Succurre Miseris, la cui origine si è voluta attribuire al francescano S. Giacomo della Marca che l’avrebbe fondata quando, nella seconda metà del Quattrocento, venne a predicare nella citta partenopea in cui morì nel 1476.

Da come riporta l’eccellente  lavoro del prof. Antonio Illibato, attuale direttore dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli  (La compagnia napoletana dei Bianchi della Giustizia – Napoli 2004), il sodalizio, che prese come divisa un saio bianco, avrebbe interrotto le proprie attività nei torbidi anni della congiura dei baroni.

Successivamente l’iniziativa fu ripresa da Ettore Vernazza e dal canonico regolare lateranense Callisto da Piacenza, che nel 1519, diedero vita alla Compagnia dei Bianchi della Giustizia. La confraternita ebbe sede nel monastero di S. Pietro ad Aram, da dove, nel 1524,  si trasferì nel cortile dell’ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili. I confratelli abitarono in una casa di proprietà di Maria Longo, fondatrice dell’ospedale e  delle suore cappuccine "Trentarè".


Qui i confratelli costruirono al cappella intitolata a Santa Maria Succurrere Miseris, che conserva tutt’ora pregevoli opere d’arte. Scopo della Compagnia era di – “procurare la salute dell’anima di quelli che sono a morte condannati, et visitare i miserabili imprigionati e gli spedali de li ammalati, e quelli spetialmente di mali incurabili infermi” -  come ancora è possibile leggere negli Statuti del 1525.

Nel corso dei secoli i Bianchi provvidero a rafforzare le proprie attività istituzionali ed a consolidare la vita interna del sodalizio, fino al 1862, quando i convulsi avvenimenti polito-sociali  inflissero un colpo mortale all’antica confraternita, ponendo subitaneamente fine alla sua attività. Le nuove autorità, verosimilmente anche per motivi di immagine, preferirono non dare più alle condanne a morte quella nota di cerimonia pubblica, da cui erano state contrassegnate fino a quel momento.

L’ultimo giustiziato ad essere “confortato” dai confratelli dei Bianchi fu il messinese Salvatore Gravagno,  soldato del  2° Granatieri, fucilato il 20 dicembre 1862, sotto il Fortino di Vigliena al Ponte.

Attualmente i Registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia, dopo essere stati scrupolosamente inventariati dal prof. Antonio Illibato,  sono custoditi presso l’Archivio Storico Diocesano di Napoli e rappresentano un patrimonio inestimabile di notizie che abbracciano tre secoli di storia.

Fino all'ultimo decennio del Novecento erano "seppelliti nella polvere" nella stessa cappella S. Maria Succurrere Miseris, presso l’ospedale degli Incurabili, e non solo i registri, ma anche oggetti appartenuti ai condannati a morte confortati dai Bianchi, da come racconta  Salvatore di Giacomo in un capitolo di  Luci ed Ombre Napoletane.


- Un giorno mi venne  voglia di visitar di persona quella Congregazione de Bianchi della Giustizia  di cui avevo tanto udito parlare e che alla storia conclusiva de’ rivoluzionari del novantanove si connetteva pur  tanto […]  Il reverendo Sorrentino  appariva sulla soglia della  “sala de’ fratelli”. Uno di quei vecchi preti napoletani, signorili, benevoli, simpatici, de’ quali lo stampo si va sempre più perdendo e che serbano tutto il loro austero candore e la loro fede, che s’occupano ancora di studi e a cui piace chiacchierare bonariamente […]

Nel cavo di uno stipetto si ammucchiavano scapolari, piccoli crocifissi, libriccini di preghiere, dalla vecchia e logora rilegatura, borsettine di cuoio, de’ coltellucci, de’ fascetti di immagine tenute assieme da un pezzo di spago, insomma tutto quello che aveva accompagnato fino al patibolo i condannati, o era stato tolto ad essi nella stanzuccia dell’ultimo conforto.

-  Questo -  disse il custode -  è il teschio di un soldato spagnuolo che fu fucilato. Ebbe la palla in fronte. Ecco …  - E mise l’indice in un buco nero che aveva proprio forato quella fronte in mezzo.
-  Questi sono gli abitini che portavano i condannati, questi i libretti in cui leggevano le ultime preghiere, queste le armi che ancora nascondevano.


-  E’ vero – chiesi al canonico – che si conservano qui pure le corde che accorsero per appiccarli?
- No – rispose – Si è sempre detto così, ma non è vero. Le corde erano raccolte dai fratelli perché il boia non ne facesse commercio. Si è sempre fatto a questo modo da quando i carnefici le cominciarono a barattare e i popolani a comprare , per portarne addosso qualche pezzetto contro il malocchio. […] Le norme per assistere i condannati sono raccolte in un vecchio libro.


Salimmo alle stanze superiori. Il buon canonico aperse uno stipo e ne cavò un in quarto rilegato in cartapecora.
- Cominciamo da uno dei più noti manuali  - sorrise e mi mise il libro sottocchi, nell’altra stanzuccia che è usata dagli studiosi per le loro ricerche. Cominciai a leggere […]


Era ancora luce del giorno in quella piccola camera silenziosa quando finii di trascrivere le prime pagine di quel libro, composto, se non mi sovvengo male, su’ primi anni del secolo decimo ottavo, da un prete di provincia. Mi voltai. Non c’erano più né il buon canonico né il custode: mi avevano discretamente lasciato alle mie compulsazioni e forse mi aspettavano in basso.

Qualcosa era, fra tanto, squadernata sotto gli occhi miei: la pandetta del 1799, quella che certo raccoglieva i nomi di tante vittime della lor funesta pazzia e della reazione implacabile della tragica coppia che riacquistava il suo regno e si vendicava. Sfogliai quelle pagine, soffermandomi a quando a quando, su qualcuna delle più suggestive…  Ecco la relazioni del supplizio di Gabriele Manthonè, ecco quelle degli ultimi momenti d’Ettore Carafa, di Ignazio Ciaja, del duchino di Cassano, Gennaro Serra, dei due Pignatelli, di Eleonora Pimentel Fonseca…

Don Domenico Cirillo andava appresso a don Mario Pagano, con berrettino bianco in testa e giamberga lunga di color turchino, e stentò molto a morire. Andiede alla morte con intrepidezza e presenza di spirto…


-  La chiesa si chiude – mi viene a dire il custode.


Mi levo. E’ già quasi l’ombra nella stanza. Il custode raccoglie i libri e li va a rinchiudere nello stipo. Ridiscendiamo la scaletta chi ci riconduce nella chiesa. Ora tutto qui è quasi nell’oscurità.

 

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