Lex Julia Majestatis. Il procedimento "ad modum belli et per horas"

Categoria principale: Storia
Categoria: Storia XVIII sec.
Creato Lunedì, 12 Dicembre 2011 23:39
Ultima modifica il Lunedì, 26 Agosto 2013 12:17
Pubblicato Lunedì, 12 Dicembre 2011 23:39
Scritto da Antonella Orefice
Visite: 4435


Introdotta come legge del regno borbonico, con rescritto del 21 luglio del 1771, la "Lex Julia Majestatis" prevedeva pene severissime per chiunque partecipava ad una congiura, escludendo ogni beneficio o diminuzione della pena, e contro i rei si procedeva "ad modum belli".

Era questo  un rito eccezionale in cui il termine a difesa era brevissimo: conclusa rapidamente l’istruttoria senza osservarne i normali termini, comunicata la sentenza, venivano concesse poche ore al difensore per prendere visione degli atti e preparare la memoria difensiva.

Difensore celebre per gli accusati di Lesa Maestà a seguito della prima congiura giacobina del 1794,  fu Mario Pagano. Contro la dottrina e la consolidata giurisprudenza napoletana, il Pagano sostenne l’insussistenza dell’illecito nel tentativo di cospirazione, in altre parole, sostenne il principio che non si poteva ritenere reo colui che non veniva raggiunto da prove che dimostrassero l’accusa.


Tentò inoltre di richiamare l’attenzione di chi doveva giudicare sullo stato di tensione in cui si trovavano  coloro che avevano finito per ammettere tutto ciò che avevano voluto gli inquirenti, sotto tortura.

Stimata "regina tormentorum" per l’intenso dolore che essa procurava, era la tortura "acre con funicelle". Si allacciavano dapprima i polsi rivolti dietro la schiena del  reo con una cordella rotonda e la si stringeva fino a lacerarne le carni. Poi se ne allacciava un’altra alle braccia e lo si sollevava.


Difensore impavido di una causa perduta, Mario Pagano tentò di demolire l’accusa contro i rei  ponendo in evidenza contraddizioni che soltanto la passione del difensore riusciva a vedere in un processo che, invece, dimostrò la sussistenza di un fatto, ossia che le leggi del tempo ritenevano un grave delitto la lesa maestà, punibile con le pene più severe.

I giudici si attennero alla legge ed alle prove raccolte e la sentenza fu quella più temuta: tre condannati a morte, Emmanuele De Deo, VincenzoVitaliano e Vincenzo Galiani e molti condannati a vita o a lunghe pene detentive.

Emmanuele De Deo, Vitaliano e Galiani, sono stati considerati i primi martiri della rivoluzione napoletana, ma  si omette di ricordare che il primo martire fu, invece, Tommaso Amato. L'omissione, probabilmente, è dovuta al non diretto coinvolgimento di Amato nel processo contro i rei di congiura, ma fu giustiziato il 17  maggio 1794  in piazza Mercato per aver  inveito verbalmente contro la monarchia durante una funzione religiosa nella chiesa del Carmine Maggiore.

Arrestato con l’accusa di lesa maestà divina ed umana, non solo gli furono recise  le mani  e  la testa, ma prima subì lo strascino e l’estirpazione della lingua, di poi il cadavere fu bruciato e le ceneri sparse al vento.

Nonostante il fallimento della congiura del 1794, le idee di Libertà e Uguaglianza si intensificarono nel cuore e nelle menti dei giacobini illuminati, e gli anni di detenzione a cui furono costretti, taluni patrioti fecero maturare un odio profondo ed irrefrenabile contro la monarchia. La storia proseguì con i regnanti che vigliaccamente scapparono da Napoli per Palermo, il 23 dicembre del 1798, lasciando la capitale nelle mani dei lazzari, mentre i Francesi giungevano scalpitanti con la loro Libertà, o almeno così sperarono quei pochi valorosi eroi asserragliati in castel Sant’Elmo quando, armati di passione ed ardente amor di Patria,  proclamarono la Repubblica Napoletana il 21 gennaio del 1799.