Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Le tre disfatte del proletariato torrese

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Negli anni andati non si scrivevano che le storie dei regni e degli imperi, oggi si scrivono anche quelle delle organizzazioni operaie.

I tempi sono cambiati: ciò ch’era in alto, scende maledettamente e ciò che era in basso fa il rovescio “il fango sale” dicono i filosofi del conservatorismo.

Noi narreremo la storia della lega fra i mugnai di Torre Annunziata che ci è parsa molto istruttiva pei proletari italiani, i quali, con essa videro passare sotto i loro occhi, come in un cinematografo, tutte le forme e le situazioni che si presentano nelle lotte del lavoro.

Torre Annunziata viveva dell’industria della pasta. I grani le giungevano dalla Russia su quattordici dei piroscafi.

Trecento lavoratori scaricanti, del porto legatori, barcaiuoli, facchini, misuratori, ecc., mettevano quei grani a riva; cinquecento mugnai li riducevano in semole, in grandi molini a vapore, ottocento pastai trasformavano queste semole in paste, in cinquantaquattro pastifici.

Duecento meccanici, fuochisti falegnami ne dirigevano e riparavano le macchine, altrettanti carbonai le fornivano di combustibile dal mare; trecento uomini della “carovana di piazza” facevano i servizi esterni con dei carretti a mano; cento carrettieri trasportavano le paste a Napoli; cinquanta facchini della “ciurma” della ferrovia le caricavano sui treni; cinquanta lanaiuoli su delle barche, delle lanze le menavano via del mare a piccole partite; e i già descritti lavoratori del porto, che fornivano la materia prima, cioè il grano, ricevevano poi il prodotto di ritorno e lo imbarcavano sopra le grosse navi per trasportarlo specialmente in America.

L’industria della pasta era lontana dall’essere perfetta come è attualmente quando, verso l’anno 1840, fu introdotta in Torre Annunziata da commercianti di Amalfi.

Tutto vi si faceva a mano allora e s’impiegavano dieci operai per produrre ciò che oggigiorno è prodotto da uno solo.

I molini andavano per forza d’acqua sui rivi del territorio.

Né i proletari erano allora gli svegli militi della lotta di classe che oggi sono divenuti. Un padrone poteva impunemente correggere a randellate il facchino disattento sulle calate del porto; e il parroco Di Matteo poteva pigliare a pugni e a schiaffi i bestemmiatori e, nel 1854, tirar giù dal carretto e ferire a bastonate un carrettiere colpevole di aver blasfemia.

Improvvisamente, nel 1878, venne introdotta la prima macchina per ripulire le semole. Dove occorrevano cinque o sei uomini a scuotere i crivelli, adesso bastava un manovratore. Quella stessa fame che si dice faccia uscire il lupo dalla foresta, traeva dall’ignavia i semolieri di Torre, e quella stessa educazione avuta dal bastone borbonico, padronale e pretesco, non poteva suggerire loro che rimedi del genere.

In Torre Annunziata scoppiava “la rivoluzione”. Durante cinque giorni gli operai invasero e devastarono gli stabilimenti: spezzarono e bruciarono le macchine affamatrici, non lasciandone una; percossero le guardie; in uno scontro, un industriale venne ucciso.

 Ma un governo non poteva trovarsi a lungo imbarazzato davanti a turbe solo armate di sassi e di bastoni.

La truppa accorse, gli arresti si moltiplicarono; cinquanta rivoltosi vennero condannati dai due anni ai sei di carcere.

Le macchine per ripulire vennero ristabilite ovunque. Le mogli piangevano. Il terrore era dovunque. Il bove proletario, stanco della sua bassezza, aveva voluto fare il matto, ma vi si prese troppo in fretta e venne atterrato con una botta tra le corna.

Fu la prima disfatta del proletariato torrese. Ad essa seguirono vent’anni di letargo.

Diciamo vent’anni perché non può chiamarsi un segno di vita quello delle due società di mutuo soccorso fra gli operai del luogo fondate verso l’anno 1896, le quali sorsero per opera di capitalisti che trovarono opportuno di darsi l’aria di filantropi, riunendo il popolo in questi veri dormitori politici sotto l’occhio bene attento di presidenti effettivi ed onorari che erano il sindaco, od un ministro, od il re.

E si profondo durò l’abbattimento in cui la classe operaia cadde per le condanne del 1878 che, quando nel 1884, si introdussero i mulini a vapore e le impastatrici e le presse meccaniche: quando ne venne, come conseguenza, la débacle della manodopera, e metà degli operai finirono disoccupati, non reagirono, non diedero un segno di esistenza.

Fu la seconda disfatta del proletariato torrese. La violenza, tentata prima, era costata troppo cara; ed il metodo civile dell’organizzazione non era ancora conosciuta nel paese.

Il Partito socialista – nato in Torre Annunziata verso il 1894, sciolto nel 1898 e ricostituito - stava tentando, verso il 1901 di gettare sugli operai del luogo la cauta rete di un circolo “Educazione e previdenza” specie di lega mista che si pensava di suddividere poi in sezioni – quando all’improvviso comparve sui muri un manifesto che convocava gli operai pel 26 febbraio onde istituire una Camera del Lavoro.

Aveva rotto gli indugi di testa sua, certo Cataldo Doria, un guardiano di molini, un buon individuo non socialista, ma impressionato dalle notizie di scioperi e di leghe che in quei giorni riempivano le cronache italiane.

All’adunanza intervennero quasi tremila operai. I socialisti vi presero la parola e trascinarono la massa. Il povero Cataldo Doria – che adesso era divenuto un compagno – si annichilì, non parlò più, venne spinto fuori dalla sala; e l’istituzione fu, fin dalla nascita, gettata nelle mani del partito socialista.

Si fece un immenso lavoro di organizzazione. La lega più numerosa, e più presente in tutte le circostanze fu quella dei mugnai ed affini, la quale contava ben ottocento iscritti. Questi mugnai non peccavano d’indiscretezza se si organizzavano per chiedere dei miglioramenti. Lavoravano 14 e perfino 16 e 17 ore, per dei salari che variavano da lire 1.25 a lire 1.70 al giorno.

Erano vessati da multe e da ritenute abusive. Vi era il sistema della “guardia festiva”, che si faceva per turno, generalmente a gratis; e vi era quello per cui gli operai erano costretti a rimanere nello stabilimento fino all’una pomeridiana della domenica senza essere pagati, per la pulizia e le riparazioni occorrenti.

La Camera del Lavoro aprì delle trattative con i singoli industriali.

Non si dimostravano alieni dal concedere, ma l’uno diceva: - «cominciate da Scafa» e Scafa, replicava: «cominciate da Orsini».

Gli operai finirono per rispondere che incominciarono da tutti quanti insieme e così nel luglio 1901 – cinque mesi dopo la costituzione della Camera del Lavoro – scoppiò il primo sciopero in Torre Annunziata, che si fece subito generale sia per contagio che per le ragioni indicate più sopra.

Gli industriali, che non si erano ancora organizzati, dopo otto giorni, si piegarono. Negoziatore per gli operai fu il deputato socialista Ciccotti. E riuscì ad ottenere che la paga dei mugnai fosse portata a lire 2.40; quanto ai pastai che il cottimo salisse dagli 80 e dai 90 centesimi a lire 1.15; e per i pastai minuti da 1.15 a 1.50. Per tutti ottenne la soppressione della guardia festiva ed il lavoro gratuito limitato a tre ore nel mattino della domenica.

Rare volte uno sciopero ottenne d’un colpo miglioramenti dell’importanza di questi. Ma gli interessati non ne erano soddisfatti.

I mugnai volevano essere pagati a cottimo; e i pastai, che lo erano, pretendevano che il compenso del quintale fosse portato a 30 soldi e a lire 2.

Al modo stesso che prima avevano creduto ai miracoli dei santi e poi a quelli della rivoluzione, adesso credevano al miracolo dello sciopero.

Ingannati, fin allora da questi signori in frak ed in cappello, non avevano ancora imparato a distinguere i loro amici. L’assemblea si fece insolente – «non vogliamo nulla», si gridava. E poi: «abbiamo capito che vi siete messo d’accordo con i padroni».

Il Ciccotti che aveva lottato aspramente per giorni per giungere a strappare quei miglioramenti, uscì allora da una seduta con i padroni durata dalle ore otto del mattino all’una dopo la mezzanotte, se ne andò via indignato. L’assemblea deliberò la continuazione dello sciopero.

Al primo giorno, debolezza, al secondo scompiglio, defezioni, sbandamento.

Gli operai ritornarono al lavoro incondizionatamente. Gli industriali si rimangiarono le concessioni fatte. La Camera del Lavoro venne abbandonata e per poco non morì. Gli operai la disertarono, continuando a masticare le loro mormorazioni contro i negozianti.

Fu la terza disfatta del proletariato torrese.

Per questa parte della nostra storia si può dedurre che, ordinariamente, gli operai sono sconfitti se reagiscono con la violenza; e lo sono pure se non reagiscono; lo sono ancora se, quando accettano il metodo dell’organizzazione, non hanno capito che i miglioramenti si conquistano passo per passo, poiché la legge dell’evoluzione che guida tutte le manifestazioni della vita, guida anche quella del proletariato.

 

Dall'articolo di Oddino Morgari (1865 - 1944), deputato socialista torinese pubblicato sull'Avanti! del 27 aprile 1904. Morgari seguì da vicino tutti gli scioperi di Torre Annunziata nei primi anni del Novecento.

 

 

 

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