La "rivolta di Maresego" oltre la propaganda ideologica

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La cosiddetta “rivolta di Maresego”, formula storicamente scorretta con cui si designa l’uccisione di tre ragazzi avvenuta il 15 maggio 1921 in questa piccola località dell’Istria, è un esempio da manuale di come una vicenda storica conosciuta e ricostruibile con esattezza in tutte le sue dinamiche fondamentali possa venire alterata e capovolta da una propaganda ideologica.

Oggigiorno esiste una vulgata politica e giornalistica secondo cui in quella data gli sloveni abitanti a Maresego si sarebbero ribellati a presunte “violenze fasciste”, reagendo ad un’aggressione di italiani giunti in quell’abitato. In verità, niente di tutto questo è accaduto.

Dovevano svolgersi nel 1921 elezioni nazionali in Italia e fra i vari raggruppamenti si era formata la coalizione detta del Blocco Nazionale, a cui partecipavano il Partito Popolare Italiano, il Partito di Ricostruzione Nazionale, l’Associazione Nazionalista Italiana, il Partito Nazionale Riformatore, i Fasci di Combattimento. Non si trattava quindi di una coalizione “fascista” in senso proprio, perché il partito fascista seppure presente era soltanto uno fra i molti.

Le elezioni in Venezia Giulia si tennero in un contesto di violenza politica, nel quale si distinguevano i nazionalisti slavi ed i comunisti, due categorie che in quella regione spesso coincidevano.

Ambedue si resero responsabili ripetutamente di aggressioni ai danni dei loro avversari politici, servendosi in questo di gruppi paramilitari organizzati ed armati, avendo a disposizione ingenti arsenali con fucili, pistole, bombe a mano.

 

Il terrorismo slavo, che insanguinò con omicidi ed attentati la Venezia Giulia per molti anni, si era già rivelato negli incidenti del 13 luglio 1920 a Trieste.

Ad un comizio organizzato per protestare contro l’assassinio di marinai italiani a Spalato, dove svolgevano un’operazione di assistenza umanitaria alla popolazione, un estremista slavo pugnalò a morte un italiano di soli 19 anni, il cuoco Giovanni Ninì.

Una folla furente cercò allora di assaltare il Narodni Dom, la cosiddetta casa della cultura dei nazionalisti slavi che già sotto il dominio asburgico si era rivelata un covo di estremisti violenti.

Dalle finestre dell’edificio furono lanciate bombe a mano ed esplosi colpi di pistola, cosicché l’ufficiale italiano che comandava il reparto incaricato di proteggere il Narodni Dom dalla popolazione indignata cadde mortalmente ucciso. Seguì quindi una sparatoria contro il covo degli estremisti, che provocò un incendio alla sedicente “Casa della cultura”. Ma questo fu soltanto il più noto degli eventi di sangue provocati da facinorosi appoggiati dalla vicina Jugoslavia, che nutriva ambizioni imperialistiche verso la Venezia Giulia e persino il Friuli.

A Maresego, una frazione rurale della città di Capodistria, il 15 maggio del 1921 un gruppetto di 11 giovanissimi del Blocco nazionale, ivi recatosi senza alcun intento di fare del male ma soltanto per affiggere manifesti elettorali, fu assalito da una massa di violenti d’estrema sinistra, che gli spararono addosso fucilate e gli scagliarono contro una fitta sassaiola.

Vistosi attorniati da un’orda di malintenzionati che cercavano di ucciderli, i giovani gettarono un petardo su di un cespuglio ed esplosero alcuni colpi di pistola in aria per cercare di spaventare la folla, poi si diedero alla fuga inseguiti.

Tre di loro, Giuseppe Basadonna, Giuliano Rizzatto, Francesco Giachin, furono raggiunti e brutalmente ammazzati: Basadonna, un sedicenne si era nascosto, ma fu scovato, trascinato all’aperto ed ucciso; Giacchin fu trucidato a sassate; Rizzato, già rimasto ferito alla testa, fu braccato per centinaia di metri mentre tentava di scappare ed ammazzato con alcuni colpi di fucile sparati a bruciapelo.

Tassini, che era già rimasto ferito al capo, al collo ed al petto da una scarica di pallini, ricevette nella fuga un colpo di pistola, poi una pesante sassata che lo fece crollare a terra. Gli assalitori lo calpestarono, rompendogli costole, lo lapidarono, infine se ne andarono credendolo morte.

Tassini invece sopravvisse e fu il principale testimone d’accusa al processo, anche se rimase invalido per tutta la vita. Contro gli assassini, che erano sia italiani, sia slavi, si tenne successivamente un regolare processo.

Questi, in estrema sintesi, i fatti di Maresego. Come si vede, non si trattò di una “rivolta antifascista” ovvero di una risposta difensiva a “violenze fasciste” e neppure di un vero e proprio contrasto etnico fra italiani e slavi, poiché gli assassini appartenevano ad entrambe le etnie.

Un minuscolo gruppetto di attivisti del Blocco nazionale, composto da vari partiti, fu assalito e non assalitore, aggredito unicamente perché si era recato in un sobborgo abitato per lo più da estremisti di sinistra e per affiggere manifesti.

I giovanissimi militanti erano armati, precauzione consueta nel clima bollente della campagna elettorale del 1921, ma evitarono intenzionalmente di servirsi delle armi per ferire i loro aggressori e cercarono solo di spaventarli. Al contrario, costoro agirono per uccidere ed ammazzarono senza alcuna esigenza tre ragazzi e storpiarono a vita un quarto, lasciandolo vivo solo perché sembrava ormai deceduto.

A posteriori, nel secondo dopoguerra, i nazionalisti slavi e comunisti (binomio radicato nella Jugoslavia di Tito) assieme cercarono di giustificare il sanguinoso linciaggio di Maresego imbastendo su di esso una retorica mistificatoria e stravolgendo completamente gli eventi. Fu uno dei modi con cui furono creati dei “miti fondativi” al fine specifico di legittimare la conquista, la pulizia etnica e l’annessione di Capodistria (città storicamente a schiacciante maggioranza italiana) alla Jugoslavia ed il suo successivo passaggio alla neonata Slovenia.

 

 

A. Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini. Venezia Giulia 1918-1922, Gorizia, 2001.

V. Petaros, 1918-1921. Fuoco sotto le elezioni. Gli incidenti di Spalato, Trieste e Maresego, Trieste 2018.

 

 

 

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