Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I “tipi ideali” di Max Weber

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Weber usa l’espressione “tipo ideale” in vari sensi diversi e sovrapposti. Per chiarire questo punto prendiamo le mosse dal fatto che in società di tempi e luoghi differenti si possono riconoscere istituzioni che, per quanto organizzate in modi diversi, sono funzionalmente analoghe: esistono diverse istituzioni economiche (cioè istituzioni mediante le quali vengono prodotti e distribuiti beni e servizi), diverse istituzioni politiche, religiose, etc.

Nel gruppo delle istituzioni economiche, per esempio, vi sono sia somiglianze che differenze. Possiamo secondo Weber ordinare meglio intellettualmente questa varietà facendo astrazione dalla realtà storica.

Le varie forme esprimono, in misura maggiore o minore, differenti principi per la conduzione della vita economica o politica; compito dell’analisi è astrarre tali princìpi in una forma pura (o ideale) e usarli per costruire “tipi ideali”.

 

Questi ultimi rappresentano possibilità contrastanti di organizzazione della vita economica o politica basate sulla realtà storica, ma non semplici descrizioni di questa, poiché incorporano una “accentuazione unilaterale” di certi suoi aspetti.

Per l’economia Weber enumera vari tipi ideali: la “economia cittadina” (prevalente nell’Europa tardo-medievale), la “produzione artigiana” e il “capitalismo” (che può essere definito in termini di a) proprietà privata dei mezzi di produzione, b) produzione per mezzo di manodopera legalmente libera, e c) distribuzione attraverso compravendita su un mercato libero competitivo).

Questi tipi ideali non sono per definizione categorie classificatorie sotto le quali sussumere i fenomeni individuali, ma forme “estreme” alle quali i fenomeni individuali assomigliano in misura maggiore o minore.

Perciò non possono essere soggetti a leggi empiriche, ma hanno pur sempre una funzione classificatoria e, in quanto istituzioni storicamente reali, possono essere descritte in termini di somiglianza ai - e di divergenza dai - tipi ideali, come mescolanze di elementi di diversi tipi ideali, e così via.

Ciò presuppone naturalmente una descrizione dei fenomeni storici individuali, e anche qui Weber raccomanda il metodo dei tipi ideali; un “individuo storico” come il Calvinismo, lo Stato prussiano o l’economia dell’Europa occidentale in un particolare periodo, può cioè essere ridotto ai suoi principi fondamentali attraverso un’astrazione “purificatrice” che prescinda dalla realtà che è sempre confusa e complessa.

Il tipo ideale di un individuo storico può allora essere comparato con l’ambito rilevante dei tipi ideali “classificatori”.

Questi ultimi hanno un altro uso pertinente rispetto al nostro tema: essi possono talvolta venir impiegati per elaborare quei “modelli ideali” che Ernest Nagel considera un espediente idoneo per generare teorie scientifiche.

Così, assumendo che gli individui coinvolti nella vita economica agiscano nel quadro di istituzioni capitalistiche dal punto di vista tipico-ideale, e quindi perseguano certi obiettivi in modo completamente “razionale” nell’ambito delle restrizioni proprie di tali istituzioni, è possibile elaborare relazioni tra offerta, domanda, prezzi, risparmi, investimenti, etc. Le proposizioni che esprimono queste relazioni costituiscono una teoria economica. Secondo Weber la teoria economica classica e neoclassica è stata elaborata (forse inconsapevolmente) proprio in questo modo, in base al presupposto che gli attori economici perseguono razionalmente il massimo profitto.

Tale tipo ideale “teorico” comporta tre livelli di astrazione (ossia di non-realtà). In primo luogo, la realtà istituzionale raramente corrisponde in modo perfetto al tipo ideale e classificatorio del capitalismo (alcuni mezzi di produzione possono essere di proprietà collettiva, la libera competizione può essere alquanto limitata, e così via); in secondo luogo, i motivi degli individui saranno nella realtà più complessi del desiderio ad essi attribuito di massimizzare il profitto; in terzo luogo, in parecchi casi nel perseguimento degli obiettivi vi saranno varie deviazioni dalla perfetta razionalità, dovute a ignoranza, errori, calcoli sbagliati, etc. Perciò la teoria tipico-ideale non risulterà affatto una descrizione perfettamente accurata della realtà economica. Com’è possibile allora stabilire un rapporto con la realtà?

La risposta di Weber si presenta articolata in due momenti. In primo luogo le assunzioni alla base del tipo ideale, se scelte bene, dovrebbero essere tali che le sue divergenze dalla realtà non siano troppo grandi. In secondo luogo, nella misura in cui una teoria tipico-ideale diverge in un caso particolare dalla realtà, il ricercatore è indotto a indagare gli aspetti del caso in esame nei quali le sue assunzioni risultino poco accurate.

Per esempio, se un’economia approssimativamente capitalistica diverge dalle previsioni della teoria economica, se ne dovrebbe cercare una spiegazione in fattori “distorcenti” come per esempio i monopoli governativi, motivi non economici o elementi irrazionali. L’analisi tipico-ideale ha dunque il compito di agevolare l’identificazione delle deviazioni dal tipo ideale e della loro significatività.

A causa delle assunzioni su cui si costruisce un tipo ideale teorico, una teoria della scienza sociale di impostazione weberiana possiede un’applicabilità piuttosto limitata. La teoria economica, ad esempio, sembra limitata nella sua applicazione alle società le cui istituzioni economiche non si discostano molto dal tipo ideale del “capitalismo”. Poiché per Weber una teoria della scienza sociale dipende da assunzioni specifiche e semplificate concernenti i motivi e la razionalità, è improbabile che si dia una descrizione assolutamente accurata della realtà, sebbene sia possibile avvicinarsi ad essa se le assunzioni non sono troppo irreali.

Quale luce getta tutto ciò sulla teoria della scienza sociale in generale? L’economia, per esempio, è atipica per alcuni aspetti importanti, specialmente per la facile quantificabilità dei suoi concetti (prezzo, costo, prodotto), e questa è una delle ragioni per cui nelle altre scienze sociali la dimensione teorica è molto meno sviluppata.

Tuttavia tutte le teorie della scienza sociale sembrano effettivamente dipendere da assunzioni relative a valori e atteggiamenti, i quali devono o variare da una cultura all’altra, o essere i medesimi in tutte le culture (ossia, fare parte della “natura umana”). Fino a qual punto esiste una natura umana generale?

Alcuni affermano in effetti che c’è qualcosa di simile, descritta da leggi psicologiche che devono formare la base di ogni scienza sociale. Da queste leggi psicologiche fondamentali (come, per esempio, “quanto maggior valore un individuo dà al risultato che si attende da un’azione, tanto più probabilmente egli la compirà”) si possono derivare le leggi dell’economia, comprese tanto la legge che i prezzi elevati riducono la domanda, quanto la legge opposta del “consumo cospicuo”, secondo la quale i prezzi elevati accrescono la domanda. E così pure si possono derivare le leggi della conformità alle istituzioni sociali, della devianza e del mutamento istituzionale (la gente si conforma quando la conformità è più apprezzata della devianza; viceversa, se vi è un numero abbastanza elevato di devianti le istituzioni cambiano).

La difficoltà consiste nel fatto che la legge psicologica fondamentale sopra menzionata sembra una tautologia. Non se ne può derivare nulla in particolare, a meno di non specificare a che cosa un individuo attribuisce valore. Qualsiasi legge sociale derivata in questo modo dev’essere culturalmente condizionata.

Vi sono indubbiamente alcuni atteggiamenti umani universali, ma è facile sopravvalutarne il numero. I teorici dell’economia classica e neoclassica sembrano aver commesso l’errore (da Marx chiamato “reificazione”) di supporre che gli atteggiamenti di una particolare cultura facciano parte della stessa natura umana., e la credenza che esistano leggi sociali universali, completamente generali, può fondarsi su un errore del genere. Così la legge che “tutte le società sono stratificate” è spesso fondata sulla premessa teorica secondo cui gli individui non sarebbero disposti ad assumersi compiti onerosi senza ricompense particolari.

Anche la legge secondo cui “tutte le società sono governate da un’oligarchia”, legata al nome di Roberto Michels, si fonda su una complessa analisi teorica, la cui parte decisiva è che in tutte le società la maggior parte degli individui sarebbero governati anziché governare essi stessi.

Se queste premesse intorno alla natura umana siano universalmente vere è cosa della massima importanza, poichè la possibilità dell’eguaglianza e della democrazia dipende dal fatto che non lo siano. E se la natura umana è meno uniforme di quanto queste teorie suppongono - se l’eguaglianza e la democrazia sono possibili, per quanto rare - allora le due leggi possono naturalmente essere soltanto probabilistiche, e non universali.

Abbiamo finora visto alcune buone ragioni per le quali le leggi della scienza sociale devono avere i difetti prima menzionati: mancanza di specificità, di generalità e di universalità. Essi conseguono soprattutto della variabilità dei motivi, degli atteggiamenti e dei criteri di valutazione umani. Né questi difetti possono verosimilmente essere corretti adottando la strategia del “modello ideale” o del “tipo ideale”. Per esempio la teoria economica, che segue quella strategia, produce per la maggior parte leggi non specifiche, di applicabilità alquanto limitata.

 

 

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