Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Un viaggio nella rivoluzione di Napoli del 1820

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Nel maggio del 1817 gli scavi di Pompei erano isolati nella campagna. Fu lì che si riunirono clandestinamente i capi della carboneria meridionale. Volevano una rivoluzione per costringere il re Borbone a concedere la Costituzione. Il Regno delle Due Sicilie era da tempo al centro di un intenso conflitto.

Nel 1799 c’era stata la drammatica guerra civile tra repubblicani e sanfedisti, all’interno della guerra tra gli eserciti francesi e quelli alleati.

Nei quindici anni successivi larga parte dei gruppi politici e delle élite militari meridionali sostennero l’esperienza napoleonica, sancendo la fine del feudalismo e creando moderne istituzioni politiche. Formarono un blocco sociale che, finita l’esperienza napoleonide, costituì il nucleo del liberalismo napoletano. Con la Restaurazione tornarono i Borbone, nell’orbita asburgica e della Santa Alleanza che lo garantirono. Con loro c’erano settori importanti dell’alto clero e dell’aristocrazia assolutista. 

Nonostante i tentativi del principe de’ Medici, la Restaurazione non ricompose la frattura tra la potente opposizione politica e la monarchia.

Il successo della rivolta liberale in Spagna entusiasmò i carbonari, unificando le anime della cospirazione con i soldati dell’esercito reduci delle glorie imperiali napoleoniche. E così il viaggio della rivoluzione ripartì da Nola, dove oggi la splendida caserma dell’antica piazza d’armi è sempre visibile, ma abbandonata.

 

La notte del 1° luglio del 1820 si ammutinò lo squadrone di cavalleria dei tenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati. Giunsero ad Avellino, dove il generale Guglielmo Pepe e la carboneria si accordarono. La città celebrò la rivoluzione nel largo dell’Intendenza, dove ora c’è il bellissimo palazzo della Prefettura avellinese.

L’unico tentativo di resistenza dei pochi soldati restati fedele al Borbone si consumò nella valle dell’Irno, che unisce Avellino a Salerno, sulle colline di Mercato San Severino e dei paesi vicini. Fu inutile. Ferdinando I dovette concedere la costituzione.

Il 9 luglio soldati e carbonari, accolti da un tripudio popolare, entrarono a Napoli sfilando fino a via Toledo e a largo del Palazzo. Pochi giorni dopo furono convocate le elezioni. Si sviluppò uno spazio unico di libertà, testimoniato dalla moltiplicazione di giornali, associazioni, club e innovative pratiche politiche.

Le elezioni iniziarono a metà agosto e si conclusero a settembre, con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone.

Per i 91 deputati eletti (alcuni siciliani però non giunsero) serviva un luogo ampio. Fu scelta la Chiesa di San Sebastiano, nel cuore del centro storico, tra il monastero di Santa Chiara e l’attuale piazza Dante, raggiungibile a piedi dai principali luoghi della vecchia città, compreso la reggia.

Era un ex convento di monache soppresso durante il Decennio, abbastanza grande per le tribune dei deputati e il pubblico. Il suo vecchio chiostro, ora integrato nel Convitto nazionale, era perfetto per incontri e conventicole delle nuove pratiche della politica e del potere.

L’inaugurazione del parlamento si tenne il 1 ottobre nella Basilica dello Spirito Santo, alla fine di via Toledo, di fronte a Palazzo D’Angri.

Fu celebrata con i discorsi di Ferdinando I, che aveva guidato la Santafede, e del presidente del parlamento Matteo Galdi, ex rivoluzionario, funzionario napoleonico ed intellettuale di alto profilo. Si doveva sancire l’accordo tra le due anime del regno. E invece, se il parlamento di San Sebastiano fu teatro di dibattiti accesi, spesso provocati dalle migliaia di petizioni raccontate dallo storico Dario Marino, dovette fare i conti con la crisi provocata dalle potenze assolutiste della Santa Alleanza, decise a reprimere le rivoluzioni liberali.

Il re Ferdinando I fu convocato al loro congresso. Al parlamento, che doveva autorizzarlo, giurò di difendere la costituzione. Il 7 dicembre, nonostante l’opposizione di una parte dei deputati, convinti che il re avrebbe tradito, fu autorizzato.

E invece il re si unì alla Santa Alleanza. Nel marzo del 1821 sostenne l’invasione del regno, contro il suo esercito e il suo parlamento.

Dai banchi di San Sebastiano i deputati superstiti, guidati da Giuseppe Poerio, formalizzarono come ultimo atto la protesta contro l’aggressione austriaca. La Chiesa oggi non c’è più. Ci sono antiche e recinti iscrizioni.

Ricordano una delle pagine più intense del liberalismo napoletano, insieme alla frattura definitiva tra la monarchia borbonica e il movimento costituzionale napoletano, premessa alla fine del regno.

 

 

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