Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La Terra dei tristi. Il Cilento e il Vallo di Diano dai giacobini a Pisacane

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La polizia borbonica lo chiamò la Terra dei tristi. Era un vasto territorio tra il Vallo di Diano, l’Alto Sele e il mare, aveva il centro nel Cilento, disseminato di piccoli e grandi paesi, valli e montagne boscose. Nel XIX secolo era segnato da una intensa lotta politica.

Un viaggio nel Cilento ci mostra le testimonianze di una comunità politica che si formò tra Settecento e Ottocento, diventò forza di opposizione al regime borbonico, poi protagonista della costruzione dello stato liberale.

Ogni paese raccoglie queste testimonianze. Castellabate è un esempio. Punta Licosa, oggi uno dei siti più ambiti dal turismo internazionale, vide l’arrivo delle truppe da sbarco inglesi, combattuti dalle forze corse di Gioacchino Murat e dai volontari cilentani.

E così il re di Napoli, Murat, si fermò nel paese che ne conserva ancora i ricordi. Era il palazzo Perrotti, che lo domina e solo pochi anni prima era stato vittima di un agguato sanfedista contro i repubblicani del paese, un piccolo massacro.

Per quasi vent’anni il regno si era diviso tra rivoluzionari e controrivoluzionari, poi tra napoleonidi e borbonici. Nel Cilento una parte decisiva dei gruppi politici aveva sostenuto la Repubblica e poi il progetto imperiale. Con la Restaurazione confluirono nella Carboneria, forse il primo movimento politico di massa della storia italiana, partecipando alla rivoluzione liberale del 1820, conquistandone la prima rappresentanza parlamentare.

Sostennero fino alla fine la costituzione. Vicino alle taverne sul Sele, nella zona di Eboli, fu così assassinato da una squadriglia borbonica il capo dei carbonari e deputato, Rosario Macchiaroli di Bellosguardo.

Invece le gole di Campostrino, tra Polla e Auletta, che dominano l’unico ponte che all’epoca consentiva di andare dalla capitale alle Calabrie, testimoniano il sogno dei rivoluzionari di fermare lì l’invasione austriaca sostenuta dal Borbone.

Sono tracce di una comunità politica che sviluppò una tradizione identitaria di tipo familiare, territoriale e sociale, conservata nella lunga serie di luoghi, lapidi, palazzi, luoghi che, iniziando da Vallo della Lucania, ricordando i moti, le rivolte cilentane.

Il forte di Palinuro, assaltato da liberali, sulla punta che chiude le spiagge, segnò l’inizio dell’insurrezione costituzionale alla fine di giugno del 1828. La repressione fu, segnata da esecuzioni che terminarono a Salerno. Sul Corso una lapide ricorda il posto dove il 24 luglio furono fucilati i capi, tra questi l’ex deputato e canonico Antonio De Luca, scomunicato dal vescovo prima dell’esecuzione. All’ingresso paese di Bosco, a San Giovanni a Piro, distrutto dalle truppe borboniche, le maioliche realizzate da José Ortega ricordano questa storia.

 

Così come per le strade di Trentinara, una vera e propria terrazza del Cilento sulla piana del Sele e il golfo di Salerno. Lì nel luglio del 1848 i liberali cilentani, che si erano mobilitati sei mesi prima per ottenere la Costituzione, tentarono i l’estrema difesa dall’assalto delle truppe borboniche.

Nelle stradine sono ricordati i caduti. Furono preceduti dal loro capo, il deputato Costabile Carducci, assassinato pochi giorni prima da un gruppo di fedelissimi di Ferdinando II ad Acquafredda di Maratea, la porta del Cilento.

La Terra dei tristi fu così scelta da Giuseppe Mazzini e da Carlo Pisacane per la loro spedizione.

Partiti da Genova nel luglio del 1857, dopo aver liberato alcune centinaia di rilegati a Ponza, arrivarono nel golfo di Sapri. Lì c’è la statua della Spigolatrice, la contadina della poesia di Luigi Mercantini, e si continua fino al cippo del Vallone di Sanza, dove morì Pisacani con molti dei suoi.

A Padula esiste un Sacrario, unico nel suo genere, con esposte le ossa dei caduti nello scontro con i borbonici, al centro di un ambizioso progetto di restauro voluto da Don Giuseppe Radesca.

Insomma una storia lunga oltre sessant’anni che spiega il successo della rivoluzione del 1860. Dopo il successo della spedizione garibaldina giunse in Sicilia, sostenuta da un blocco politico-sociale che determinò il collasso del regime borbonico, nell’agosto in tutto il territorio si mobilitarono migliaia di volontari.

Si impossessarono quasi senza colpo ferire delle istituzioni territoriali e parteciparono da protagonisti alla vittoria garibaldina. Solo una forza consolidata da decenni di lotta politica, di cospirazioni, esili, dotata di risorse simboliche e martiri, esperienze operative e leadership locali poteva riuscirci.

Anche questa storia, è testimoniata un po' ovunque: da Rutino, il paese che diede in proporzione più volontari garibaldini di tutta Italia, a Teggiano, che ha appena deliberato di portare nel paese la statua di Giovanni Matina, il leader della rivoluzione del 1860.

Un percorso che racconta attraverso i suoi luoghi una parte della storia dell’Ottocento meridionale, contribuendo alla comprensione di processi politici e sociali complessi e affascinanti, se collocati nella loro epoca.

 

 

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