Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Una grazia per il cav. Agresti

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«E chi se lo scorda quel 13 giugno, quando le bande a massa del Cardinale Ruffo scalavano i fianchi della collina di San Martino.» Questo pensiero ricorreva nella testa del vecchio Presidente di Cassazione Michele Agresti.

In effetti, quel giorno lui era asserragliato a Castel Sant'Elmo in buona compagnia con Eleonora Pimentel Fonseca, e ancora, quando tutto era perduto, discuteva di costituzione con il collega Mario Pagano.

Era giovane, era amante dei francesi, era avvocato, e soprattutto non era disposto né a morire, né a fare l'eroe, quindi indossò una divisa francese e riparò in Francia.

Del diritto, specie di quello romano, era uno studioso e a Parigi ebbe la cattedra universitaria.

Ma Napoli chiamava i figli suoi e Don Michele rispose al richiamo e tornò ben scortato dalle armi francesi di Giuseppe Napoleone.

Entrò in magistratura nel 1808 e il 13 novembre divenne giudice della Gran Corte di Cassazione e fu un giudice tanto severo e fiscale che i francesi lo misero e i francesi lo tolsero, quando Murat, che pure di pazienza ne teneva tanta e che aveva altri pensieri, se lo trovava appresso un giorno sì e uno pure, che gli tirava la giamberga, chiedendogli un piacere dopo l'altro e soprattutto lamentandosi che tutti i suoi sacrifici non erano riconosciuti, che aveva rischiato la pelle per la Francia e che in fondo stava meglio a Parigi.

 

Tornò Ferdinando di Borbone e tolse il posto a Don Michele che si mise a fare l'avvocato, quando a Napoli questo mestiere si poteva ancora fare e l'albo professionale non era ancora voluminoso come un elenco telefonico.

Ma all' Avv. Agresti piaceva stare dall'altra parte della scrivania ed avere alle sue spalle la scritta "la legge è uguale per tutti" e allora, tanto brigò e tanto pregò che nel 1824 Ferdinando VI, ormai anziano e che quindi subito si scocciava di sentire piagnistei, lo reinsediò sul trono della magistratura.

Il tempo passò pure a Napoli e Michele Agresti,62 anni, procuratore e giudice di Cassazione, pianse la morte della moglie.

In fondo, la povera Signora Agresti, come tutte le donne, che avevano avuto la sfortuna di sposare mariti studiosi, si era sempre occupata di tutto.

Michele perdeva in un colpo solo non solo la "cassazione domestica", dato che le sentenze inappellabili della casa erano emesse dalla signora, ma anche la persona che accudiva ed educava le due giovani figlie Giovannina e Teresina, signorine vivaci e sveglie.

Alle ragazze andava assicurata una educazione adeguata e un futuro che il severo giudice della Cassazione, con tutte le sue conoscenze di diritto romano, non era in grado di assicurare.

Si rimise in moto, e per il bene delle figlie, chiese appuntamento al marchese di Sant'Eramo, soprintendente del Real educandato femminile Regina Isabella Borbone, per chiedergli la strategia migliore per ottenere l'inserimento delle fanciulle, meglio se gratis, nel prestigioso Educandato.

Il giorno fissato per l'appuntamento, il procuratore Agresti percorse lentamente il lungo e largo corridoio che divideva le camere delle educande per raggiungere l'ufficio del marchese.

Avvertì, dapprima uno strano, inspiegabile disagio per uno come lui aduso a percorrere sicuro i corridoi di Castel Capuano e poi un ancora più intenso brivido di freddo.

Da uno degli usci comparve Teresa Nota, andando in senso opposto all'inquieto magistrato, coi suoi passetti brevi e la solita gonna frusciante. Era la dispensiera economa dell'educandato e faceva onore al suo cognome perché era una che prendeva nota di tutto.

Non c'era nessun evento, non c'era spesa, né entrata che Teresa Nota non annotasse con cura.

Pignola, ordinata, squadrata come i registri che compilava.

Inutile dire che agli occhi delle signorine educande, che occupavano le "piazze o le mezze piazze" (i letti) gratis o a pagamento, la signorina Nota era la vera padrona dell'Istituto.

Più delle maestre, più della stessa direttrice Rosalia Prota che era così dolce, addirittura più potente dello stesso Soprintendente quella "pasta d'uomo" del Duca d'Ardore.

Gli occhi negli occhi, un cenno di saluto ad Agresti con una breve inclinazione del capo e la nostra dispensiera era già sparita in qualche anfratto dell'istituto che per lei non aveva più alcun segreto.

Dopo l’incontro con il marchese di Sant'Eramo, Agresti ottenne il consiglio di supplicare il ministro Santangelo e per esso la regina Teresa.

Così fece, ma entrò in mezzo il giovane Ferdinando II che così decise: «Sua Maestà si è degnata accordare l'ammissione ad intero pagamento nel 1° Educandato Regina Isabella Borbone delle signorine D.a Giovannina e D.a Teresina Agresti, figlie del cavaliere Don Michele ecc ecc F.to Santangelo 11 marzo 1837».

Supplica accettata, quindi, ma il cavaliere doveva pagare se non altro per essere stato un filo-giacobino.

Le alunne entrarono in istituto la mattina del 30 aprile 1837.

Ma il "giacobino" non si arrese e insistette per avere le due "piazze libere" e ne fece istanza .

La risposta arrivò in giornata :«Accolta. È concessa una mezza piazza franca».

Il vecchio giudice proseguì verso Largo di Palazzo, poi Santa Lucia, stringendo tra le mani il messaggio del soprintendente, che ogni tanto rileggeva incredulo: «ad Agresti perché faccia conoscere a quale delle due figlie vuole intestare la grazia.»

Quale dilemma: "E figli so figli e so tutti uguali  e so' piezz 'e core" riflette, mentre istintivamente alza gli occhi al cielo e gli si para davanti, alta sulla collina, la grigia mole di Sant'elmo.

Risente ancora quel tuono dei cannoni, quelle grida e la voce rassegnata di Eleonora, rivede quelle bianche bandiere con i gigli e la croce e sventolare sul pennone alta la bandiera tricolore della repubblica napoletana, infine si rivede in uniforme giacobina nella rada, pronto a salpare per Tolone portando con sé la sua vita intatta e qualche sogno infranto.

Poi cammina, piange, pensa:" la vita è fatta di scelte".

Michele Agresti morirà a Napoli nel 1855, fu giudice nei processi svolti dopo i fatti del 15 maggio 1848 tentando inutilmente di scagionare Antonio Scialoja.

Di Teresina e Giovannina Agresti la storia e il tempo hanno cancellato ogni traccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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