Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Armi da lancio e da fuoco agli albori della modernità

Condividi

La sostituzione delle vecchie armi da lancio, arco e balestra, con le nuove armi da fuoco, archibugio, moschetto, pistola, è uno degli elementi portanti di quella che è stata definita “rivoluzione militare” dell’era moderna.

Sarebbe però sbagliato interpretare tale mutamento, davvero epocale, quale dovuto unicamente ad una supposta superiorità tecnologica, intrinseca ed assoluta, delle “armi del diavolo” basate sulla polvere da sparo rispetto alle consorelle vecchie di molti millenni.

Le armi da fuoco rimasero per secoli, almeno sino alla guerra dei Trent'anni, nettamente inferiori ad archi e balestre per quasi tutte le prestazioni: gittata, rapidità di tiro, precisione, maneggevolezza, affidabilità d'impiego, costo.

Le prestazioni di archi e balestre sono un tema storico fortemente dibattuto da storici, archeologi, praticanti sportivi, rievocatori e su di esse si è scritto moltissimo.

È inevitabile leggere parere anche molto discordanti al riguardo, malgrado i dati posseduti, trattandosi di storia materiale, siano abbastanza certi.

Questa pluralità di pareri e ricostruzioni non dipende tanto da errori o vuoti di conoscenza, quanto dall’impressionante varietà di modelli di archi e di balestre, diverse per dimensioni, materiale, componenti e tecnica costruttiva, munizioni e prassi d’impiego. L’arco utilizzato dai romani, l’arco composito turco-mongolo, l’arco lungo gallese, l’arco giapponese e moltissimi altri modelli ancora differiscono tutti considerevolmente fra loro.

Anche se la balestra è stata meno diffusa dell’arco, arma esistente già nella preistoria ed adoperata presso la maggioranza delle civiltà conosciute (non tutte però), anch’essa ha avuto un’impressionante diversificazione, a cominciare dalle dimensioni.

 

Vi sono state balestre che erano ad ogni effetto pezzi di artiglieria (come il balestrone), sino ad altre così piccole da poter essere nascoste fra gli abiti (come il balestrino), passando per tutte le gradazioni intermedie di grandezza.

Altrettanto rilevanti sono state le differenze nella tecnologia, per cui vi erano (per limitarsi alle balestre europee!) quelle a crocco, a leva, a martinello, a ruota d’ingranaggio, a girella, a molinello, ciascuna diversa per il modo con cui si caricava il proiettile, che però non esaurivano le tipologie di quest’arma.

Ad esempio, la balestra a staffa poteva essere caricata sia a leva, sia a crocco. Vi erano poi balestre che usavano un tipo di munizionamento preciso (come la balestra a bolzone) ed altre categorie ancora. Bisogna quindi anche qui semplificare al massimo, ma è indubbio che sia l’arco, sia la balestra fossero superiori per quasi ogni prestazione agli archibugi dei secoli XV-XVI.

Un archibugio aveva una gittata utile di circa 50 metri, che poteva essere poco più bassa o poco più alta a seconda del modello d’arma, della quantità di polvere, del tipo di palla. I moschetti avevano una portata teorica doppia, circa 100 metri.

Ancora i fucili d’ordinanza nelle guerre napoleoniche, suoi discendenti molto perfezionati, avevano una portata massima di tiro utile di circa 100 metri, sebbene esercitazioni a fuoco dell’esercito prussiano e dati empirici ricavati dalle descrizioni delle battaglie suggeriscano che abitualmente i proiettili neppure arrivassero a quella distanza.

Questo è tanto vero che alcuni comandanti di quel periodo usavano ordinare alle loro fanterie di sparare soltanto ad una distanza di 30 metri circa: eppure, i moschetti del tardo ‘700-inizio ‘800 erano molto perfezionati rispetto ai vecchi archibugi d’inizio ‘500.

Al confronto, un arco lungo poteva superare tranquillamente i 200 metri (anche qui, tenendo conto di tutte le variabili, dalla forza dell’arciere, al vento, al tipo di freccia …) ed una balestra portatile avvicinarsi alle 300 od anche superarle.

Anche il ritmo di tiro ovvero di fuoco era svantaggioso per gli archibugi ed i primi moschetti, sino alla guerra dei Trent’anni. Caricare queste armi richiedeva oltre 40 movimenti diversi (42-44, si è calcolato) e la cadenza di fuoco era di una scarica ogni 1 o 2 minuti, a seconda dell’arma, dell’abilità del fante, delle condizioni del combattimento. Al contrario, un buon arciere poteva far partire 6 frecce al minuto, ma esse potevano arrivare anche a 10-12, purché il soldato fosse assai vigoroso ed abile. Le balestre erano assai diversificate tipologicamente ed i modelli più pesanti, in pratica piccoli pezzi d’artiglieria campale, erano anche più lenti a caricarsi degli archibugi.

Ma il paragone deve avvenire con le armi individuali e portatili dei fanti e qui alcuni modelli di balestra, come quella a crocco, erano più rapide degli archibugi. Impiegando certi tipi di balestra, un combattente poteva arrivare a scoccare due dardi al minuto, ciò che era sicuramente precluso ad un archibugiere.

La precisione delle armi da fuoco era minore di quella delle controparti tradizionali, come suggeriscono sia testimoni coevi, sia le sperimentazioni dei rievocatori. D’altronde, il forte rinculo, la problematicità di calcolare con esattezza la quantità di polvere ideale per caricare la palla, le impercettibili variazioni nella traiettoria determinate dall’usura della canna o dalla polvere in essa residua erano ostacoli gravi all’esattezza del tiro.

Comunque, dibattere sulla precisione teorica di un archibugio in condizioni ottimali ha una rilevanza relativa, perché nella pratica bellica la scarica di una schiera di archibugieri produceva una nebbia di polvere nera. Dopo poche salve di una schiera poteva essere impossibile anche solo scorgere il nemico, a meno che non vi fosse un vento capace di dissolvere la nuvola artificiale.

Un difetto assai grave delle armi da fuoco dell’era moderna era la loro limitata affidabilità. Ancora i fucili, al confronto degli archibugi altamente sofisticati, del XX secolo potevano incepparsi od esplodere.

I loro remoti antenati del ‘500 o prima metà del ‘600 spesso facevano cilecca con notevole frequenza, tanto che si è ipotizzato che potesse accadere che un colpo su due non partisse. Il maltempo soprattutto era un ostacolo anche insuperabile al funzionamento di armi a miccia od a pietra focaia, che richiedevano di versare polvere nera in un apposito scodellino.

Una pioggia poteva neutralizzare gli archibugi: ancora nel 1848, una delle ragioni del successo della rivolta antiborbonica di Palermo fu un acquazzone, che rese malfunzionanti i fucili delle truppe borboniche, di tipo settecentesco ma superiori tecnologicamente agli archibugi.

Peggio ancora, l’arma poteva anche esplodere, a causa di una quantità di polvere eccessiva, di un munizionamento doppio (la palla non è partita, rimanendo nella canna, senza che il fante nel cuore del combattimento se ne avveda, per cui il soldato ne carica un’altra ancora …), di accumulo di sporcizia nella canna, di surriscaldamento.

Persino la fiaschetta contenente la polvere nera era un pericolo, perché tale esplosivo è altamente infiammabile. Era sufficiente un piccolo errore manuale nel corso della battaglia oppure l’azione del vento per spargere polvere addosso al fante, rischiando così d’incendiargli gli abiti o fargli esplodere la fiaschetta a causa della miccia accesa, dell’acciarino, della vampata dell’esplosione, insomma per ogni fiamma viva.

Le armi da fuoco avevano ancora altri svantaggi di tipo più tattico: la miccia, l’acciarino, la vampata, il rumore dello sparo erano ostacoli insuperabili alla segretezza nelle azioni notturne; il frastuono delle esplosioni durante uno scontro poteva impedire d’udire i comandi; la pericolosità della polvere da sparo suggeriva di tenere i fanti in formazioni non troppo chiuse e serrate, con un minimo di distanziamento, il che diminuiva la potenza di fuoco della singola salva; il tiro a parabola era consentito agli arcieri, mentre era irrealizzabile per gli archibugieri e di moschettieri.

Gli stessi costi d’acquisto di archibugi o moschetti erano superiori a quelli di archi e balestre. Un ottimo arco lungo, fabbricato in legno di tasso da un artigianato specializzato, costava meno di una spada di mediocre qualità, che era un’arma comunissima. Al confronto l’acquisto d’un archibugio o moschetto poteva costringere un fante a risparmiare denaro per anni. Non si dimentichi che era normale all’epoca per i professionisti marziali provvedere da sé al proprio corredo militare.

È indubbio quindi che non si possa parlare di una superiorità assoluta di archibugi e moschetti rispetto ad archi e balestre, quantomeno fino alla metà del ‘600. Ciononostante, la battaglia di Flodden (1515, fra inglesi e scozzesi) fu l’ultima in cui le armi da lancio ebbero un ruolo decisivo, mentre quella di Melegnano (1515) fra gli svizzeri e l’esercito multinazionale al servizio del re di Francia fu l’ultima in cui esse furono adoperate in massa. A condurre ad una abbastanza rapida scomparsa di arcieri e balestrieri negli eserciti europei fu una pluralità di fattori.

Primo, le nuove armi avevano un certo effetto psicologico. Esso si palesò specialmente contro avversari extraeuropei, per le quali esse erano ignote, come aztechi ed incas, ma agì, in maggiore o minore misura, contro ogni tipo di nemico.

Il forte rumore prodotto dalle esplosioni aveva (ha) un qualche impatto sulla mente degli esseri umani. È appena il caso di ricordare che all’utilizzo di urla e di strumenti musicali in battaglia si è fatto ricorso in moltissime culture sia per confortare i commilitoni, sia per tentare di incutere timore nei nemici.

Inoltre, a differenza di frecce e dardi, la pallottola è invisibile nel suo volo, il che può produrre una sensazione di pericolo occulto. Poche frecce scagliate contro un reparto avanzante possono apparire innocue, proprio perché scorte in aria ed in numero del tutto insufficiente.

Al contrario, una scarica di pochi archibugieri lascia nell’incertezza i componenti dell’unità bersagliata: ognuno può temere di essere colpito.

Secondo, si poteva apprendere ad impiegare con efficacia le armi da fuoco in pochi giorni, mentre per la balestra e specialmente per l’arco era richiesto un addestramento ininterrotto e di durata pluriennale.

Inoltre l’arco abbisognava di soldati di prestanza superiore alla media. Semplificando al massimo una questione complessa, maggiore è la potenza di un arco, quindi la gittata e la forza di penetrazione, maggiore deve essere la forza dell’arciere che lo adopera.

I dati sulla potenza richiesta per allungare un arco lungo sono stati attentamente esaminati grazie all’archeologia, sia quella tradizionale, sia quella sperimentale ossia mediante la ricostruzione esatta di archi lunghi come quelli in uso nel Basso Medioevo.

Il libbraggio, essendo tali calcoli espressi in libbre (una libbra equivale a 453,5 grammi) inteso quale forza necessaria per tendere l’arco e scagliare la freccia, era in media attorno alle 155 libbre, oscillando grossomodo fra 110 e 190 libbre.

La forza fisica necessaria era quindi posseduta solo da pochi, uomini di corporatura robusta e muscolosa. L’immaginario contemporaneo degli arcieri, propalato da opere letterarie o cinematografiche, spesso li sogna quali dal fisico leggero, mentre la realtà fu esattamente opposta.

Ad esempio, la famosa “Compagnia bianca” di Giovanni Acuto (John Hawkwood), un famoso condottiero di ventura dell’Italia tardomedievale, spiccava anche per le dimensioni fisiche dei suoi uomini, che apparivano imponenti per l’epoca.

Proprio come per l’arco di Ulisse nell’Odissea, solo pochi avevano la forza necessaria per servirsi di tale arma, tendendola. Difatti gli archi erano tendenzialmente personalizzati, nel senso che erano costruiti in rapporto alle caratteristiche antropometriche di chi doveva adoperarli.

Tutto ciò è confermato sia dalle fonti storiche scritte sia dai corpi di arcieri ritrovati ed analizzati, che erano soldati di alta statura (almeno per l’epoca) e con buona massa muscolare.

Gli arcieri dovevano quindi essere sia altamente addestrati all’uso dell’arco (arma non facile da impiegare), sia fisicamente piuttosto forti. Ambedue gli attributi richiesti determinavano un “collo di bottiglia” nella disponibilità di specialisti. Al contrario, ogni fante medio poteva divenire un archibugiere dopo una settimana d’esercizio.

Terzo, sia il potere di arresto, sia la letalità della palla sono superiori a quelli di frecce e dardi. Le cronache antiche e medievali abbondano di descrizioni di soldati ripetutamente trafitti da arcieri o balestrieri, senza essere posti fuori combattimento. Al contrario, il combattente ferito da una pallottola di archibugio o moschetto difficilmente era in grado di proseguire lo scontro.

Il potere d’arresto di una palla di piombo scagliata da una canna discende principalmente da due variabili. Il primo è la sua energia cinetica, data dalla metà del prodotto della sua massa per il quadrato della velocità.

Il secondo sono i cosiddetti moti abnormi, ossa il movimento rotatorio che essa esegue attorno al proprio asse congiunto ad un altro movimento oscillatorio. Questa combinazione produce sia danni diretti nell’area immediatamente colpita, sia effetti nei tessuti intercettati ed adiacenti.

Le cavità, sia permanenti, sia temporanee, provocate dai proiettili in piombo delle armi da fuoco erano sicuramente più consistenti sia per profondità, sia per ampiezza di quelle prodotte da frecce, dardi, verrettoni, saette, acuminati ma di gran lunga più sottili e sospinti da armi con una potenza cinetica di molte volte minore.

Ancora, il rischio di infezioni derivanti da ferite d’arma fuoco era (è) assai più elevato di quelle di ferite prodotte da archi, balestre, ma anche spade, lance etc. La palla nella sua penetrazione nel corpo umano trascina con sé i materiali che attraversa ed agenti patogeni.

Inoltre, frecce e dardi potevano essere estratti, assai spesso, anche personalmente ed immediatamente dal soggetto colpito, mentre questo era ovviamente irrealizzabile per le palle.

Anzi, esse potevano essere assolutamente impossibili da estrarre anche per i medici dell’epoca: va detto che ancora nel XX secolo inoltrato la medicina può essere stata nell’impossibilità di estrarre pallottole, per il rischio di provocare perdite di sangue letali od altri danni ai tessuti.

Sino alla prima guerra mondiale inclusa le infezioni derivanti da ferite di guerra furono una delle principali cause di morte dei soldati, specialmente con la cancrena che rimase pericolosissima fino alla Grande Guerra inclusa.

Inoltre, la medicina bellica europea aveva imparato nell’arco del tempo ad affrontare, bene o male, le lesioni provocate da armi impiegate da millenni, mentre quelle cagionate da archibugi e moschetti erano non solo più gravi, ma anche differenti, ponendo i chirurghi militari dinanzi ad un complesso di problematiche ignote o scarsamente note: la contusione e lo stritolamento di parti molli o di arti, l’accresciuta incidenza delle infezioni, la penetrazione di frammenti delle corazze o degli abiti nelle cavità, l’asportazione d’interi segmenti del corpo umano, il ritardo nella riparazione dei tessuti dovuto alla contusione dei margini delle ferite, le reazioni a livello cerebrale con commozione del sistema nervoso.

La distruttività e letalità di una ferita da arma da fuoco superava quindi quella di una da arma da lancio.

Quarto, le corazze europee si erano andate via via perfezionando a partire dal secolo XI, sia per qualità metallurgica, sia per tipologia della corazzatura.

Semplificando al massimo, si era passati dalla cotta di maglia od usbergo (anelli metallici intrecciati fittamente fra di loro), alla cotta di maglia supportata da piastre, sino all’armatura bianca o corazza integrale formata da piastre, quella che nell’immaginario collettivo è ritenuta la corazza medievale per eccellenza, anche se in verità compare nel tardo Medioevo e continua ad essere impiegata nell’era moderna.

Anche lo spessore delle corazze si accrebbe progressivamente ed inoltre i maestri artigiani appresero a migliorare l’efficacia protettiva con arrotondamenti o spigolature delle corazze, poste dove possibile, pensate per rendere l’angolo d’impatto delle armi offensive più sfavorevole, deviandoli o smorzandoli.

Anche se soltanto i più ricchi, solitamente gli aristocratici che formavano la cavalleria pesante, potevano permettersi armature complete, pure ad inizio del ‘500 erano ormai comuni anche ai fanti elmi e pettorali capaci di fermare i proiettili delle armi da getto.

Contro simile protezione gli arcieri e balestrieri erano pressoché impotenti, perché erano in grado di ferire i nemici soltanto nelle parti del corpo prive di corazzatura a piastre, che però sovente erano protette da imbottiture, cuoio od altre guarnizioni.

Invece archibugi e moschetti erano abitualmente capaci di perforare anche le corazze a piastre. Senza addentrarsi nella lunga e complicata descrizione di varie tipologie di armi da fuoco del periodo 1492-1648 e delle diverse corazze esistenti, con spessori differenti sia fra di loro, sia tra le loro varie parti, si può sostenere tranquillamente che l’impatto di una palla d’archibugio o moschetto contro una corazza sortisse normalmente l’effetto di squarciarla.

Armi da fuoco di calibro minore, come le pistole od alcuni archibugi leggeri, potevano essere fermati da corazze d’alta fattura, ciò che è confermato sia da fonti sia dalle analisi archeologiche e di laboratorio.

Ma si trattava comunque di eccezioni, cosicché le corazzature, impotenti a fermare le pallottole (per non parlare delle cannonate) finirono con lo scomparire quasi completamente negli eserciti europei nel secolo XVIII, tranne che per la specialità di cavalleria detta appunto dei corazzieri e che era incaricata di condurre cariche all’arma bianca.

Come si è visto, archi e balestre avevano molte prestazioni superiori ad archibugi e moschetti nell’era militare soprannominata pike and shot, dalle due armi dominanti in essa, la picca e la canna da fuoco: erano migliori per gittata, rapidità di tiro, precisione, affidabilità, duttilità tattica, costo.

L’unica prestazione in cui le nuove armi superavano le vecchie, anzi le surclassavano, era l’energia cinetica sprigionata, quindi la forza di penetrazione. Essa consentiva sia di perforare corazze insuperabili alle saette e verrettoni, sia di provocare ferite più gravi.

Si possono fornire alcuni pochi dati sull’energia cinetica di queste armi, calcolati da studi in laboratorio sulla base di precise ricostruzioni dei modelli originali, con l’avvertenza che per brevità si semplifica al massimo, evitando di distinguere fra le moltissime categorie d’armi esistenti e sulle variabili nel loro impiego.

Nel sistema internazionale, l’energia cinetica è misurata in joule, che è la medesima unità di misura del lavoro e del calore. Un arco lungo di media potenza era in grado di scagliare frecce con una energia all’impatto di 90 J. Una balestra tardomedievale poteva arrivare a 200 Jall’impatto. Un archibugio rudimentale, fra quelli usati a cavallo fra ‘400 e ‘500, oscillava fra 1300 e 1750 J.

I moschetti pesanti a forcella, presenza comune sui campi di battaglia fra la fine delle guerre d’Italia e la guerra dei Trent’anni, andavano da un minimo di 2300 J ad un massimo di 3000 J. Fu una causa sicuramente decisiva nell’imporsi delle armi da fuoco l’impossibilità di archi e balestre di perforare le armature in acciaio, più diffuse e perfezionate che mai in passato.

È vero che archi e balestre rendevano necessario un addestramento enormemente più lungo delle armi da fuoco e questo ebbe il suo peso nel loro imporsi. Tuttavia, l’argomento secondo cui le armi da fuoco avrebbero portato all’estinzione quelle da lancio perché più facili da usare è insufficiente e non spiega una serie di dati di fatto.

In primo luogo, la storia militare abbonda di pratiche belliche, tattiche, armamenti che si sono imposti per la loro maggiore efficienza, malgrado richiedessero un addestramento elevato e superiore alle loro alternative.

L’esercito romano fece larghissimo impiego del pilum, il giavellotto, facilissimo da usare e divenuto arma d’ordinanza del legionario, accanto alla spada, per molti secoli.

Eppure, il giavellotto, efficiente e d’uso intuitivo semplicissimo, non portò alla scomparsa dei reparti di arcieri o frombolieri, nonostante l’addestramento assai più lungo richiesto, perché queste unità erano militarmente funzionali e consentiva azioni irrealizzabili con i giavellotti.

Era sicuramente più facile apprendere l’impiego di una balestra che di un arco, ma questo non condusse nel Medioevo alla scomparsa del secondo, che anzi rimase diffuso almeno quanto la rivale, se non di più. Un cavaliere munito di lancia necessitava di un periodo di preparazione nettamente maggiore di uno munito di sciabola o di spada, ma i lancieri sono esistiti dall’Antichità sino al XX secolo.

Gli esempi in tal senso si sprecherebbero, per cui è sbagliato a priori, già teoricamente, che sia sufficiente per un’arma essere di più facile impiego per sostituirne un’altra.

In secondo luogo, l’ipotesi che le armi da fuoco abbiano vinto la competizione con quelle dal lancio per la minore preparazione necessaria non giustifica perché molte migliaia di specialisti bene addestrati, arcieri e balestrieri esperti e preparati, siano scomparsi dai campi di battaglia europei nel volgere di pochi anni.

Se fossero stati ancora efficienti militarmente, sarebbero rimasti in servizio con il loro equipaggiamento.

Non si trattava qui di reclute, ma di professionisti già addestrati al maneggio di archi e balestre, ossia di un materiale umano esistente e disponibile, che ciononostante cessò di essere adoperato.

Ancora, alcune regioni avevano una lunga tradizione militare nella fanteria leggera, come i balestrieri genovesi e piemontesi, oppure gli arcieri gallesi. L’adozione delle armi da fuoco comportò un mutamento radicale di strutture artigianali, d’addestramento, d’arruolamento consolidate, cosicché è arduo ricorrere, anche qui, all’ipotesi che l’archibugio ed il moschetto avessero soppiantato arco e balestra per maggiore facilità d’utilizzo.

Nel volgere di pochi anni, interi contesti sociali di combattenti professionisti, mercenari apprezzati da secoli, dovettero o cessare l’attività o convertirsi ad altri modi di combattere.

In terzo luogo, vi sono prove certe che i comandanti e gli uomini d’arme in generale avessero potuto sperimentare la diversa efficacia di archibugi e moschetti contro archi e balestre.

A Melegnano un corpo di tiratori, per oltra la metà di balestrieri guasconi (abbastanza rinomati, comunque specialisti e non reclute improvvisate) rafforzati da molti arcieri e pochi archibugieri, forte di circa 10.000 uomini, fu disperso senza difficoltà nell’urto iniziale da un quadrato di picchieri svizzeri di circa 8000 o 9000 unità, avanguardia dell’armata cantonale.

La battaglia proseguì per molte ore, in cui i fanti elvetici furono contrastati per lo più dai lanzichenecchi e dalla cavalleria pesante, coadiuvati dall’artiglieria: l’azione dei tiratori, in un’intera notte di scontri, fu al confronto assai più limitata.

Sintomaticamente, questa battaglia campale fu l’ultima in cui vi fu menzione di arcieri e balestrieri presenti in massa. Invece, nelle battaglie di Cerignola (1503), Bicocca (1522), Pavia (1525), giusto per portare alcuni celebri esempi, gli archibugi fecero strage e risultarono, ogni volta, determinanti nel successo finale.

Alla battaglia di Lepanto (1571) una delle ragioni della schiacciante vittoria cristiana fu la differenza d’armamento. I turchi, discendenti di popoli nomadi dell’Asia centrale che da tempo immemorabile eccellevano nell’impiego delle armi da lancio, disponevano di ottimi arcieri, addestrati sin dall’infanzia, e dei celebri archi compositi, capaci di prestazioni persino superiori all’arco lungo europeo.

Tuttavia, i loro nembi di frecce produssero scarse perdite fra gli equipaggi della lega (incidentalmente, si può ricordare che i combattenti cristiani a Lepanto furono in maggioranza netta italiani), protetti da valide corazze.

All’opposto, le armi da fuoco degli europei falciarono a mucchi i mussulmani. I turchi compresero l’accaduto e cercarono di dotarsi di un proprio corpo di archibugieri e moschettieri, nonostante non avessero certo carenza di arcieri di alta qualità. In tutti questi casi (altri se ne potrebbero portare) s’evidenzia la diversa efficacia delle “armi del diavolo” contro le vecchie armi da lancio, impotenti contro le corazze a piastre.

È lecito quindi avanzare l’ipotesi che la corazza abbia portato al successo del suo maggiore nemico, l’arma da fuoco.

 

 

Bibliografia

 

P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952.

G. Giorgetti, Le armi antiche, II, L'arco, la balestra e le macchine belliche, Milano 1964.

G. Parker, The military revolution. Military innovation and the rise of the West 1500-1800, New York 1988.

F. Tallett, War and society in early-modern Europe, 1495-1715, London-New York 1992.

J. Bradbury, The Medieval Archer, Oxford 1996.

G.P. Motta, Marte liberato. Rivoluzione militare e rivoluzione industriale, Torino 1998.

J. Glete, War and the state in early modern Europe, London-New York 2002.

M. Strickland, The Great Warbow: From Hastings to the Mary Rose, Oxford 2005.

K. Roberts, Pike and shot tactics 1590-1660, Oxford 2010.

G. Cosmacini, Guerra e medicina. Dall’Antichità ad oggi, Roma-Bari 2011.

M. Borrini, S. Marchiaro, P. Mannucci, La lesività delle armi antiche: la frombola a mano, in Archivio per l’Antropologia e la Etnologia - Vol. CXLII Firenze (2012), pp. 27-42.

G. Ágoston, Firearms and Military Adaptation: The Ottomans and the European Military Revolution, 1450–1800 in Journal of World History. 25 (1), 2014, pp. 85–124.

M. Scardigli-A. Santangelo, Le armi del Diavolo: Anatomia di una battaglia: Pavia, 24 febbraio 1525, Novara 2015.

 

Statistiche

Utenti registrati
136
Articoli
3167
Web Links
6
Visite agli articoli
15187120

(La registrazione degli utenti è riservata solo ai redattori) Visitatori on line

Abbiamo 555 visitatori e nessun utente online