Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

In ricordo di Gerardo Marotta

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Il tempo dell'uomo non sono i tempi dello spirito.

Il compimento del quarto anniversario della morte dell'avvocato Gerardo Marotta, avvenuta, per un caso, per un tiro beffardo della sorte o per pietosa necessità, negli stessi giorni in cui avvenne la proclamazione della Repubblica napoletana del 1799, non riesce più a trovare alcuna forma di consolazione nella vuota retorica. La rifiuta.

E mi impone di affrontare una tematica che oltrepassa l'ordinaria dimensione degli studi e penetra nell'intimità dell'anima: gli effetti della Repubblica napoletana del 1799 sulla mia vita.

Il fermarmi, infatti, per analizzare se e quanto il "forum" della mia anima e le azioni concrete siano tra essi in rapporto armonico, è un'operazione che rappresenta l'unico strumento che possa evitare che lo spirito ceda alle tenebre della superficialità, dell'incostanza e dell'incoerenza, degradandosi ad uno stato di indolente ed irreversibile mediocrità.

Un pericolo ancora maggiore, in tempi difficilissimi come quelli contemporanei.

Non esistono parole più appropriate di quelle contemplate nei versi finali del Canto XVII del "Paradiso" della "Commedia" di Dante Alighieri per esplicare il significato degli eventi "grandi e terribili" del 1799 napoletano, quando Cacciaguida profetizza al suo discendente Dante quali sofferenze lo attendano per aver utilizzato la sua arte poetica per scuotere gli animi dal loro torpore ed accusare i potenti:

 

«[...] Coscienza fusca
o de la propria o de l'altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visїon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov'è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime percuote;
e ciò non fa d'onor poco argomento. [...]»

 

Confesso che la lettura di questi versi sia stata paragonabile alla recita di una preghiera laica nel periodo immediatamente successivo alla morte dell'avvocato Gerardo Marotta, un evento che per un lungo tempo ha comportato non un semplice allontamento spirituale dalla Repubblica napoletana del 1799 ma un autentico ripudio sfociato nel disconoscimento di qualsiasi valore riconducibile a quei fatti.

Ci sono momenti in cui la notte dello spirito è talmente profonda che il pensiero rifiuta di prendere in considerazione una dimensione diversa dall'annichilimento.

La morte dell'amato maestro, avvenuta dopo una lunga agonia in cui il bene ed il male sembravano aver perduto ogni vitalità e limite, non ha potuto fare altro che condurmi alla conclusione che anche l'avvocato Marotta fosse rimasto vittima delle nefande conseguenze della Controrivoluzione borbonica, ancora indiscutibilmente presenti tra noi, e contro le quali il venerato maestro non ha mai smesso di combattere fino all'ultimo istante della sua vita.

Proprio durante gli ultimi anni della sua vita erano continui i suoi riferimenti al suo maestro ideale, Benedetto Croce, ed alle conclusioni cui quest'ultimo fosse giunto, anch'egli negli anni finali della propria vita, riguardo al rapporto intercorrente tra decadenza e progresso della civiltà nella storia dell'uomo: sebbene esista un'alternanza tra barbarie e civiltà, è indiscutibile che i tempi della prima siano molto più lunghi di quelli della riconquista della libertà.

Ciò comporta che la furia e la sistematica eliminazione di ogni forza progressista perpetrata dal Borbone durante la I Restaurazione è stata tale da fiaccare lo spirito pubblico nel Mezzogiorno fino nelle sue strutture basilari, decretando il sorgere di classi dirigenti endemicamente mediocri ed incapaci, e che solo una coscienza che riesca a comprendere la necessaria storicità del pensiero in perenne dialogo con le questioni etiche contemporanee può far cessare questa decadenza secolare che incatena Napoli ed il Mezzogiorno all'arbitrio ed alla potenza delle forze reazionarie che, con sembianze diverse, offendono le vite degli uomini e delle donne devoti alla libertà ed alla bellezza.

In un altro momento storico particolarmente difficile, in una Napoli distrutta dal terremoto del 1980 e diventata preda del malaffare e della criminalità organizzata, Gerardo Marotta affermava che ci fosse un'unica strada per vendicare i Martiri del 1799, e che questa coincidesse con una tipologia di rivoluzione senza pari perché fondata su di un principio ordinatore e non distruttivo: far rivivere lo Stato, far rispettare le leggi dello Stato.

Essere eredi spirituali dei Repubblicani del 1799 è una condizione che partendo, quindi, dalla condanna morale per le esecuzioni, le incarcerazioni e l'assoggettamento del Regno ai capi briganti fedeli al Borbone, supera , senza abbandonare, questo criterio e pone solide basi su di un criterio storico che ha il suo oggetto nelle determinazioni del progresso umano: la Repubblica del 1799, nel pensiero di Benedetto Croce e di Gerardo Marotta, è un evento storico cui bisogna guardare per gli effetti che essa ha avuto a Napoli e nel Mezzogiorno per fare in modo che la libertà non perda la sua funzione di strumento di tutela e vero avanzamento per la dignità umana.

Non ignoro che con la supremazia del cosiddetto "pensiero debole" il pensiero storico e storiografico abbia ripudiato il giudizio di valore e la complessità come principio e criterio del proprio svolgersi, con l'ineluttabile conseguenza della creazione di generazioni che alla purezza dell'amore per la storia, che si basa su di un continuo lavoro fisico ed intellettuale, preferiscano le passeggere sensazioni provocate dalle suggestioni di narrazioni prive di qualsiasi approfondimento.

Le strutture della società di massa hanno terminato con l'orientare gli animi degli uomini al soddisfacimento dei piaceri personali, anteponendo il momento dello svago fine a se stesso al silenzio riflessivo cui obbliga una vera riflessione culturale.

Oggi riesce difficile spiegare come le opere letterarie storiche, da intendere sia come res gestae che come historia rerum gestarum, abbiano svolto durante i secoli il compito di diffondere ideali progressisti e rivoluzionari: non si può più rimandare l'assunzione di quel particolare dovere che obbliga al rientrare nella tradizione di quegli studi storici che, fondati su di un eterno Umanesimo, possano finalmente restituire la capacità di giudizio, il discernimento fondato sul valore, e la forza morale dell'azione.

Ancora non mi è chiaro quale sia, per la mia anima e per la mia vita, il significato ultimo delle vicende della Repubblica napoletana del 1799 e non escludo che anche per me esso sarà oggetto di mille modifiche che rispecchieranno le tensioni etiche del momento storico in cui queste avverranno.

Nulla esclude che si potrà forse svelare quando i miei tempi saranno per concludersi, ed il cuore da allieva sa che esiste un unico metodo per rendere omaggio ai maestri consiste nel non arrestarsi al contenuto del loro insegnamento, ma assecondare la benefica irrequietezza degli occhi dello spirito, che hanno solo in loro stessi il proprio principio legislatore.

Ho un'unica, incrollabile, incertezza a sostenermi, tuttavia: come Friedrich Nietzsche insegna, un allievo ha il dovere di superare il proprio maestro: Gerardo Marotta, con la forza del suo spirito ha affrontato e vinto la Controrivoluzione; ad ognuno di noi non rimane altro compito che affrontare le tenebre presenti e vincere grazie alla forza del nostro spirito le forze reazionarie del nostro tempo.

Fino a quando ci sarà anche un solo napoletano a combattere, il sacrificio di Eleonora Pimentel Fonseca, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Gennaro Serra di Cassano e Gerardo Marotta non sarà stato vano.

 

«[…] Così, cercando che i morti non siano morti, cominciamo farli effettivamente morire in noi.

Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora,

che è di continuare l’opera loro a cui essi lavorarono, e che è rimasta interrotta.

Onde procediamo di tener salde le istituzioni da essi create, di divulgare le loro parole,

di far fruttificare i loro pensieri. Sì,ma tutto questo è poi opera nostra;

e, nello svolgimento di quest’opera, ci distacchiamo sempre più dalla loro,

la oltrepassiamo, la facciamo altra; e, se li andavamo già dimenticando col celebrarli,

ora li dimentichiamo anche praticamente, col proseguire l’opera loro.[…]

Che cosa è la nostra vita se non appunto un <<correre alla morte>>, alla morte dell’individualità;

che cosa è il lavoro se non la morte nell’opera, che si stacca dal lavoratore e gli si fa estranea?

E’, codesta, perfino la gloria, la gloria vera, la sopravvivenza effettiva,

ben diversa dal rumore mondano intorno ai nomi e alle parvenze.»

Benedetto Croce, I trapassati, in “Etica e politica”, 1930.

 

 

 

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