Giacobini e realisti nel 1799 in Terra di Lavoro
Il Regno più antico d'Italia, com'è noto, era quello di Napoli: sorto grazie ai Normanni, che, partendo da Aversa, riuscirono a unificare tutto il Meridione e la Sicilia nel 1130; era passato, poi, attraverso le dominazioni degli Svevi, degli Angioini e degli Aragonesi, per essere per due secoli, dal 1503, dominio spagnolo. Dopo una breve dominazione austriaca aveva finalmente, con Carlo di Borbone, una indipendenza dinastica e un re proprio. Dopo l'arrivo del giovane re, il Regno era nato a nuova vita. Nel periodo del suo governo fu fatto il censimento dei beni fondiari e immobiliari di tutta la popolazione laica ed ecclesiastica, il catasto onciario e la tassazione dei beni ecclesiastici, il Concordato con la Santa Sede, che ridusse sensibilmente il diritto di asilo e il privilegio di foro.
Fu realizzata una politica delle opere pubbliche con la costruzione, tra l'altro, dei palazzi reali di Capodimonte e di Caserta, a sostegno del prestigio della nuova monarchia; fu migliorata la rete viaria, sia pure per rendere più facile l'accesso ai siti reali destinati alla caccia; si procedette all'ammodernamento del porto di Napoli e furono varati incentivi ai traffici attraverso l'istituzione della Giunta e del Supremo Magistrato del Commercio. Vi furono resistenze nell'attuazione di queste riforme, iniziando dal catasto onciario: gran parte della nobiltà e della borghesia ne osteggiò l'attuazione nei vari comuni per evitare la modifica della tassazione, anche attraverso la scomparsa o la falsificazione dei documenti. In sostanza il Concordato e il Catasto, che erano stati concepiti per limitare la strapotenza economica del clero e dei nobili e sollevare il popolo della campagna dall'oppressione degli esattori e dei gabellieri, non raggiunse l'effetto desiderato perché "mancarono la forza e la scienza per riuscire nell'uno e nell'altro; gli eccellenti propositi si ruppero contro ceti quasi invincibili". Nello spirito della politica regalista e anticurialista, inaugurata dal Tanucci, già nel 1738 erano state emanate norme abroganti i cosiddetti Testamenti dell'anima raccolti al capezzale dei moribondi dagli ecclesiastici, i quali avevano la facoltà di certificare che il defunto, durante la confessione, aveva espresso la volontà di lasciare i propri beni, in tutto o in parte, a qualche istituzione religiosa. Tale dichiarazione, in assenza di testamento olografo, era sufficiente a determinare il trasferimento dei beni all'ente ecclesiastico prescelto; questa procedura aveva contribuito in maniera efficace, insieme all'esenzione dalle tasse dei beni ecclesiastici, alla costituzione di ingenti patrimoni nelle mani della chiesa, dei luoghi pii e dei monti. La speranza di conquistare il paradiso per la propria anima, attraverso le opere di pietà e di beneficenza, spingeva molti, anche opportunamente sollecitati, specialmente in punto di morte, a disporre dei propri beni non tenendo conto solo dell'amore per i propri congiunti.
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