I lager di Francesco Giuseppe d’Asburgo

Categoria principale: Storia
Categoria: Storia Contemporanea
Creato Martedì, 01 Dicembre 2020 10:55
Ultima modifica il Mercoledì, 02 Dicembre 2020 20:25
Pubblicato Martedì, 01 Dicembre 2020 10:55
Scritto da Marco Vigna
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I prigionieri italiani della Grande Guerra del 1915-1918 furono così distribuiti cronologicamente: circa 260.000 catturati dall’inizio della guerra sino a Caporetto (per la maggior parte feriti), 280.000 presi nella ritirata dopo Caporetto, altri 50.000 nell’ultimo anno di guerra. Il totale ammonta quindi a circa 600.000, fra cui 19.500 ufficiali.

I morti in prigionia furono circa 100.000, quindi 1 prigioniero italiano su 6 perì nei campi di prigionia imperiali.

La cifra effettiva di coloro che perirono in conseguenza delle condizioni della cattività è però più alta, perché altri 50.000 morirono poco dopo la liberazione dai lager imperiali perché ormai troppo debilitati e malati.

Di fatto, su 600.000 prigionieri italiani finiti nei campi di concentramento imperiali, 150.000 morirono per le conseguenze della cattività: 1 morto ogni 4 prigionieri.

Le condizioni dei prigionieri furono piuttosto differenti da luogo a luogo, perché circa 1/3 fu rinchiuso in campi della Germania (dove furono trattati molto meglio che nell’impero d’Austria) e vi furono diversità anche nei lager austriaci. Lo status dei militari italiani catturati fu comunque mediamente pessimo.

La razione quotidiana era inferiore alle 1000 calorie, quindi insufficiente per un uomo adulto medio.

Il pasto che l’impero concedeva ai prigionieri fu solitamente così costituito, grossomodo: uno scadente caffè d'orzo come colazione, un minestrone a base di rape come pranzo, una patata, con una aringa ed una fettina di pane per cena.

La carne era un lusso raro, che si limitava ad un pezzettino minuscolo due o tre volte la settimana. Ridotti a scheletri, i prigionieri cercavano di lenire la fame con espedienti inutili o dannosi, talora letali: ingollando grandi quantità di acqua, inghiottendo erba, carta, talora persino terra, piccoli pezzi di legno od addirittura sassolini.

La carenza alimentare era aggravata dal lavoro forzato, a cui i prigionieri erano obbligati per 12-14 ore al giorno, con lavori pesanti nell’agricoltura, nell’industria, nelle miniere. La combinazione fra scarsità di calorie e consumo delle stesse in lunghi e gravosi impegni condusse inevitabilmente ad un’alta mortalità.

La salute dei prigionieri fu menomata anche dal vestiario e dall’alloggiamento. Le autorità imperiali non si curarono di rimpiazzare le uniformi con cui erano stati catturati o di fornire ai prigionieri abbigliamento invernale qualora i prigionieri non lo avessero. Inoltre gli italiani erano rinchiusi di norma in grossi stanzoni privi di riscaldamento ed infestati da pidocchi.

Da ultimo, ma non per ultimo, i carcerieri imperiali fecero ampio ricorso a punizioni corporali durissime, secondo norme e consuetudini radicate nell’impero d’Austria e non solo verso i prigionieri.

Il ricorso alla bastonatura, che per inciso era peggio della fustigazione, fu frequente contro i patrioti italiani nel Risorgimento ed ancora dopo il 1866 contro gli irredentisti in senso stretto. Contro i prigionieri italiani si utilizzarono bastonature e la tortura del palo.

Essa era così condotta. L’italiano era legato con corde ad un palo alle caviglie ed ai polsi, tendendo le braccia sollevate verso l’alto ed all’indietro, i piedi invece sollevati dal suolo ed incrociati, affinché il corpo dovesse pendere in avanti descrivendo una sorta di semicerchio.

Il punito era tenuto in questa faticosissima e dolorosa posizione per molte ore, due, tre, quattro. Se sveniva, ciò che accadeva sovente, il condannato era fatto rinvenire con un secchio d’acqua, oppure momentaneamente slegato e poi rilegato.

Il risultato di questa combinazione di dieta da morte per fame, lavori forzati, freddo, pestaggi e torture, fu un’ecatombe di decessi per polmonite, dissenteria, tubercolosi e specialmente inedia.

Le testimonianze dei superstiti descrivono i campi di concentramento asburgici come popolati da scheletri ricoperti di stracci, che giacevano nel luridume, così affamati da buttarsi nei canali di scolo per tentare di recuperare scarti di cibo gettati nella spazzatura. I lager del kaiser furono soprannominati nel 1918 “le città dei morenti”.

Mentre il vitto inadeguato trovava una spiegazione almeno parziale nella carenza alimentare sofferta dagli Imperi centrali nella guerra, non si sono spiegazioni siffatte per le torture, le punizioni corporali, i lavori forzati eccedenti le forze dei prigionieri che ne consumavano il fisico, le mancanze in fatto di vestiario e riscaldamento che conducevano a frequentissimi casi di polmoniti od ad altri malanni, come il congelamento.

Fu il rapporto tra sforzo lavorativo eccessivo ed insufficienti calorie ad essere la causa prima dell’esaurimento e della morte dei prigionieri italiani in Austria.

Il trattamento inferto ai prigionieri italiani fu una violazione delle leggi internazionali di guerra.

La convenzione firmata all’Aja il 29 luglio 1899 e ratificata anche dai vari stati europei belligeranti nel primo conflitto mondiale obbligava a trattare con umanità i prigionieri di guerra (art. 4), ad alimentarli (art. 7). I militari catturati potevano essere impiegati in attività lavorative, ad eccezione degli ufficiali, ma in misura «non eccessiva».

Può essere utile un confronto fra i lager di Francesco Giuseppe d’Asburgo e Carlo I da una parte, quelli del loro connazionale austriaco Adolf Hitler dall’altra. Il tasso di mortalità fra i prigionieri italiani nella Grande Guerra finiti nei campi di concentramento austriaci fu più che doppia di quella dei militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.

 

 

 

Bibliografia

La Relazione della R. Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, Roma 1920-1921

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