Platone e la matematica

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Pubblicato Sabato, 29 Agosto 2020 14:31
Scritto da Michele Marsonet
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Ai tempi di Platone, la matematica non influiva sulla vita spirituale dell’epoca perché fosse uno strumento ausiliario delle discipline naturalistiche (e, quindi, per motivi pratici). Platone aveva enorme stima della matematica perché apprezzava il valore formativo delle sue idee, e ne comprendeva l’importanza per le problematiche filosofiche.

Questo carattere specifico della matematica è stato trascurato per lungo tempo. Sappiamo che la matematica offre la possibilità di concatenare i simboli con facilità, e ciò costituisce un pre-requisito indispensabile per costruire una qualsiasi teoria scientifica.

Oggi, si è ormai fatta strada la convinzione che la riflessione filosofica sui fondamenti della matematica, e quindi il colloquio tra matematici e filosofi, sia utile. Non solo: Hans Reichenbach che il pensiero derivante dalla matematica dà origine ad una nuova forma di filosofia, che supera tutti i precedenti sistemi “pre-scientifici”.

E’ ovvio che il neopositivismo logico risente in misura essenziale di questa impostazione, così come tutta la filosofia orientata scientificamente del secolo scorso e del nostro.

Di solito i Greci non si occupavano - a differenza degli Egizi, dei Babilonesi e di altri popoli - del problema della “applicabilità” della matematica.

 

Per i Greci del periodo classico, la matematica era semplicemente un fondamentale strumento di conoscenza, ossia la via primaria per giungere a conoscere la vera “essenza” della realtà.

Questo punto di vista è ben illustrato da un aneddoto in cui si riferisce che Euclide abbia risposto in questo modo a un uomo che gli chiedeva a cosa serviva la matematica: «Date a quell’uomo un paio di monete d’oro. Egli studia per trarne profitto.»

E’ soltanto in epoca più tarda, e in particolare con Archimede, che i matematici greci assunsero un atteggiamento positivo nei confronti delle applicazioni pratiche della matematica (ivi incluse quelle belliche).

Ma è con Platone che l’atteggiamento puramente speculativo raggiunge il suo apice. Pare probabile che il filosofo greco abbia dato dei contributi personali allo sviluppo della matematica, anche se sussiste incertezza circa la loro reale portata.

Ad esempio, è tuttora controverso se sia stato effettivamente Platone il primo a costruire i cosiddetti “solidi platonici”. Si tratta dei cinque poliedri regolari, che il filosofo collegava ai quattro “elementi” costitutivi dell’universo (aria, acqua, terra e fuoco) e all’universo stesso concepito come un tutto.

L’importanza di Platone, tuttavia, non va ascritta tanto a contributi specifici di questo tipo, quanto al suo appassionato stimolo all’indagine matematica e alle sue ricerche gnoseologiche circa l’essenza della matematica stessa. Se ci chiediamo per quale motivo la celebre iscrizione sopra la sua Accademia vietava l’ingresso a chi «non fosse studioso di geometria», possiamo trovare facili risposte in molti passi dei suoi dialoghi. Afferma ad esempio nella Repubblica:

«Tu sai, credo, che coloro che si occupano di geometria, di calcoli e di simili studi, ammettono in via d’ipotesi il pari e il dispari, le figure, tre specie di angoli e altre cose analoghe a queste, secondo il loro particolare campo d’indagine; e, come se ne avessero piena coscienza, le riducono a ipotesi e pensano che non meriti più renderne conto né a se stessi né ad altri, come cose a ognuno evidenti. E, partendo da queste, eccoli svolgere i restanti punti dell’argomentazione e finire, in piena coerenza, a quel risultato che si erano mossi a cercare (...) E quindi sai pure che essi si servono e discorrono di figure visibili, ma non pensando a queste, sì invece a quelle di cui queste sono copia: discorrono del quadrato in sé e della diagonale in sé, ma non di quella che tracciano, e così via; e di quelle stesse figure che modellano e tracciano, figure che danno luogo a ombre e riflessi in acqua, si servono a loro volta come di immagini, per cercar di vedere quelle cose in sé che non si possono vedere se non con il pensiero, dianoeticamente.»

 

Le conoscenze della matematica sono dunque per Platone degli sguardi gettati nel regno delle idee, del quale egli parla nel celebre “mito della caverna”: chi è incatenato alla parete di una caverna vede direttamente solo le ombre delle cose, che la luce del fuoco proietta sulla parete.

L’educazione ottenuta attraverso il pensiero matematico, tenuta in così alta considerazione da Platone, ha l’effetto di liberare l’uomo dalla schiavitù delle catene, e di insegnargli a rivolgere gli occhi, inizialmente abbagliati per il buio della caverna, alle cose viste alla luce del Sole, distogliendoli dalle ombre.

Tutto ciò risulta ancora più chiaro nella settima Lettera di Platone, dove troviamo la distinzione tra i diversi modi di considerare un concetto geometrico. Egli sceglie come esempio il circolo, e distingue:

 

(1) qualcosa che viene detto circolo, che ha appunto quel nome che abbiamo        pronunziato;

(2) la definizione linguistica del concetto;

(3) l’immagine corporea del circolo tracciata dal disegnatore;

(4) la conoscenza, che ha il circolo come oggetto;

(5) il “proto-circolo in sé”, ideale e tuttavia più reale di tutto il resto.

 

Per quale motivo per Platone il circolo ideale è, allo stesso tempo, il più reale? Lo si deduce dalle sue parole circa il concetto di uguaglianza nel Fedone:

 

«Dunque, prima che noi cominciassimo a vedere e a udire e insomma a far uso degli altri nostri sensi, bisognava pure che già ci trovassimo in possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che cosa realmente esso è, se poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, riportarli a quello, e pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello, mentre poi gli rimangono al di sotto (...) Or dunque, subito appena nati, non vedevamo noi, non udivamo, non avevamo tutti gli altri sensi? (...) E non bisognava anche che, prima di tutto ciò, fossimo già in possesso della conoscenza dell’eguale in sé? (...) E dunque, come pare, già prima di nascere noi dovevamo essere in possesso di codesta conoscenza.»

 

Pertanto, è proprio perché il concetto dell’uguale - così come gli altri concetti matematici basilari - non si incontrano allo stato “puro” nel mondo delle osservazioni sensibili, e quindi perché “noi li abbiamo ricevuti prima della nascita” (ci pre-esistono), che ad essi va attribuita una realtà non-sensibile a prescindere da ogni osservazione empirica.

Il punto fondamentale che occorre mettere in rilievo è, allora, il seguente: percorrendo quel sentiero, Platone ha dato alla matematica un fondamento metafisico.

E’, questo dei rapporti tra matematica e metafisica, uno dei temi centrali sia del pensiero filosofico che di quello matematico (ammesso che essi si possano veramente distinguere con una cesura netta).

I matematici stessi si sono sempre divisi - come del resto i filosofi - in due schiere contrapposte: da un lato coloro che vedono la matematica come mero strumento per le scienze empiriche oppure come semplice calcolo (equiparabile a un gioco) privo di interpretazioni filosofiche. Dall’altro, coloro i quali ritengono invece che la matematica abbia un fondamento metafisico intrinseco, che d’altro canto riflette un particolare tipo di “esistenza” di cui gli enti matematici sarebbero dotati. Bertrand Russell si colloca in questa seconda schiera, ma mette conto notare che vi sono anche moltissimi matematici di professione che la pensano allo stesso modo.

Ernst Goldbeck, ad esempio, afferma che «nella matematica, abbiamo di fronte a noi uno sterminato regno ideale, l’ampiezza e la profondità del quale nessuno ha ancora misurato.» Nonostante ciò, è un dato di fatto che la maggior parte dei matematici odierni intendono liberarsi da questa fondazione metafisica della loro disciplina.

Ma torniamo a Platone.

L’occuparsi di matematica era, a suo avviso, una via per giungere a vedute di tipo molto generale. Ne è un esempio il celebre colloquio di Socrate con uno schiavo nel Menone. Socrate chiede in questo dialogo a uno schiavo del tutto privo di nozioni matematiche quale sia la lunghezza del lato di un quadrato che deve essere il doppio di un quadrato dato, il lato del quale misura due piedi. La risposta più ovvia - ma anche sbagliata - è “quattro piedi”.

Tuttavia, adottando il suo celebre metodo maieutico, Socrate riesce a tirar fuori dallo schiavo ignorante il risultato corretto.

Si rammenti, però, che Socrate compie l’esperimento suddetto solo per risolvere il problema della natura di ogni conoscenza. Proprio perché l’oggetto dell’esperimento è uno schiavo del tutto privo di nozioni matematiche, e perché egli, attraverso l’arte socratica di porre le domande giuste, riesce a pervenire al risultato esatto, Platone può trarre la seguente conclusione:

«Se, allora, e nel tempo in cui è uomo e nel tempo in cui non lo è, vi sono in lui opinioni vere, le quali, risvegliate mediante l’interrogazione, diventano conoscenze, l’anima di lui non sarà stata in possesso del sapere sempre, in ogni tempo? (...) Sicché bisogna mettersi con fiducia a ricercare ed a ricordare ciò che attualmente non si sa: questo è infatti ciò che non si ricorda.»

 

Partendo da simili premesse, è spontaneo giungere alla conclusione che più sta a cuore a Platone: un’anima di questo tipo, la quale ha sempre in sé la verità, deve essere immortale. Abbiamo dunque un esempio molto chiaro di come il filosofo greco, partendo da un processo di conoscenza matematica, arriva a problemi che trascendono largamente quello posto all’inizio.

Si deve tuttavia notare che l’evidente entusiasmo di Platone per la matematica non viene neppure preso in considerazione da molti suoi interpreti odierni.

È, questo, un problema ricorrente in molti manuali di storia della filosofia: autori come Descartes, Leibniz, Kant e lo stesso Platone, il cui pensiero non si può veramente comprendere se non in riferimento all’atteggiamento da essi assunto verso la scienza del loro tempo (e senza scordare che molti di essi - come Descartes e Leibniz - erano scienziati di professione oltre che filosofi), vengono esaminati da un punto di vista puramente speculativo, con il frequente risultato di perdere di vista l’essenza stessa delle loro tesi.

Un altro esempio dell’entusiasmo di Platone per la matematica si trova nelle Leggi, in cui egli parla dell’ignoranza umana affermando:

«Caro Clinia, anch’io ho preso coscienza molto tardi di questa nostra condizione e il fatto mi ha veramente colpito, perché mi è sembrata una condizione non degna di uomini, ma di una qualche specie di maiali. Pertanto, ne ho provato vergogna, non tanto per me, quanto per tutto il popolo dei Greci (...) che dire della lunghezza e della larghezza rispetto alla profondità, oppure della larghezza e della lunghezza fra di loro? Non siamo forse convinti tutti noi Greci che a tal proposito è possibile in una qualche maniera commisurare l’una all’altra? (...) E se invece ci fossero dei casi in cui il reciproco rapporto delle dimensioni è assolutamente impossibile, mentre, come sappiamo, noi Greci siamo convinti del contrario, non sarebbe giusto che, vergognandomi a nome di tutti dicessi loro: “O voi che siete il fior fiore dei Greci, ecco qui proprio una di quelle nozioni che noi ritenevamo vergognoso ignorare. E non è forse vero che non c’è gran merito a conoscere ciò che è necessario?.»

 

Esprimendoci con il linguaggio della matematica moderna, si può notare che Platone si riferisce all’esistenza di segmenti incommensurabili: ad esempio, l’incommensurabilità del lato e della diagonale di un quadrato. E’ ovvio che due segmenti si chiamano “incommensurabili” quando non esiste una siffatta misura comune, ed era già noto ai pitagorici che il lato e la diagonale di un quadrato sono, per l’appunto, incommensurabili.

Perché per Platone era così importante la considerazione di questi esempi? La risposta si ottiene notando che i Greci dovevano in buona misura il loro sapere matematico ai pitagorici i quali, oltre a formare una scuola filosofica, erano anche una setta religiosa. Ad essi si deve ovviamente la dimostrazione del teorema pitagorico, anche se non si è riusciti ad appurare se la dimostrazione si debba allo stesso Pitagora o a uno dei suoi allievi.

E’ comunque importante rilevare che essi hanno per primi riconosciuto l’importanza del numero intero per la descrizione dei processi fisici, precorrendo così Galileo di moltissimi secoli. In particolare, nella loro scuola si aveva conoscenza del rapporto tra musica e numeri e delle leggi della corda vibrante. L’errore dei pitagorici fu quello di generalizzare in modo indebito queste loro conoscenze, affermando che «Tutto è numero.»

Sotto l’influenza dei pitagorici, Platone insegnava che le idee sono una specie di “numeri ideali” e, per i sostenitori di questa dottrina, era stupefacente constatare che la geometria, con il lato e la diagonale di un quadrato, offre un esempio semplice nel quale non vale la legge del numero intero.

La matematica (come la logica), in altre parole, ci insegna che non si possono generalizzare incautamente dei risultati particolari trasferendoli in una legge universale, e l’importanza di questo “veto” logico-matematico è davvero grande.