Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Mazzini, Marx e la rivolta di Milano del 1853

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Carlo Marx e Friedrich Engels seguirono il percorso del Risorgimento italiano dai suoi momenti rivoluzionari del 1848 fino allo sbarco di Garibaldi in Sicilia, intervenendo affinché  la soluzione repubblicana e rivoluzionaria avesse la meglio e s’imponesse su quella monarchica moderata.

Nonostante la sconfitta dei moti rivoluzionari del 1848 e della Repubblica romana nel 1849, Marx e Engels, soprattutto dalle colonne del New York Daily Tribune, continuarono ad offrire ai loro lettori cronache degli eventi risorgimentali in Italia, incoraggiando i repubblicani rivoluzionari a lottare per l’affermazione delle proprie idee su quelle pur variegate di carattere moderato e liberale.

L’evento su cui Marx espresse ingenerose accuse a Giuseppe Mazzini fu la rivolta del 6 febbraio 1853 a Milano.

La sconfitta della rivolta milanese del 1853, su iniziativa dei patrioti milanesi, aveva portato all’arresto di complessivamente 895 insorti, di questi sedici furono giustiziati con l’impiccagione e la fucilazione.

L’insurrezione del febbraio 1853, il movimento di più vasta portata e di più larga ambizione tentato da Mazzini prima della spedizione di Sapri e dei fatti di Genova e di Livorno a quella connessi, si concluse dunque con un fallimento.

E subito dopo la crisi che aveva cominciato a serpeggiare latente dentro il movimento mazziniano si palesò in tutta la sua gravità.

In un articolo sul New York Daily Tribune dell’8 marzo 1853, intitolato I moti di Milano, in evidente polemica con "Teopompo" ("l’inviato di Dio", come ironicamentechiamava Mazzini), Marx gli rimproverò la convinzione delle rivoluzioni spontanee senza un’adeguata organizzazione che aveva avuto come conseguenza un inutile sacrificio nel pur  eroismo degli insorti milanesi.

 

«L’insurrezione di Milano è significativa in quanto è un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il continente europeo. Ed è ammirevole in quanto atto eroico di un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40.000 soldati tra i migliori d’Europa, mentre i figli di Mammone danzavano, cantavano e gozzovigliavano in mezzo alle lacrime e al sangue della loro nazione umiliata e torturata.

Ma come gran finale dell’eterna cospirazione di Mazzini, dei suoi roboanti proclami e delle sue tirate contro il popolo francese, è un risultato molto meschino. È da supporre che d’ora in avanti si ponga fine alle revolutions improvisées, come le chiamano i francesi. Si è mai sentito che grandi improvvisatori siano anche grandi poeti? In politica avviene come in poesia.

Le rivoluzioni non sono mai fatte su ordinazione. Dopo la terribile esperienza del ’48 e del ’49, occorre qualcosa di più degli appelli sulla carta fatti da capi lontani per suscitare rivoluzioni nazionali.»


Il fallimento della rivolta fece trovare Mazzini tra due fuochi: da una parte fu vilipeso e deriso dalla stampa monarchica e moderata e dall’altra dal rivoluzionario Carlo Marx, che da posizioni opposte gli rimproverava l’improvvisazione.

A difesa di Mazzini è intervenuto lo storico Denis Mack Smith, il quale, pur evidenziando che Mazzini si era assunto, oltre ogni onestà, la responsabilità del fallimento della rivolta, in quanto aveva l’intima convinzione che la riuscita di essa avrebbe segnato un grosso vantaggio e dato forza alle attese rivoluzionarie e repubblicane in tutta Italia, nel contempo ha respinto l’accusa  di improvvisazione che  veniva lanciata a Giuseppe Mazzini.

In relazione alle critiche Mazzini faceva osservare che da parte sua vi era stata  fiducia nei proletari milanesi e nel loro apporto alla rivolta del 6 febbraio 1853, al contrario di altri che aveva mostrato scetticismo sul “popolo” milanese.

«La cosa peggiore di tutte – scrisse Mazzini – è la funesta discordia della classe media, il colpevole comportamento dei nostri repubblicani migliori che appartenevano a quella classe; negarono fino all’ultimo che il “ popolo” potesse e volesse dare inizio all’esecuzione del piano.»

In effetti, Mazzini riconobbe che  una serie di insurrezioni  era fallite in quanto “improvvisate”, ma da Carlo Marx si attendeva, se non  parole di difesa, almeno di comprensione in merito alle oggettive difficoltà delle decisioni da prendere in momenti topici del  Risorgimento italiano.

Bisogna pur aggiungere che in qualche modo e seppure parzialmente Marx riconobbe la bontà delle ragioni del Mazzini, allorché replicò che la sua critica era indirizzata alla tattica di Mazzini, ma vi era da ammettere che «la brutalità austriaca aveva fatto dell’insuccesso milanese il vero principio di una rivoluzione nazionale.»

 

Bibliografia:


C. Marx, I moti di Milano, New York Daily Tribune dell’8 marzo 1853.

D. Mack Smith, Mazzini. L’uomo, il pensatore, il rivoluzionario, Rizzoli, Milano, 1993.

F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848, Franco Angeli, Milano, 2004.

 

 

 

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